Stenio Solinas, classe 1951, scrittore e giornalista. In molti lo ricordano come uno dei vinti tra i vinti, uno degli animatori della cosiddetta Nuova Destra: tentativo fallito di riformare il mondo neofascista sul finire degli anni Settanta. Solinas, insieme ad altri, sognava – nel pieno degli Anni di piombo – un movimento che si rifacesse a un’idea aristocratica della vita, capace di superare gli steccati ideologici. Uno scandalo nell’ambiente. Una sovversione che lo aveva relegato tra gli esclusi del polo escluso. Ma Solinas sapeva fin da allora che tutte le rivoluzioni vengono tradite. E quella rivoluzione non fu da meno. Venne poi la carriera giornalistica, come caporedattore de L’Europeo, come responsabile delle pagine culturali del Giornale, come inviato… Ma questo è il Solinas che tutti conoscono.
Per me, invece, Stenio è e sarà sempre Jep Gambardella. Anni fa, nel leggere sul Giornale la sua recensione de La grande bellezza, ebbi una strana sensazione. In quell’articolo Stenio, nel ritrarre il protagonista del più fortunato film di Sorrentino, parve descrivere se stesso. Mi è capitata la stessa cosa, più di recente, nel leggere la prefazione di Piero Buscaroli a La guerra civile di Henry de Montherlant. Buscaroli, parlando di Montherlant, ritraeva se stesso. Sarà una malattia ereditaria, una malattia professionale. Una di quelle che si trasmettono solo tra scrittori.
Nostalgico e schivo uomo d’altri tempi, un po’ snob e un po’ annoiato, odia la volgarità e le cose banali. Solitario e sognatore, evita la folla, puntando al ricercato… alla memoria, alla grande bellezza perduta. È un incantevole disincantato. Sempre elegante, impeccabilmente vestito, si muove e parla lentamente, gesticolando lo stretto necessario e guardando negli occhi l’interlocutore solo di rado, come parlasse a se stesso. “Orgogliosamente timido”. Così si definisce. Una maniera della serie: io ve lo dico, almeno lo sapete e mi lasciate in pace; mantenete la distanza. Stavo parlando di Stenio Solinas o di Jep Gambardella? Difficile trovare la differenza tra i due, se non che il primo è un solitario più autentico rispetto al secondo – vero e proprio re dei mondani. Anche se molti affermano che Stenio assomigli (fisionomicamente) a Massimo D’Alema. È vero, ma non glielo dite. Non so come la prenderebbe.
Adora viaggiare. Ama gli irregolari e gli avventurieri. Termina ogni pranzo con grappa e sigaro. Sempre franco e sincero, non ha paura di dire ciò che pensa. Stenio ha fama di avere un brutto carattere, ma io che l’ho conosciuto non posso dire altrettanto. Per lui provo una certa ammirazione… a lui devo molto. La mia “educazione intellettuale” si è in gran parte compiuta leggendo il suo Compagni di solitudine. Sono letture che non si dimenticano, che ti rimangono addosso. Oppure il suo Per farla finita con la Destra: un titolo un programma, che condividevo da tempo. Una delle prime volte che ebbi modo di parlargli gli dissi: “Ti dovrei querelare!”. E lui, sorridendo, mi chiese perché. “Perché hai scritto quello che pensavo, molto prima di me e molto meglio di quanto avrei potuto fare io”. Grazie a lui ho scoperto autori dimenticati o sconosciuti in Italia come Chateaubriand, Wyndham Lewis, Henry de Monfreid, che erano più che autori: modelli umani da (in)seguire. Ma anche scrittori proibiti come Céline, Brasillach, Drieu La Rochelle; letti dopo suo indiretto consiglio, tramite il giusto approccio, la giusta chiave di lettura. Non tanto politico-ideologica, quanto letteraria-sentimentale. Qualche esempio lo si trova sfogliando il suo Compagni di solitudine, un ossimoro che spiazza, un titolo scandaloso per un ambiente di camerati. “A me piacevano gli scrittori trasversali… le destre della sinistra… le sinistre della destra…”. Per lui Hemingway è un “camerata inconsapevole”, Chateaubriand “uno della mia generazione e della mia parte”, Céline è “il pazzo della destra”, ma anche “il più amaro eppure il più poetico, in apparenza il più cinico e invece il più indifeso”. E poi: “chi se ne fotte se Nabokov è di destra o di sinistra, è un grande scrittore e tanto dovrebbe bastare”.
