Si avvia verso una prima ma quantomai provvisoria chiusura uno dei periodi più difficili della storia recente della Chiesa di Roma. Simbolicamente, proprio allo scoccare del decimo anniversario dalla rinuncia al pontificato di Benedetto XVI e nello stesso anno della sua morte. Al di là delle analisi su ciò che è stato il regno di Benedetto XVI, e che peraltro abbiamo già svolto altrove, si può ora dire con assoluta sicurezza che il lento trapasso dalla Chiesa di Ratzinger a quella di Bergoglio è terminato. Se da un lato, infatti, non sono mai mancate le sottolineature sulla continuità dei due pontificati, dall’altro è innegabile che la percezione dall’esterno ha, spesso e volentieri, portato a interpretare in senso assai diverso la coesistenza di Benedetto e Francesco, apparsi distanti su più punti, e per motivi difficili da ricondurre a mere differenze di stile. Ora, venuta meno la figura di Benedetto, cominciano a venire alla luce con chiarezza gli schieramenti che fino a poco tempo fa la presenza dell’emerito probabilmente incoraggiava a restare ‘nel sottosuolo’. È doveroso quindi dedicare un ampio spazio a questa spaccatura intestina che sta emergendo con più forza man mano che il tempo passa e la leadership di Francesco si fa inattaccabile, e che costituisce la prima delle grandi sfide che attendono il Vaticano nel prossimo futuro.
Libri proibiti?
Il passaggio di consegne tra Ratzinger e Bergoglio ha fatto versare fiumi d’inchiostro. Ciò che è stato chiaro fin da subito, però, è che due fazioni andavano formandosi all’interno della Chiesa stessa, dirette discendenti di quelle che già avevano dato battaglia nel conclave del 2005. Venuto meno Benedetto, tempestiva si è levata la voce del fedele segretario Gänswein. In questo senso, Nient’altro che la verità ha costituito una presa di posizione forte ma al contempo molto prudente: non si contano, ogni volta che Gänswein rivolge una critica più o meno velata all’operato di Francesco, le precisazioni e i riposizionamenti su una linea il più possibile ‘continuista’, tutta tesa a sconfessare reali tensioni tra Regnante ed Emerito. Senza azzardare congetture, il libro di Gänswein, se non è un vero e proprio riposizionamento ‘pubblico’ in attesa di ulteriori sviluppi in seno al Vaticano stesso, rappresenta comunque un chiaro segnale rivolto tanto all’esterno quanto all’interno della mura petrine: qualcosa è successo, qualcos’altro continua a succedere, e qualcuno ne deve parlare. Anche per questo è apparso a molti più che significativa l’uscita immediatamente successiva di un altro libro, quello del cardinale Gerhard Müller, che condivide nella sostanza la posizione (critica) di Gänswein su molti eventi caratterizzanti del pontificato di Francesco, nonché riguardo a numerose tendenze teologico-pastorali che in Vaticano godrebbero attualmente di ottima salute.
Vale la pena soffermarsi in breve sulle pagine di Müller, che hanno senz’altro il merito indiscutibile di rendere con grande precisione a che livello di tensione sia giunta in alcuni frangenti la situazione interna alla Chiesa di Roma. Sapientemente condotto da Franca Giansoldati in un labirinto di domande che, dalla pedofilia al rapporto della teologia cattolica con il mondo contemporaneo, spaziano su tutto il campo d’azione del cattolicesimo e non di rado ne toccano punti nevralgici e delicati, Müller risulta chiaro e netto: la Chiesa ha a che fare con una quantità inquietante di difficoltà. Dal punto di vista teologico, l’elezione al soglio pontificio di Francesco ha garantito una sorta di ‘emancipazione’ della teologia sudamericana rispetto a quella europea gravida di conseguenze: da un lato il terreno dello scontro teologico si riverbera in un tentativo di decentramento della Chiesa rispetto a Roma (in questo senso, Müller parla di vere e proprie «eresie» portate avanti da teologi sudamericani), dall’altro l’ecclesiologia che preme per imporsi va nel senso di una Chiesa vista più come «corporazione» che come «gerarchia». E così come risultano largamente arbitrarie queste novae res theologicae, allo stesso modo appare inspiegabile la gestione di alcuni affari interni da parte del Pontefice stesso: dal caso del cardinale Zen, su cui ci soffermeremo più sotto, alle questioni legate alla pedofilia, al processo-Becciu, e a commissariamenti e rimozioni varie (per chi non avesse la minima idea delle cose a cui ci si sta riferendo, si veda almeno qui, qui e qui), il modus operandi di Francesco è apparso a molti, osserva Müller, ai limiti del dispotico. Va detto che Müller tende ad attribuire la maggior parte delle responsabilità a «gruppi» di teologi, o di persone particolarmente vicine a Francesco, che farebbero pressione sul Pontefice stesso per influenzarne le azioni e le scelte. Come che sia, è innegabile che la scomparsa di Benedetto abbia tolto il coperchio di una situazione giunta ormai a saturazione.
