OGGETTO: Siamo un Continente sotto assedio
DATA: 14 Novembre 2025
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Analisi
AREA: Europa
In un mondo segnato da polarizzazioni interne, crisi della democrazia e pressioni esterne generate dall’universalismo occidentale, l’Europa appare un vaso di coccio tra potenze inquiete e identità in conflitto. Per evitare nuove derive e preservare la propria autonomia culturale, il Continente deve recuperare realismo, responsabilità e la propria tradizione di saggezza storica, coltivando dialogo, misura e limiti nel potere, per navigare un ordine globale sempre più instabile e imprevedibile oggi.
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Riniziato l’anno lavorativo (quello che fa Capodanno il 15 d’agosto, per intenderci), è riniziato anche il tour di Vittorio Emanuele Parsi tra associazioni, festival culturali e università italiane. Il filo conduttore del suo discorso pubblico è lo zeitgeist d’Europa: l’assedio. La democrazia è (ormai eternamente) assediata dalle polarizzazioni e dai sovranismi; l’ordine tutto è assediato da un lato dal trumpismo, e dall’altro dai molteplici revisionismi dei tanti scontenti dell’invadente egemonia americana. In mezzo ci siamo noi rimlandiani (definizione alternativa ma altrettanto operativa di Occidente), tra cui noi Europei, gli unici che le ingenuità, quando non le angherie, d’oltreoceano, le hanno sempre accettate di buon grado. Un po’ per affinità elettiva, un po’ perché gli Stati Uniti han sempre goduto del gioco di rimessa: lontani da tutto, più sicuri di tutti, han sempre potuto condursi con mano più morbida sui compagni di avventure. Scomparsi anche loro, rimaniamo il vaso di coccio tra gli assedianti. Quindi, ci conviene fare un passo indietro e capire la situazione. Giusto da non rimanere stupiti, per l’ennesima volta, per ciò che accadrà domani.

Qual è il framework che porta a dedurre l’assedio? La base è fondata sull’ideologia: politica, culturale ed economica. Una variazione sul tema del prisma wilsoniano: democrazia, economia di mercato, società aperta, istituzioni per la negoziazione pacifica delle controversie ovvero per la sicurezza collettiva. Schemi mentali che hanno sostituito quelli etno-nazionali e razziali dell’Europa degli imperi e che, come giustamente rilevato, hanno acconsentito ad un’estensione potenzialmente universale dell’Occidente.

E qui c’è forse la prima radice, quella dell’assedio della polarizzazione: se in America Democratici e Repubblicani non si sposano più, è perché l’approccio ideologico ha fatto sì che il nazionalismo etnico sia diventato politico. Sembra quasi naturale a questo punto che le dinamiche d’odio e di separazione si riproducano. Per quanto sia lo stesso framework ideologico a sembrarci dotato di proprietà taumaturgiche sugli istinti antropologici, la realtà è che queste idee sempre in mano ad esseri umani stanno, e così non ci si può stupire che il nuovo nazionalismo sia virulento almeno quanto il precedente.

Un caso scuola è l’evoluzione del contesto georgiano negli anni Duemila, dove separatismi etnici e imperialismi “in miniatura” (secondo una sagace formulazione di Sakharov) si sono trasformati, senza soluzione di continuità e per tramite del presidente neoconservatore Saakashvili, in una contrapposizione motivata dell’ideologia politica. Ma d’altronde lo stesso è avvenuto in Ucraina, sta avvenendo in Moldova, e in Georgia. L’Europa orientale è un laboratorio incredibile per vedere davanti ai nostri occhi e con ingrandimento moltiplicato quella congiuntura che in Occidente è stata molto più diluita nel tempo e contrastata da varie spinte opposte.