Ricordo il giorno in cui andai a casa sua. Mostrò, a me e agli altri ospiti, l’interno della copertina di un quaderno in cui compariva – con l’inconfondibile calligrafia – la prima stesura scritta a mano del suo ultimo libro. Cosa che rivelava il suo tratto di anti-moderno. Tratto che si era già mostrato quando lo vidi la prima volta, in occasione della presentazione del suo libro Da Parigi a Gerusalemme. In viaggio con Chateaubriand. Nel presentarlo gli porsero il microfono, che lui, prontamente, rifiutò – un po’ seccato da quella volontà di sfoggio tecnologico fuori luogo, dato che il pubblico contava pochi presenti. “Preferisco parlare a voce” disse.
Stenio rappresenta una rarità e un’anomalia. Uno dei pochi, “grandi vecchi” rimasti… I vecchi di un tempo, quelli per cui il bianco dei capelli è segno distintivo di saggezza, figlia dell’esperienza vissuta. Oggi invece paiono tutti vecchi rincoglioniti. E poi Stenio rappresenta l’Italia. Nato a Roma (capitale), è figlio di padre sardo e madre calabrese, ma vive a Milano. In lui è condensato tutto il nostro Paese: il Nord, il Centro, il Sud e le isole.
Aspettavo da sempre l’occasione – sperando non divenisse la mia occasione perduta – di scrivere queste cose di lui, per rendergli omaggio come si deve. Di persona non ci sarei mai riuscito. Si sarebbe sottratto, sarebbe arrossito. Lui è orgogliosamente timido. Ora ho la mia occasione e non me la lascio scappare. Un’intervista con lui per l’uscita del suo ultimo libro prevista per il 4 giungo 2020. Forse il più intimo, sicuramente il più corposo (848 pagine!). Atlante ideologico-sentimentale, GOG Edizioni. Di una cosa sono certo. Lui, come Jep un tempo, ha avuto la sua occasione perduta. Anche lui conserva nella mente e nel cuore l’immagine di una giovane ragazza, coi capelli al vento, sugli scogli, col mare sullo sfondo… Ma questo non glielo posso chiedere. Lui è orgogliosamente timido e io non amo essere invadente. Per me Stenio è e sarà sempre Jep Gambardella.
Cominciamo subito con la prima domanda, che mi sono sempre fatto e che non ti ho mai chiesto. Ti senti più un giornalista o uno scrittore?
Non bisogna confondere il giornalismo con la scrittura. Ci sono stati grandissimi giornalisti che non hanno mai scritto una riga o quasi, o che quando scrivevano erano mediocri. Il miglior direttore del L’Europeo resta Tommaso Giglio, di cui nessuno ricorda un articolo, il più bel Corriere della Sera lo diresse Franco Di Bella, idem come sopra. Nella storia del giornalismo Eugenio Scalfari rimarrà per aver fondato La Repubblica, non per la pletora di libri inutili a sua firma… Più in generale, il giornalismo è il mestiere nobilmente umile di chi non appare, ma è fondamentale per il suo compiersi: la scelta degli articoli, la titolazione, la messa in pagina, etcetera. Di questo “mestiere” io ho fatto parte senza prestarvi troppa attenzione: ne conoscevo i fondamentali, li ho praticati, ma al fondo mi annoiava, anche e soprattutto nel suo essere, come dire, un mondo fine a se stesso: non c’è nulla di più noioso di due giornalisti che parlano del loro lavoro… Questo mi riporta in qualche modo alla tua domanda iniziale, nel senso che per chi ama scrivere, e non ha, come si diceva una volta, beni al sole, il giornalismo è una scorciatoia, tanto più obbligata in un Paese dove, per tutta una serie di motivi che sarebbe troppo lungo spiegare, di sola scrittura non si vive. Ed è una scorciatoia battuta e popolata di nomi illustri del nostro Novecento letterario che ci siamo da poco lasciati alle spalle, tutta gente che ha trovato nel giornalismo lo strumento attraverso cui vivere e insieme dar sfogo alla propria passione… Naturalmente, proprio perché è una scorciatoia, ha i suoi rischi e i suoi limiti: la ripetitività, l’eccessiva semplificazione, il cliché, il tirar via, il monetizzare come unico scopo… Per quel che mi riguarda, una volta presala, non appena ho potuto mi sono cercato un’altra strada tutta mia, il cui percorso aveva a che fare con le mie passioni e le mie curiosità, le mie speranze e persino le mie ossessioni. A questa ho, se si vuole, sacrificato una carriera giornalistica nel senso stretto del termine, ma siccome della carriera non mi importava niente, non è stato poi un gran sacrificio. Volevo altro e, nel mio piccolo, l’ho avuto.