Tra fede e credibilità
Indubbiamente, lo scandalo della pedofilia nel clero esploso sotto il pontificato di Benedetto XVI ha lasciato strascichi molto pesanti. Durante il suo regno, Ratzinger si è pronunciato in varie occasioni e non ha esitato a prendere posizione in modo molto duro sia sul tema della pedofilia considerata in se stessa, sia evidenziando le cause che hanno portato al suo proliferare nella società contemporanea. In questo senso, Ratzinger non ha temuto a sottolineare la poca consonanza tra le opzioni morali dominanti nel mondo moderno e la morale cristiana. Anche su questo punto la Chiesa è ora di fronte a un bivio decisivo: da un lato, ai più sembra accelerare l’avvicinamento alle istanze della modernità più laica verso un generale ‘rilassamento dei costumi’; dall’altro, inquietano alcuni casi di cronaca che continuano a destare (come minimo) stupore, nonostante il pontificato di Francesco goda oggettivamente di buona stampa. Uno su tutti è rappresentato dal caso che ha per protagonista Rupnik, noto teologo-artista molto vicino a Francesco e accusato di numerosi episodi di violenza psicologica e sessuale. Al di là delle nuove testimonianze emerse in questi mesi che accrescono la quantità e la gravità di reati a suo carico, ciò che soprattutto fa rumore è l’assenza di chiarezza e di trasparenza sui provvedimenti presi a Roma nei confronti del gesuita. Non è un mistero infatti che cosa sia successo: la prassi è ben nota. Ciò che è incomprensibile è come possa essere rimasto all’oscuro di tutto il Santo Padre. Scomunicato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nel gennaio 2020, nemmeno cinque mesi dopo per padre Rupnik arriva la grazia: ma mentre Francesco nega di essere intervenuto in suo favore, è chiaro che dal punto di vista canonico-giuridico solo il Pontefice poteva accordarla. Né ad oggi Rupnik è stato ridotto allo stato laicale, e tutti i suoi superiori del Centro Aletti, di fatto, sono ancora lì. Non è questo, tuttavia, l’unico caso che fa arrossire la Santa Sede.
