OGGETTO: (S)comunicati
DATA: 13 Gennaio 2023
SEZIONE: Tecnologia
FORMATO: Analisi
I social media sono la celebrazione del mezzo, non del messaggio. La pretesa di voler dire qualcosa senza la rilevanza o l'autorevolezza per farlo. L'unico antidoto di fronte al nulla è l'indifferenza.
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In un recente articolo per il New York Times, Ezra Klein ha suggerito alcuni spunti interessanti sul tema già comunque ampiamente frequentato dei social network e del rapporto che ad essi ci lega. Effettivamente, non si può negare che da quando Elon Musk ha manifestato il suo interesse per Twitter, interesse poi concretizzatosi nell’acquisizione della piattaforma, il dibattito sulla natura stessa dei social abbia trovato nuovo vigore. In parte i problemi sono sempre gli stessi, in parte no, in ogni caso è interessante valutare la proposta di Klein.

L’opinion columnist del NYT ha sottolineato con una certa enfasi la necessità di un cambiamento di paradigma nel modo stesso in cui intendiamo la funzione di Twitter. Considerarlo una global town square è sbagliato nella misura in cui non è inteso né impiegato da tutti gli user allo stesso modo, non è realmente pubblico e ‘di tutti’, e se anche lo fosse ciò non costituisce una garanzia a che si abbia un reale progresso civile. Appoggiandosi ad un recente studio (Farrer 2022), Klein mostra una delle conseguenze più evidenti e preoccupanti di questa «mistaken metaphor»: la corsa a fare di Twitter e del mondo social una pubblica piazza su cui possano affacciarsi gli internauti del mondo intero ha portato al depauperamento della capacità di attenzione e di riflessione individuale. Di qui, la proposta di Klein di riscoprire, seguendo (parzialmente) l’esempio dei Quaccheri, l’importanza del silenzio e dell’attesa. Prima di deliberare su un qualsiasi tema, i partecipanti a un «typical Quaker meeting» si riuniscono conservando il silenzio per qualche tempo, meditando su cosa, una volta alle spalle l’onda dell’emotività, risulti ancora veramente significativo dire piuttosto che tacere (Ambler 2013). In questo senso, seguendo l’esempio virtuoso di infrastrutture digitali che già esistono (Wikipedia, secondo l’autore), lo scopo sarebbe quello di ripensare il mondo virtuale non più come un insieme di piattaforme ‘aggressive’ progettate per catturare il nostro tempo e la nostra attenzione, ma come patrimoni comuni governati in modo tale da permettere a noi di usarli. Al momento, infatti, accadrebbe precisamente il contrario. Ma è davvero possibile questa specie di ‘inversione di segno’, tenuta per ferma l’opportunità che in se stesso il social network dovrebbe continuare a rappresentare per la collettività?

Attualmente, la riflessione sul digitale è in espansione e le prospettive sembrano essere consistenti e affascinanti; tuttavia, quello legato al mondo dei social network ha tutte le carte in regola per essere considerato un capitolo a parte. Partiamo da un esempio. Come Klein stesso non manca di sottolineare, Twitter rappresenta un modo di intendere la comunicazione particolarmente aggressivo. Di fatto, però, se da un lato il social nasce come un’implementazione della comunicazione, dall’altro credere che implementare la comunicazione sia un’azione equivalente a implementare una qualsiasi altra attività è un errore grossolano. Guidare un’automobile in condizioni oggettivamente migliori sia dal punto qualitativo che quantitativo non è qualcosa di radicalmente altro rispetto all’azione di condurre, ad esempio, una carrozza o un cavallo. Questo perché, se si rimane nell’ambito della guida come mezzo necessario in vista di un fine (lo spostamento), ciò che si fa con strumenti diversi rimane essenzialmente la stessa cosa: si guida. E lo stesso vale per molte altre azioni quotidiane che il progresso tecnologico ha reso più semplici, o più veloci, o meno gravose: dal lavare i piatti al confezionare prodotti in serie, laddove un’azione si esaurisce nel tendere a un compito e il compito è esterno all’azione, implementare la strumentazione alla base dell’agire non cambierà il fatto che l’agire cui si tende resta sempre lo stesso. Ma le cose non stanno così quando parliamo, scherziamo, gesticoliamo, esprimiamo sentimenti e, più in generale, performiamo un comportamento. In poche parole, la comunicazione non è un agire il cui compito sia al di fuori del comunicare stesso. Dunque implementare il mezzo di comunicazione significa intervenire direttamente sull’agire comunicativo.