Una volta hai scritto che la professione del giornalista è passata da mestiere aristocratico a mestiere ormai proletario. Come te lo spieghi?
Quando io ho cominciato, un buon numero dei quotidiani italiani aveva uffici di corrispondenza all’estero e lungo la penisola, spedivano inviati in giro per il mondo, pagavano reportage di free-lance con compensi adeguati. Numericamente parlando, i giornalisti erano un élite i cui stipendi permettevano un buon tenore di vita. Sembra un mondo fiabesco, ma è stato così almeno sino agli anni Ottanta del secolo scorso, non dell’Ottocento. Il perché sia finito tutto ha cause molteplici: economico-imprenditoriali, sindacali, la concorrenza sempre più massiccia di nuovi strumenti di comunicazione di massa, etcetera. C’è però un elemento che non si sottolinea mai abbastanza: la carta stampata, come del resto l’editoria, è un campo in cui occorre una sensibilità particolare. I giornali non sono saponette, la logica pura e semplice del profitto funziona fino a un certo punto. O meglio, se insegui solo quella, cosa scrivi diventa secondario rispetto a cosa vendi. Ma qui il discorso si farebbe troppo lungo…
Parliamo un momento di te. Stenio non è un nome che si sente tutti i giorni. È un po’ come Indro. C’è n’è uno solo, non se ne sentono altri. Qual è l’origine del tuo nome?
Mio fratello si chiamava Raoul, altro nome “strano” in una famiglia del Sud, madre calabrese, padre sardo, dove i nomi dei bisnonni e dei nonni da far rivivere nei bisnipoti e nei nipoti spesso si rivelavano incongrui: Pantaleone, Gesuino, Baingio, Bachisio… È stato in fondo un modo paterno di rompere una tradizione. Nomi letterari, anche. Raoul viene dal Visconte di Bragelonne, di Dumas, Stenio è nell’Eneide… È anche vero però che mio padre era un militare, non un professore di francese o di latino, e forse queste sono spiegazioni da lui aggiunte a posteriori. Magari, e chissà, c’erano altri perché…
E della Nuova Destra che mi dici? Come ricordi quell’esperienza, e cosa ne rimane oggi?
Detto nella maniera più concisa possibile, fu il tentativo di uscire dal cosiddetto tunnel del fascismo e, naturalmente, del neofascismo. Rivedere il sole, insomma, e abbronzarvi una pelle nuova. Rimettere in discussione anche una dicotomia destra-sinistra che ci sembrava superata: si voleva essere altrove, essere qualcosa di più e di diverso. Quel che rimane oggi credo sia una maggiore curiosità e libertà di pensiero, il non accontentarsi di steccati intellettuali e/o ideologici. Ti confesso però che parlarne non mi appassiona. Sulla ND sono stati scritti dei libri, discusse delle tesi di laurea…
Passiamo allora alla tua esperienza di inviato. Il Giornale del 7 marzo 2009 intitolava così un articolo: “L’Iran ha espulso Solinas, inviato del Giornale”, in quanto l’agenzia Fars affermava che scrivessi pezzi prevenuti. Cosa avvenne in quella curiosa circostanza?
Entrai con un visto turistico, per girare indisturbato, il mio primo reportage uscì in Italia che ero ancora in Iran. Quando da Isfahan rientrai a Teheran, mi sequestrarono il passaporto, mi interrogarono per tutto un pomeriggio e poi mi espulsero. Incerti e/o imprudenze del mestiere…
Come ci si sente ad essere un inviato, oggi che di inviati non ce ne sono quasi più?
Mah, cosa vuoi che ti dica. Ha a che fare con lo stato del giornalismo oggi, la sua trasformazione, ne ho già accennato. Un reportage comporta delle cose da raccontare e il saperle raccontare. È sul secondo punto che ho le maggiori perplessità. C’è una sciatteria di linguaggio, una povertà che balza agli occhi. Inoltre, per saper scrivere bisogna saper leggere, e anche qui il panorama non è dei più confortanti. È anche vero però che persino nel deserto fioriscono le rose.