La caratteristica del pensiero ideologico è che salda tutto assieme in un’unica narrazione in cui tutto si tiene assieme. E invece i problemi interni sono distinti da quelli esterni: la delegittimazione delle democrazie, la polarizzazione, i sovranismi, così come l’approccio idiosincratico alle armi dell’Europa, hanno radici interne, che preesistono e sono indipendenti da Trump, dalla Russia, dalla Cina e da chi volete. E queste minacce esterne non puntano direttamente ad indebolirci come se fosse il motivo per cui i dittatori di tutto il mondo si alzano la mattina, ma si muovono anch’esse per motivi interni; al limite, in queste debolezze vi trovano un obiettivo tattico in quanto ventre molle.

La radice dell’assedio interno è in buona parte strutturale, e assalta costantemente la legittimità dei regimi liberali: permanenza di poteri invisibili, permanenza di poteri (più) forti, più uguali di altri, insufficiente diffusione del principio democratico, cittadini ineducati alle materie della gestione pubblica, incapacità (e, ad un certo punto, impossibilità intrinseca) della politica a rispondere ad un numero sempre crescente di domande politiche, di richieste economiche e di diritti. Questi erano i temi di un importante convegno torinese sulle promesse non mantenute della democrazia. Data: 1984, non esattamente l’altro ieri.

Come forma di limitazione del potere poi, è pacifico che la conflittualità e l’instabilità interna siano la cifra della democrazia: d’altronde democrazia è la “costituzionalizzazione del diritto alla resistenza”; è la società contro lo Stato, che tenta di trasformare lo Stato da creatura mostruosa quanto necessaria all’ordine (della comunità), a fornitore di servigi (per l’individuo).

Dunque, la conclusione è quella dei tempi di Titanic: alla crisi interna la soluzione magica non c’è. Serve un costante lavorio informato da un minimo di integrità morale: attenzione ad ogni arretramento della libertà, impegno per ogni riduzione delle discriminazioni. Niente di più elaborato, niente di più difficile.

Ora tocca invece sviscerare le radici dell’assedio esterno, e qui la faccenda si fa ancora più ostica. Teoricamente, il meccanismo originale sarebbe stato trovato già ottant’anni fa, ed è il nodo fondamentale dell’universalismo: l’immaginazione di una sfera di responsabilità (termine chiave dell’egemonia gentile americana, amministrativa quasi più che imperiale, in linea con la definizione del governante quale servitore del governato) senza limiti e basata su imperativi morali. Ed è purtroppo pacifico che sia nella sua natura accendere conflitti sempre più lontani nel mondo, per quanto sia emotivamente facile per noi immaginare diritti universali che trovano tutti d’accordo e in armonia (illusione già da un secolo messa in dubbio). Dichiarare un diritto ad interferire fin dentro alle capitali dei paesi più lontani e più diversi da noi difficilmente concilia il sonno dei loro leader, anzi li conduce verso la reazione conservatrice (per non dire difensiva, che avrebbe qui un significato ambiguo) e verso l’aggressione. E così si va realizzando da decenni la profezia che meno desideriamo: quella per cui siamo piccoli isolotti di pace “in un mondo lacerato dalla tirannia, dalla brutalità e dall’intolleranza”. Una visione della paura e della debolezza sempiterne, per cui saremo sempre un piccolo Eden circondato dalla giungla.

Roma, Novembre 2025. XXIX Martedì di Dissipatio

Il risultato è che oggi attorno all’Atlantico coesistono tre blocchi di grandi dimensioni, che tutti si sentono circondati, tutti si percepiscono in declino, e sono più o meno tentati dalla strada ideologico-identitaria come soluzione per la coesione. Ora, il declino relativo non può colpire entrambe le parti allo stesso tempo, a meno di non voler litigare con la matematica, e difatti il movimento storico delle sfere d’influenza nel medio periodo è ben visibile sulla mappa. Ad oggi l’Occidente ha la sfera d’influenza più ampia della storia, ed è anzi in crisi per sovraestensione, per inutilità di guerre combattute all’altro capo del globo. Non per assedio, semmai è affaticato dagli assedi, e pertanto ha tutto da guadagnarci in stabilità, anche interna, dal sapersi porre un limite nei propri desideri. Perché, se ogni successo al di sotto di quello totale è declino, allora la crisi sarà eterna.

