OGGETTO: Naphta o Settembrini
DATA: 05 Maggio 2022
SEZIONE: Recensioni
FORMATO: Letture
“La montagna incantata” di Thomas Mann dà voce e corpo all’insanabile conflitto tra umanisti liberali progressisti e nichilisti rivoluzionari reazionari.
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La grande letteratura sovente è tale perché si traduce in una perenne attualità. Nel vortice delle emozioni e nel flusso di immagini disordinate, incoerenti, della moderna informazione di massa, dello spettacolo politico-mediatico tramutatosi in apoteosi del social network, in ironia sprezzante e in divisione tra bianco e nero costante e spietata, l’occhio umano si è disabituato all’incedere lento. Siamo estranei alle parole misurate. Alla riflessione che, come in un tempo sospeso, ci allontana dal vorticoso procedere della storia, dal chiacchiericcio. Risulta però difficile, poiché biologicamente e ormai inesorabilmente compromessi nelle nostre funzioni razionali ed intellettuali, calarci oggi nella contemplazione e nella viva emozione di giganti complessi, raffinati, come possono essere i romanzi di Thomas Mann. Egli ci invita ad impiegare con lentezza il nostro tempo, ad immergerci e a riflettere. Leggere Mann significa tramutarsi in moderni eremiti, separarci dalla velocità del mondo. Prenderci del tempo. Rinfrescare le nostre capacità cognitive compromesse dalle serie tv e dalle notizie perennemente a disposizione del nostro tocco. E forse, malati quali siamo, necessiteremmo anche noi di trascorrere il resto del nostro tempo tra le cime delle Alpi svizzere; ci rinchiuderemmo volentieri nel lussuoso eremo del Berghof, nell’ambiente vivace, accogliente, in cui si svolgono le vicende e la crescita spirituale ed intellettuale di Hans Castorp, protagonista de La montagna incantata

La montagna incantata (Corbaccio) di Thomas Mann

Questo romanzo è il punto di snodo di un’intera cultura europea prossima al cataclisma. La montagna con il sanatorio del Berghof, è il contesto in cui la cultura del Vecchio Continente, la sua aristocrazia destinata al collasso con la Grande Guerra, si gode gli ultimi bivacchi curandosi dalla frenesia «della pianura» – come in tono sprezzante vengono definiti i luoghi «dei sani». Ci si abitua a ritmi diversi da quelli «normali», fatti di lunghe sedute terapeutiche al sole di montagna, imbacuccati in calde coperte di cammello; di pasti abbondanti e numerosi, formati da due colazioni, pranzo, merenda e cena; di passeggiate, gite, feste e balli. Vere e proprie festicciole per malati, in un clima multinazionale che non lascia presagire le ombre del conflitto e la distruzione dell’Antico Regime. 

Giunto per far visita a suo cugino Joachim, il giovane Hans Castorp, ingegnere navale esponente di una ricca famiglia borghese tedesca, si ritrova rapidamente assorbito dall’universo del sanatorio. Vive esperienze d’amore, di sofferenza e di redenzione. Studia, si forma, cresce. Egli è il protagonista di uno dei più grandi romanzi di formazione nella storia della letteratura. Si confronta, soprattutto, con il cuore dell’intellighenzia europea. E ciò si intravede nel dialogo costante, poi nello scontro furioso, tra due esponenti della kultur del continente in decadenza. In fondo, pur tra mille distinguo, l’Occidente è ancora oggi il sanatorio multinazionale del Berghof. E le sue voci parlano ancora con i toni ottimistici, umanisti, progressisti e liberali di Lodovico Settembrini, o con la vivace intransigenza, nichilista, reazionaria e rivoluzionaria al tempo stesso, del suo rivale Leo Naphta.

Una parte considerevole de La montagna incantata dà voce e corpo a questo insanabile conflitto. Oggi siamo tutti Settembrini o Naphta. Nel pensiero dell’umanista italiano, Mann trascrive il meglio del razionalismo progressista europeo. Settembrini si pone immediatamente sprezzante nei confronti dell’apparente “nobiltà” della malattia, esaltando i progressi e le virtù del corpo, grazie anche alla scienza:

«Ma no, no! La malattia non è affatto nobile, non è affatto veneranda […]. La ragionevolezza e l’istruzione hanno messo in fuga queste ombre stagnanti sull’anima dell’umanità.»

D’altronde egli è di bell’aspetto. «Un sonatore d’organetto» come Castorp ironicamente lo descrive al suo primo incontro. Un uomo che vuol farsi tutore del giovane protagonista, «pupillo della vita», richiamato costantemente ai propri doveri di essere umano razionale. Ciò avviene anche a scapito delle passioni, improvvise, che travolgono Hans Castorp, innamorato perdutamente della russa Clavdia Chauchat. Ma ella è una donna orientale. Lontana dalla «piccola Europa Occidentale» come mentalità. Agli occhi di Settembrini, Castorp dovrebbe prenderne quanto prima le distanze:

«Non si regoli spiritualmente si di loro, non si lasci contagiare dai loro concetti, ponga invece la sua natura, la sua superiore natura contro la loro, e consideri sacro tutto quanto a lei, figlio dell’Occidente, del divino Occidente, figlio della civiltà, è sacro per natura e tradizione, per esempio il tempo!»