E questo tuo Atlante ideologico-sentimentale, è più una raccolta di articoli o un’opera in sé?
Raccolta di articoli è una formula ambigua. Il Volga nasce in Europa, di Curzio Malaparte, gli Scritti corsari, di Pierpaolo Pasolini, i Sillabari, di Goffredo Parise, Gusto neoclassico, di Mario Praz, potrei continuare l’elenco all’infinito, cosa sono? Strettamente parlando, mettono insieme scritti prima apparsi in quotidiani, settimanali, mensili, ma il loro risultato è quel qualcosa di diverso che si suole definire un’opera in sé… E dunque? Questo Atlante, idealmente, è nella linea di quegli esempi prima citati. Certo, ci sono anche i “ricicci”, le compilazioni, gli assemblaggi di ritagli… Ma che ne parliamo a fare?
La tua dedica in esergo al libro va a Gabriele Ghezzi, amico e maestro. Chi è Gabriele Ghezzi?
Da metà degli anni Ottanta io ho a Milano una ristretta cerchia di amici, una conventicola, una banda, un ordine, chiamiamola come ti pare. Al suo interno ci si intende senza nemmeno bisogno di parlare. Ogni tanto c’è qualche nuovo, felice ingresso, ogni tanto qualche uscita, causa di forza maggiore, si muore, insomma, e purtroppo. Di quest’ordine Gabriele Ghezzi è stato il più solare, divertente e divertito, il meno intellettualmente pesante (gli intellettuali sono tutti pesanti) perché il più buono, nel senso migliore del termine, nessuna invidia né ambizione. Se n’è andato un anno fa, curato fino all’ultimo dall’amore della sua famiglia, la moglie Laura, i figli Stefano e Daniel, sopportando l’insopportabile con una pazienza e una dolce fermezza che a ripensarci mi lascia senza parole. La dedica è un presente a chi non c’è più, ma c’è per sempre.
Tra le pagine del libro spunta fuori il nome di Piero Buscaroli, altro tuo amico e maestro. Come è stato lavorare con lui?
Piero Buscaroli fa parte dei miei vent’anni, i Settanta ideologici dove, per chi come me non era nella corrente giusta, scrivere era difficile, se non impossibile: scomparivano i giornali cosiddetti di “destra”, restavano chiusi quelli conformisti d’area moderata, irraggiungibili i grandi quotidiani d’informazione, che comunque strizzavano l’occhio a sinistra. Per quanto ha potuto, Buscaroli ha cercato di aiutarmi. Vent’anni dopo, al Giornale, ho cercato di sdebitarmi. Era un carattere difficile, ma per litigare bisogna essere almeno in due, e io con lui non volevo litigare… Non c’era amicizia, perché a vent’anni è difficile essere amico di chi ha il doppio della tua età e viceversa. E poi, l’amicizia nasce anche dalla frequentazione e, vivendo oltretutto in città diverse, questa è stata poca. C’era però ammirazione. Da parte mia, naturalmente.
Nella sezione dedicata all’Italia c’è un capitolo dedicato a Villa Adriana. Quale significato ha per te questo luogo?
È un pezzo che credo chiuda bene quella prima parte. Ha a che fare con le rovine e con la memoria, con le civiltà che muoiono, con l’arte che si illude di farle rivivere.
E le donne da te ritratte nel libro, perché sono tutte donne fatali?
Ti rimando alla Fenomenologia (della donna fatale) che apre la sezione. Del resto, l’elemento femminile più attraente è la pazzia, anche se non nel senso clinico del termine. Le donne piatte lasciano il tempo che trovano.
Ma parliamo un po’ di attualità. Non abbiamo avuto modo di incontrarci per questa intervista, a causa dell’emergenza per il Covid-19. Come stai vivendo questa clausura forzata? La soffri, come amante dei viaggi, oppure non la patisci, essendo un solitario?
La solitudine è piacevole se voluta, non se imposta. Ogni imposizione scatena in me l’impulso alla trasgressione, e certo non sono di quelli che credono che l’importante è vivere. No, importante è come scegli di vivere. Detto questo, e adesso che cominciamo a uscirne, non credo agli scenari apocalittici che sento evocare, anche se, certo, economicamente sarà dura. Comunque, la science-fiction non è fra le mie letture preferite.
Conrad, Dalì, Fitzgerlad, Limonov, Márai, Hemingway, Jünger, Keller… Rifarsi a qualcuna delle vite esemplari raccolte nel tuo Atlante può essere utile ad affrontare il presente e il futuro? O sarebbero solo esercizi adolescenziali, privi di fondamento?