L’Europa ha vissuto una strana illusione: sicura senz’armi, ma letteralmente circondata da esse. Da un lato non le volevamo (si pensi a tutti i movimenti pacifisti e non-violenti), dall’altro, dove non c’erano c’è stata guerra, mentre noi abbiamo vissuto in un santuario. Unici tra i grandi della storia, pensiamo di poter vivere senza; immaginiamo che siano le armi la radice dei mali. Eppure, di mali se ne sono elencati moltissimi, e di nessuno di questi le armi rappresentano la causa profonda. E viene difficile pensare che un Gheddafi qualunque (per non indugiare su esempi più ovvi e attuali) fosse preoccupato dalle armi dell’Occidente, e non dalla sua improvvisa volontà d’ingerenza (in gergo tecnico si chiama equilibrio delle minacce, raffinamento del più semplice equilibrio dei poteri). Lo stesso vale oggi.

Forse degli americani era meglio comprendere la saggezza strumentale che non quella storica (più che altro retorica); anche perché il tempo della saggia prevenzione nel teatro europeo è probabilmente passato; ora viene quello della saggia gestione, del palliativo, almeno nel medio termine. E invece, lo spostamento di Trump verso il centro ha lasciato uno spazio libero per l’Europa al lato estremo, la quale ci è prevedibilmente scivolata, forse per tattica diplomatica, per trovare un nuovo posto al sole, forse per inerzia e passività, forse e più preoccupantemente per tentazione identitaria, come accennato sopra.

E dire che di saggezza storica (non solo astrattamente filosofica), l’Europa ne aveva da vendere: la rovina dell’odio ideologico per la pace l’abbiamo compresa ben prima degli americani, così come la necessità del dialogo basato sul riconoscimento dell’uguaglianza morale col nemico. Ma questa saggezza significa anche vincoli morali nell’azione, per cui nazioni che fino a ieri promuovevano il dubbio sulle colpe storiche, la prudenza e la mitezza, non possono scoprirsi da un giorno all’altro ferventi crociati, qualsiasi sia l’idea sullo scudo.

E qui emerge l’ultima radice. Il pensiero ideologico è astorico e universale: si può applicare ad ogni contesto in ogni tempo, perché s’intende sovrastare ogni peculiarità. Così non è. L’Europa ha una tradizione di autonomia culturale e continuità politica da non far invidia forse solo all’Estremo Oriente (certamente, quelli che ci invidiano sono più o meno quelli a cui la continuità culturale siamo stati noi a tentare di distruggerla). Ammesso tutto quanto e fatta la penitenza, resta che anche nei momenti più bui, quando è degenerata in idee abnormi quanto fallimentari, l’Europa è stata capace di ricrearsi una propria narrazione peculiare; a farsi sovrascrivere dall’ideologia o da culture esterne proprio non ci è mai riuscita (e d’altronde, per continuare il parallelo, a giorno d’oggi nemmeno l’Asia filoamericana risulta livellata dal liberalismo (re)born in the USA).

È da sottolineare infine il timore sul crollo finale delle istituzioni del dialogo (l’ONU, i format sul controllo degli armamenti), ma il ruolo di norme e istituzioni è ricorsivo, e sono le idee in mano agli Stati ad avere il manico del coltello in mano. Qui, la saggezza europea consiglia di affrontare le minacce esterne con responsabilità, senza celebrazioni; di saper accettare politicamente anche ciò che non aggrada per inclinazione morale, ma superando parole d’ordine come l’ardimento e dimostrazioni varie di testosterone, che poco si addicono alla cultura europea, men che meno a quella italiana. Ma, nel frattempo, mantenere una visione storica ampia, in cui attori e livori prendono la giusta dimensione, perché si può chiudere una relazione amorosa e dimenticarsene per sempre, ma non si può far finta che uno Stato non esista più sulle carte. Gli Stati rimangono, vicini o lontani che siano, che ci piacciano o ci rivoltino, e ci si deve relazionare, sul serio. Se no di nuovo, si finisce tutti nel Donetsk.

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