Le logiche da contrapposizione, al netto del sistema di alleanze prossimo a venire, dell’Occidente alla Russia zarista, riecheggiano – anch’esse molto attuali – nella lettura dell’italiano:

«Dove c’è molto spazio c’è molto tempo…infatti si dice che sono il popolo che ha tempo e può aspettare. Noi no, noi europei non possiamo. Abbiamo poco tempo, come il nostro nobile continente, articolato con tanto garbo, ha poco spazio, noi dobbiamo ricorrere alla precisa amministrazione dell’uno e dell’altro, allo sfruttamento, caro ingegnere! Prenda per simbolo le nostra grandi città, centri e fuochi della civiltà, crogioli del pensiero!»

È l’Europa occidentale del liberalismo, della tecnica e del progresso umano e civile a parlare. L’anima occidentale è figlia delle rivoluzioni e del positivismo. Una cultura che è pienamente capitalista, borghese e aspirante all’internazionalismo. Castorp ne è come ipnotizzato, pur esprimendo i propri dubbi, pur non riuscendo a sfuggire al fascino della Chauchat e della malattia, come concetto quasi metafisico. E d’un tratto i suoi dubbi trovano motivo di esprimersi. Dubbi che sono tutti di Thomas Mann, che prima di far esplodere nella tragedia del Doctor Faustus le contraddizioni della sua Germania, progressista e apollinea ma anche dionisiaca – ovvero devota all’autodistruzione – ad un tempo, ne traccia ne La montagna incantata le sue origini culturali.

In nuce al collasso della Germania e dell’Occidente vi è pertanto lo scontro che vede il progressista Settembrini opporsi a Leo Naphta. A differenza del primo, quest’ultimo è un uomo descritto da Castorp come di rara bruttezza. Se il primo è un massone, lui è un gesuita, nato nel cuore dell’Europa contesa, tra l’Impero asburgico e l’Impero russo. Nel duello tra i due si vede anche insorgere il paradosso di Settembrini, che pur essendo internazionalista e pacifista, vede come “necessaria” la guerra che contrapponga la civiltà alla barbarie, nonché il raggiungimento – da buon italiano – del Brennero, e l’odio mai sopito verso l’arcinemico austro-ungarico:

«Persino Voltaire fu favorevole alla guerra per la civiltà e consigliò a Federico II la guerra contro i turchi.»

Dichiara orgoglioso l’umanista, al che replica Naphta, nel suo cinico realismo:

«Che invece strinse un’alleanza con loro, eh, eh, eh. Che dire poi della repubblica universale? Rinuncio a informarmi dove vada a finire il principio del moto e della ribellione una volta che siano instaurate la felicità e l’unione. In quel momento la ribellione sarebbe un delitto…»

Repubblica mondiale borghese contro universalismo in salsa vagamente cristiana, supernazionale, rinvigorito dal moto spirituale-marxista della rivoluzione, e dal tono vagamente anarchico. Sul finire del romanzo tale dicotomia si ripresenta. Castorp nel frattempo è cresciuto, maturato nei lutti e nelle delusioni. Egli è avulso ormai da qualsiasi contatto con la “pianura” e travolto dalle mode di quella cerchia di malati che, consapevoli o meno, danzano sul ciglio di un vulcano, ascoltando la musica di un grammofono, giocando a carte, facendo sedute spiritiche. Il tutto mentre il clima si estremizza.

La violenza pulsa nelle vene dei tranquilli ospiti del Berghof. La morte, vissuta come esperienza quotidiana, si insinua in una veste nuova. Gli spettri risalgono da fondo valle, fino in cima a quell’eremo per tubercolotici. Ne risentono anche Settembrini e Naphta. Quest’ultimo lancia il suo ultimo e più estremo assalto alla mentalità progressista dell’avversario. E preannuncia la catastrofe del mondo occidentale. Forse la desidera:

«Il progresso? Ahimè, si tratta del famigerato infermo che muta lato continuamente perché spera di trarne sollievo. Il non confessato, ma in seguito universalmente diffuso desiderio di guerra ne è la manifestazione. Verrà, questa guerra, ed è bene, anche se recherà conseguenze diverse da quelle che se ne ripromettono i suoi organizzatori.»

È rassegnato ad una evidenza di fatto. Devoto al corpo era stato Settembrini, allo spirito Naphta. Eppure del corpo vede quest’ultimo vede la caducità, molto più del suo avversario. Lo percepisce sulla propria pelle. Sa che i suoi giorni sono contati. E lo sa anche Settembrini, che però trova ancora uno scopo per vivere in quegli ideali ai quali ha profuso tutta la propria vita di letterato ed intellettuale. Alla fine è un romanzo dell’umanità, con la morte come cornice e indiretta protagonista, a svolgersi sotto gli occhi di Castorp. I pensieri e gli ideali lo attraversano, mentre la natura e la storia fanno il suo corso. La vita e la morte prescindono dai due rivali e “docenti” del giovane ingegnere, la natura scorre – leopardianamente – senza provare alcun interesse per il nichilismo di Naphta o per il progressismo di Settembrini. E il duello, presto in carne ed ossa, tra i due intellettuali si tramuta in farsa, con un tocco di tragedia. La guerra incombe. Gli scontri ideali si fanno fango, sangue e carne. La catastrofe si presenta come un tuono improvviso. Le esistenze distaccate dal mondo e dal suo divenire degli ospiti del Berghof, siano essi avvocati, imprenditori o intellettuali si intrecciano, infine, con la scomparsa rapida ed improvvisa di una intera generazione e di Castorp stesso, inghiottito dalle trincee.

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