Qual è lo scopo di un social network? Per quanto riguarda Twitter, da Dick Costolo a Elon Musk è stato sempre ripetuto che primo e principale compito del social è non solo la tutela, ma anche l’incoraggiamento della libertà di espressione. Ora, quanto sia vago il concetto di «libertà di espressione», specialmente quando applicato al mondo social, è cosa arcinota; ma al di là del fatto che questo sia vero o meno, e che le preoccupazioni dei CEO di tutto l’universo virtuale siano sintonizzate sul problema del free speech, il punto è che questo scopo non è compatibile con la proposta di Klein. Se l’ideale più alto a cui può tendere un social è quello di permettere a tutti di parlare, e se la natura dei social coincide con il loro scopo, evidentemente non è possibile che da un social possa sgorgare un pensiero complesso. Nessuno, a quanto consta, ha mai proposto come traguardo auspicabile il raggiungimento delle verità del discorso: intanto perché nessuno è più tanto ingenuo da pensare che la verità su una questione possa essere raggiunta per composizione di tutti i punti di vista disponibili sul tema; ma soprattutto perché che si ottenga o meno una risoluzione ragionevole, non è questa la priorità. L’importante, come si diceva, è il mero fatto di poter dire la propria.

In un simpatico lavoro ormai non più recentissimo, On Bullshit (2005), Harry Frankfurt partiva dal fastidio per il «lack of respect for the truth» che percepiva nel dibattito contemporaneo, e descriveva con grande acume ciò che distingue un comune bugiardo da un bullshitter: mentre il primo sa di mentire e vuole nascondere la verità, il secondo non si pone nemmeno il problema del valore aletico di ciò che dice. L’unico obiettivo che ha di mira è quello di persuadere. Ora, l’atteggiamento tipico della comunicazione accelerata del social network è, nel migliore dei casi, la pretesa di dire qualcosa. E questo, appunto, avviene nel migliore dei casi: l’user medio non solo vuole poter parlare – il che ormai è dato acquisito – ma spesso e volentieri vuole essere ascoltato, per non dire riconosciuto come autorevole. Ma la pretesa di poter dire non è, in fondo, riflesso e conseguenza della convinzione di essere autorevoli? Ciò che sfugge a Klein è che il metodo dei Quaccheri è apertamente in contraddizione con l’essenza stessa del social, posto che la natura di Twitter, o di Facebook, si esaurisce nel far sì che ogni persona pensi di poter esprimere la propria opinione anche e soprattutto per il semplice fatto che si tratta della propria opinione. Twitter non incoraggerà mai al silenzio, così come non incoraggerà mai alla riflessione: e questo non dipende dall’uso che ne facciamo.

Si diceva, poco sopra, che la comunicazione non ha altro scopo che se stessa. Twitter è un modo di comunicazione e, in quanto tale, non ha altro scopo che sé stesso. Se davvero si avvertisse l’esigenza di prendere decisioni, organizzare dibattiti o aprire inchieste in maniera meditata, non si userebbe Twitter per farlo; e infatti ancora oggi per molte di queste cose non lo si fa. Ma non si può pensare a un social lento, perché il social non ha modulazioni possibili né scopi al di fuori di sé a cui adattarsi come mezzo: posso tranquillamente guidare un’auto senza spingere l’acceleratore fino al limite, perché guidare non è il fine del guidare; non posso, invece, chiedere a Twitter di condurre una discussione in porto, o di non dissipare la concentrazione e l’attività mentale globale, perché scopo di Twitter è garantire la comunicazione in cui esso stesso consiste. E se questo tipo di comunicazione richiede una partecipazione istantanea, compulsiva e senza alcuna regola di chiunque voglia unirsi alla community, niente può impedire alla comunicazione di essere legge a se stessa. Per questo non importa che si dica il vero, o perlomeno qualcosa di sensato, perché importa solo che si dica qualcosa. Ed anzi, nemmeno è necessario dire qualcosa, laddove l’oggetto di un dire intenzionale dovrebbe perlomeno essere significante: basta parlare, basta fare chiasso.

Probabilmente non è un granché giungere a queste conclusioni dal punto di vista dell’emotività che contraddistingue il nostro tempo. Eppure, la realtà dei fatti testimonia contro la possibilità di una «alternativa che non c’è». Se infatti non è sbagliato pensare criticamente a ciò che ogni piattaforma ormai fa, e cioè assorbire quanti più dati possibili per poi trarre da essi profitto economico in ogni modo pensabile, è sbagliato credere che quelle stesse piattaforme non diano indietro nulla. Questa dicotomia tra noi e loro si può mantenere, basta essere onesti con se stessi e ammettere che quanti più dati loro sottraggono a noi, tanta più violenza, risonanza e compiacimento loro regalano a noi. Il nesso vitale che lega gli interessi economici, politici e finanziari dietro agli algoritmi di qualsiasi social e l’addiction che ciascuno di noi sperimenta nel momento in cui qualcuno ci dice che la nostra visione del mondo dovrebbe avere il diritto di essere ascoltata da miliardi di persone, non è altro che la falsa convinzione che tutto ciò che si è sia in sé rilevante, e che tutto ciò che si ha da dire conti. Il trade off che ogni giorno accettiamo è sotto gli occhi di tutti, basta volerlo vedere: è l’illusione che esista una simmetria dell’opinione e che ognuno possa attingervi a piene mani.

Qual è allora la soluzione, si chiede? Di sicuro iniziare a mettersi nell’ordine di idee per cui, a meno che non ci siano buone ragioni per pensare il contrario, la nostra opinione su una buonissima maggioranza delle questioni potrebbe non interessare (a buon diritto) a nessuno.

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