È compito da psicanalisti comprendere cosa ci faccia stare incollati a guardare Squid Game, spettacolo ansiogeno e triviale; brutale pastiche di vita reale e già visto. Un tempo la televisione era il luccicante regno di paillettes e disimpegno; dei varietà scollacciati, delle commedie demenziali e telefilm d’azione. Chissà cosa scriverebbe oggi la Scuola di Francoforte riguardo lo “svago oppio dei popoli” di fronte all’angosciante serialità che domina il mercato dell’intrattenimento domestico. Sembra quasi che ormai, latenti masochisti incatenati al divano, assuefatti alla tensione da crisi permanente, siamo incapaci di evadere dall’hic et nunc persino nella scelta dei prodotti culturali da consumare.
I primordi erano già rintracciabili, in effetti, in alcuni serial d’antan con protagonisti costretti a una continua lotta per la sopravvivenza – da Il fuggitivo americano in fuga dalla (mala)giustizia a Il prigioniero, ex-spia britannica confinata su un’isola da cui non si può scappare –, fino ai più recenti e noti fratelli Burrows di Prison Break. Ma solamente con l’affermarsi delle internet-tv la situazione improvvisamente si fa davvero claustrofobica.
Eliminata ogni pausa morta e qualunque allentamento della tensione, azzerata l’attesa settimanale per la nuova puntata che permetteva d’interiorizzarne gli avvenimenti; oggi il flusso digitale continuo ed inarrestabile – chiara metafora del nostro tempo iper-connesso – ci obbliga, di fatto, a consumare lo show tutto e subito come se il Canale stesso non fosse altro che un all-you-can-eat dal quale non ci si possa alzare prima d’esserci inverecondamente ingozzati. La “serie”, d’altronde, incarna perfettamente tutte le caratteristiche di omogeneizzazione dell’industria economico-culturale: data di uscita universale, plurilinguismo, uniformità di target e contenuti, simboli culturali semplicistici e assoluto materialismo del fine. Ecco allora come non sia un caso che a sgretolare il precedente record mondiale di ascolti detenuto da La casa di carta sia proprio Squid Game con più di 100 milioni di apparecchi raggiunti nel primo mese. Balzano immediatamente agli occhi, infatti, le similitudini tra i due prodotti entrambi non-statunitensi: tute e maschere pressoché identiche, location “bunker”, una forma di “terrorismo controllato” e, last-but-not-least, un grande premio in denaro, tanto denaro. Insomma: una perfetta esemplificazione di un Occidente che non si riassume più in un territorio specifico, ma come semplice espansione planetaria della parte più “mondializzabile” della società americana.
Il gioco del calamaro coreano non presenta nulla di apparentemente nuovo. Un crudele e violento show dove i giocatori periscono, in effetti, sembra diretta filiazione di Battle Royale, Hunger Games; di quel The running man – scritto da Stephen King sotto pseudonimo – che venne trasposto nel mediocre L’implacabile conArnold Schwarzenegger e, andando a ritroso, perfino del visionario La decima vittima dove Petri diresse la televisiva sfida mortale tra Marcello Mastroianni e Ursula Andress. Eppure, a ben guardare, esiste una fondamentale differenza: Squid Game infatti non si presenta come un “gioco”. Non vengono fornite regole ai giocatori ma contratti da firmare. Non è neppure chiaro lo scopo del gioco: ai partecipanti non è mai esplicitato apertamente che il vincitore sarà l’ultimo rimasto in vita. Le sfide, inoltre, cambiano di volta in volta, obbligando a seconda dei casi, a cooperare; a eliminarsi vicendevolmente o a dividersi in squadre contrapposte. Ciò che invece appare lampante è il costante sprone che spinge i personaggi verso la morte. Il ben visibile maialino-salvadanaio translucido sopra le loro teste che si riempie di denaro contante a ogni eliminazione di giocatori rivela, con la sua mortifera contabilità, l’essenza stessa della competizione. Si comprende allora come ogni partecipante abbia un identico “valore” monetizzabile prefissato arbitrariamente.
In realtà, però, non è tanto il montepremi ad attirare i protagonisti ma l’enorme fardello di debito che portano sulle loro spalle. È il debito l’autentico e unico motore dell’azione; non un debito da riscattare – i misteriosi finanziatori mascherati da animali, infatti, non devono essere risarciti –, quanto l’impossibilità di andare avanti assediati dai creditori nella vita reale. È il debito che nella società iper-competitiva e classista corean-occidentale fa loro preferire la morte piuttosto che tornare a casa sconfitti. “Fuori è peggio di qua” ammettono sconsolati i giocatori.
Squid Game,in effetti, non è altro che la plastica rappresentazione del più sfrenato neoliberismo; un Sistema che si presenta a tutti gli effetti come erede della lezione hobbesiana ponendosi come garante della sicurezza individuale e, infine, difensore di una “democrazia meritocratica”. Un Sistema “ludico” e regressivo che non ha volto – le guardie indossano maschere rappresentanti i simboli-gradi copiati dalla Playstation come pure il loro “boss” – e che si svolge all’interno di un’architettura dalla prospettiva impossibile fuoriuscita dalle incisioni di Escher. Un “gioco”, insomma, senza alternative a cui non si può sfuggire se non, ovviamente, morendo. In apparenza il contratto (sociale) firmato include la possibilità di cessare la competizione nel caso la maggioranza decida in tal senso. “Non tollereremo alcun atto che ostacoli questo processo democratico” dichiarano le guardie armate e, inizialmente, quando il voto (palese) boccia il gioco, gli elettori-giocatori tornano a casa prima d’essere richiamati a parteciparvi. E più dell’80% decide di ri-farlo whatever it takes, rinnegando d’un tratto la scelta precedente perché, in fondo, il funzionamento del mondo reale – al di fuori del “gioco” – è esattamente identico con la differenza che neppure in sette vite guadagnerebbero la cifra destinata al vincitore.
La pecunia insomma ma non solo, perché le prove infantili – giochi per bambini a sottolineare, non a caso, il carattere puerilmente egoistico del capitalismo – sarebbero di per sé forma di autentica meritocrazia, in quanto uguali per tutti. La “giustezza” del Sistema, quindi, si rivela nel fornire la stessa tuta e gli stessi strumenti, rendendo in tal modo ognuno “artefice del proprio destino”, ignorandone (falsamente) le differenze biologiche e culturali. Seguendo quindi la lezione di Hobbes il Gioco-Sistema è la Legge causa dell’ordine all’interno dell’arena e non viceversa. Una nomocrazia ludopatica senza morale o regole come emerge chiaramente nel momento del ritirarsi delle guardie per la notte. Lo spegnersi delle luci (e della sorveglianza armata) riporta i giocatori allo stato selvaggio di natura, facendo scatenare la violenza dei più forti e organizzati contro i deboli, dimostrando inconfutabilmente che è il gioco stesso a garantire la sicurezza dei concorrenti. Ovviamente non è così, anzi, è la monetizzazione e reificazione insita nel gioco a spingere all’eliminazione fisica dei concorrenti in chiave mors tu vita mea, perché è lo stesso Sistema a imporre le sue regole implicite.
Abbiamo quindi davvero bisogno di partecipare all’innocuo Squid Game organizzato in questi giorni al centro culturale di Abu Dhabi per vincere la tuta verde numerata? In fondo, la indossiamo già tutti i santi giorni.