Perché esercizio adolescenziale? Non si finisce mai di imparare, c’è sempre qualche esempio, vero o letterario, che ci fa dire ecco vorrei proprio essere così, dovrei sforzarmi a essere così… Aiutano a vivere, ci fanno crescere, essere migliori.
Ma anche Ingmar Bergman, Clarke Gable, Stanley Kubrick compaiono tra le eminenti vite da te raccolte. Come è nata la tua passione per il cinema?
Appartengo a una generazione che ha passato la sua adolescenza al cinema. C’erano i cinema di prima, seconda e terza categoria, i cosiddetti “pidocchietti”, come si chiamavano a Roma. C’erano le sale parrocchiali, i cineclub, i cineforum… I film stavano su per mesi, c’era una sala, il Mignon, che tutti i giovedì dava soltanto Totò… Si poteva entrare a film già iniziato, si poteva restare a film finito e così rivederlo, si poteva andare al cinema al mattino, facendo sega a scuola. Si fumava in sala, ci si andava con la ragazza e allora si faceva tutto tranne che guardare la pellicola… Ho detto adolescenza, ma dovrei aggiungervi anche l’infanzia. Alla televisione, al mattino, durante la Fiera di Roma, quella di Milano, al sabato e alla domenica trasmettevano un film e nei cinema parrocchiali non c’erano solo i film edificanti, ma quelli d’avventura, i film storici e i cartoni animati. E poi, le arene estive, quelle classiche all’aperto, quelle con il soffitto che si apriva e si chiudeva a seconda del tempo, se faceva caldo, se si metteva a piovere. C’è un bel libro autobiografico di Marco Risi, il figlio di Dino Risi, Forte respiro rapido è il titolo, che racconta molto bene quel periodo, quell’educazione sentimentale e cinematografica. Io e Marco Risi abbiamo la stessa età e suo padre era nato lo stesso anno del mio. So di cosa parla, so che è un’Italia scomparsa, so che, per un ragazzo, era un’Italia migliore rispetto a quella vissuta da chi è nato dopo.
E quella per il buon cibo, i bei ristoranti, le ricette d’autore?
Nell’Atlante riporto una frase di Paul Morand a proposito di Roger Nimier, un grande scrittore il primo, un talento bruciato troppo presto il secondo, morto in un incidente d’auto a 37 anni. La frase è la seguente: “Mangiare lo annoiava, la cucina lo divertì; beveva a casaccio, gli ho fatto leggere la lista dei vini”… Ecco, leggere certi libri e certi autori, frequentare determinate persone ha avuto su di me lo stesso effetto, mi ha dirozzato, mi ha educato il gusto, mi ha permesso di confermare o rifiutare realtà prima sconosciute. Una scuola di vita, insomma.
Una ricetta a cui sei particolarmente legato?
Gli spaghetti agli scampi di mia madre, il fagiano ripieno di mio padre. Come vedi, correggo e integro la risposta che ti ho appena dato, nel senso che c’è comunque un imprinting di base, una sensibilità come punto di partenza. Puoi frequentare i ristoranti più rinomati e restare egualmente l’irrimediabile cafone di sempre. Questo naturalmente non vale solo per la buona tavola.
Mi risulta però che tu abbia una certa predilezione per le macchine d’epoca e che tu ne possegga una. Che tipo di macchina è?
Più che una macchina d’epoca, è una macchina vecchia… È però vero che in passato ho avuto una Due cavalli, una Triumph, un Duetto. La prima l’ho sfasciata contro un camion, l’ha seconda l’ho fusa dopo un viaggio in Italia, la terza l’ho regalata a un vecchio amico di famiglia… Guido poco, mi annoia, guido male, sono distratto, più in generale guido se non posso fare altrimenti. Fra l’altro, credo di essere fra i pochi, se non l’unico, a essersi capottato con un go-kart sulla Pista d’oro, subito fuori Roma… Sono state, comunque, tutte auto di seconda mano, compresa l’attuale, e nella scelta c’è di sicuro un elemento estetico, tutte delle spider, tranne la prima, ma come dire, limitato. Non farei mai una pazzia per una macchina, non ne ho il feticismo, mi stufano i fanatici del motore e della velocità.
Dato che ami viaggiare. Dove ami trascorrere le vacanze?