Al di là della ferita mai chiusa – e che continua a dire il vero a riaprirsi – rappresentata dalla scomparsa di Emanuela Orlandi (ma qui bisogna spezzare una lancia: purtroppo o per fortuna, i segreti di Stato hanno ragione di esistere; e foss’anche questo il caso, bisognerebbe comprenderlo), il vero punto interrogativo che in questi ultimi mesi rischia di minare la credibilità delle politiche (estere) vaticane è il rapporto decisamente ambiguo con la Cina e il trattamento riservato da Francesco al cardinale Zen. È cosa nota che Zen si sia prodigato in ogni modo per scongiurare l’eventualità, poi realizzatasi, che la Chiesa scendesse a patti con Xi, così com’è noto che la lotta per la libertas Ecclesiae nella Repubblica Popolare ha spesso coinciso con gli interessi di chi vorrebbe garantire i diritti umani fondamentali e preservare la democrazia. Più volte intervenuto a Roma nonostante l’età decisamente avanzata, Zen non è mai stato ricevuto in udienza dal Pontefice prima del 7 gennaio di quest’anno, in occasione dei funerali di Benedetto XVI: Müller in questo senso ha parlato di vera e propria «umiliazione», ma in ogni caso è stato chiaro a tutti fin da subito che il gelo fra Zen e la Santa Sede sia stato motivato dall’opposizione ferrea del cardinale all’Accordo firmato il 22 settembre 2018 e poi rinnovato il 22 ottobre 2022. Accordo, questo, che ha suscitato vivaci reazioni oltreoceano, che è caratterizzato dall’essere per buonissima parte segreto nelle proprie specifiche, e che sicuramente ha il sapore di una mossa geopolitica azzardata. Il tutto mentre, nell’imbarazzo della Chiesa, Zen è ancora in arresto in Cina e contemporaneamente candidato al premio Nobel per la Pace. E dire che dal punto di vista geopolitico il rapporto con la Cina è solo uno dei fronti aperti. Rientrato in questi giorni dal viaggio in Congo e Sud Sudan (viaggio che, solo, meriterebbe un approfondimento a sé), Francesco è stato di fatto obbligato dall’arresto del vescovo Álvarez ad opera del regime di Ortega ad esprimersi sulla delicata questione del Nicaragua. Senza indugiare in dietrologie, restano molte perplessità sulla gestione del caso: il segretario dell’Associazione per i diritti umani in Nicaragua, Álvaro Leiva Sánchez, avrebbe ripetutamente chiesto l’intervento del Papa senza ottenere alcun successo negli ultimi due anni. Anche dopo l’arresto di Álvarez, Francesco ha lanciato un appello alla preghiera per il vescovo perseguitato senza diffondersi ulteriormente sulla questione.
Un futuro incerto
Seppur pochi fra molti altri che si potevano portare, gli esempi nominati e i punti toccati rendono esplicita la confusione che regna attualmente fra le mura petrine. Come si diceva, non solo ad extra ma anche ad intra. I prossimi tempi potranno già essere decisivi in qualche senso, perlomeno nel restituire una linea di demarcazione netta fra chi sarà definitivamente escluso dai giochi di potere interni e chi invece potrà ancora giocare qualche carta in questo senso. Ciò che è sicuro è che la scomparsa di Benedetto ha costretto e continuerà a costringere tutti i diretti interessati a venire in qualche modo alla luce, anche e soprattutto in vista della preparazione al prossimo conclave. E sarebbe ingenuo non vedere – questo, Müller lo fa intendere perfettamente – nei particolari venti teologici che soffiano nella ormai ex Congregazione e fra i prelati più vicini a Francesco una chiara indicazione sulla postura che la Chiesa sembra essere ormai decisa ad assumere in politica estera. Mentre ogni occasione viene colta per ribadire il distacco dalle aree più conservatrici (si pensi all’affaire Biden sull’Eucaristia ai sostenitori delle politiche pro-choice in America), le prese di posizione in favore di chi domanda chiarezza in materia di morale e di lotta contro i regimi a trazione comunista latitano.
Almeno una domanda, dunque, resta: è questa la strada migliore possibile? Sia permesso in conclusione infatti un ultimo riferimento – forse il più importante. La sfida più dolorosa che attende la Chiesa di Roma nell’immediato futuro è sicuramente quella rappresentata dagli esiti del Synodaler Weg intrapreso dalla Chiesa tedesca. Secondo un sondaggio del Die Tagespost «il 36% dei cattolici tedeschi ritiene si stia affrontando una scissione», quando già poco più di un anno fa un tedesco su quattro si dichiarava già pronto a lasciare la Chiesa cattolica in polemica con le posizioni ribadite dal Magistero in materia di celibato e benedizioni alle coppie omosessuali. Müller, citando alcuni esempi eclatanti di vescovi ribelli, non ha dubbi nel paventare come scenario «la fine del cristianesimo in Germania». Dette queste cose, non resta che domandarsi: se davvero sta a cuore a Roma preservare e incentivare l’unità della Chiesa, allora assecondare una «protestantizzazione strisciante», ammiccare all’ambiguità teologica e condurre una politica piuttosto schizofrenica continuamente oscillante fra un estremo giustizialismo interno e un’apparente ‘connivenza diplomatica’ con regimi dittatoriali è davvero la cosa giusta da fare?