Mi piace viaggiare perché mi schiarisce le idee, mi allontana dalla routine del quotidiano, mi costringe a venire a patti con quella che è una mia inguaribile predisposizione alla pigrizia, ovvero all’ozio, se vogliamo darle una patente di nobiltà. Ma viaggiare non è propriamente andare in vacanza, anche se a questo termine non so bene quale significato dare. In fondo, faccio un mestiere che è un’eterna vacanza: non ci sono orari, non timbro il cartellino, etcetera, vengo pagato per un’attività, lo scrivere, che mi piace e che farei anche gratis, cosa che del resto ho sempre fatto e continuo ancora a fare quando non si tratta, come dire, di una prestazione d’opera, di una retribuzione puramente professionale, da logica di mercato insomma. Per quanto abusata e ormai un po’ stantia, quella massima che dice “fare il giornalista è sempre meglio che lavorare” conserva, per quello che mi riguarda, ancora una sua verità. Bene, sperando che chi mi paga lo stipendio non legga questa intervista, quanto al resto della tua domanda lo riassumerei così: mi piace il caldo, mi piace il mare. Negli anni Sessanta, uno scrittore che amo molto, Gabriel Matzneff, vagheggiò l’idea di fondare un movimento, “Il sudismo”, che aveva la civiltà del Mediterraneo, il sole e l’acqua come elementi ineludibili. Ecco, senza che allora ne avessi conoscenza, io sono stato un “sudista” fin da bambino.
E la tua passione per la Francia, che occupa una sezione importante del libro, da dove deriva?
Alle medie ho studiato francese come lingua straniera, e poi al ginnasio. La mia prima fidanzata andava allo Chateaubriand, il liceo francese di Roma, la mia prima gita scolastica è stata a Parigi, la Nuova Destra nacque perché alcuni dei suoi membri, grazie appunto alla conoscenza della lingua, erano entrati in contatto con la Nouvelle Droite di Alain de Benoist nata qualche anno prima… Come vedi, c’è un insieme di ragioni, anche banali, dietro quella preferenza. Poi, certo, c’è un’attrazione culturale: la Francia, la sua storia nazionale, il prestigio stesso della sua lingua e della sua letteratura, era tutto ciò che l’Italia della mia giovinezza (ma non è che adesso sia molto diverso) non aveva: l’orgoglio della sua storia. Ce l’aveva con più fascino degli inglesi, suoi rivali da sempre, e con un’attenzione al ruolo e al peso degli scrittori che quest’ultimi non hanno mai avuto. Paradossalmente, è stato proprio quell’ ”orgoglio” a farmi capire meglio l’Italia, il suo passato, voglio dire, il suo essere un fragile vaso di cristallo lungo i secoli, sempre sul punto di spezzarsi e sempre oggetto di artistica ammirazione, una seduzione frutto della bellezza opera dell’uomo e della bellezza opera della natura. Gli stranieri venivano per conquistarla e ne restavano conquistati, semplicemente. Uno dei paradossi è che gli ammiratori più sfrenati e più ciechi dell’Italia siano proprio i francesi. E così, il cerchio si chiude.
C’è però Cannes di cui non abbiamo parlato. Un luogo che convoglia la tua passione per il Cinema, la Francia, il viaggio, oltre al tuo lavoro di giornalista, dato che ti rechi ogni anno come inviato, in occasione del Festival…
Sì, per certi versi, Cannes, nel senso del Festival, è la parte per il tutto. Mi piace il cinema, ma non sono un cinéphile nel senso stretto del termine, la specializzazione che si fa mania. Il ricordo più bello che ho dei tanti anni che l’ho seguito come inviato, non è legato a questo o quel film, ma al rituale che, con un paio di carissimi amici, celebravamo a ogni apertura e chiusura del Festival: il Plateau Imperial di ostriche e frutti di mare mangiato da Astoux et Brun, il miglior ristorante cittadino di crustacés et coquillages. Come vedi, si torna al “sudismo” di cui sopra…
Per concludere col tuo Atlante. C’è una vita più esemplare di altre, tra quelle da te inserite nel libro, a cui sei particolarmente legato? E se sì, perché?
Patrick Leigh Fermor. A vent’anni aveva attraversato l’Europa, a trenta era un eroe di guerra. Non ha mai lavorato in vita sua, si costruì una splendida casa in un angolo meraviglioso di Grecia, era bello, ebbe belle donne, visse bene sino a novant’anni, scrisse bei libri. What else?