OGGETTO: Russofobia e dintorni
DATA: 21 Ottobre 2020
SEZIONE: inEvidenza
L'enigma di Mosca, croce e delizia d'Occidente.
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È un ritornello conosciuto: il popolo russo freme di desiderio per l’agognata democrazia liberale, ma resta soggiogato dal despota di turno, abusivamente ancorato al Cremlino. Storia vecchia, raccontata al tempo  degli zar e per buona parte del secolo scorso, quando persino per i Compagni divenne impossibile difendere le miserie del sistema sovietico. Storia che oggi si ripresenta in qualche modo a cadenza settimanale sulle  colonne della stampa mainstream, che trova in Mosca il bersaglio perfetto attorno al quale ricamare pseudofascismi di ogni sorta. Alcuni la chiamano ‘russofobia’, neologismo per definire quello che è un grande classico della narrazione progressista, un argomento di conversazione che non passa mai di moda tra chi è convinto di aver trovato nell’ideologia liberale la formula universale per lo Stato perfetto.

Agli occhi del liberal cosmopolita la politica è una semplice equazione scientifica, un limite matematico che deve necessariamente tendere alla fantastica società aperta. Non possono, non devono esistere alternative. Ogni Paese viene valutato sulla base del grado di omologazione a un certo standard, una scala di bontà che va dagli abissi dell’Europa medievale cattolica e bigotta fino alle cime paradisiache del Mondo Nuovo di Huxley. In questa classifica Mosca vanta un punteggio piuttosto basso: paga la sua sfacciata noncuranza verso molti dei nostri cosiddetti ‘diritti umani’, l’influenza della fede ortodossa nella vita pubblica, la visione multipolare della politica estera. La Russia, e qui sta il suo peccato originale, continua a  essere un’alternativa ai dogmi del pensiero unico.

Russofobia di Guy Mettan è un volume imprescindibile per capire le origini del pregiudizio occidentale nei confronti dell'”orso” russo

Un tempo la specificità di questo enorme crocevia tra continenti era spiegata in termini piuttosto diretti: gli occidentali non vedevano i russi come un popolo pienamente europeo. Non bastarono nemmeno gli sforzi di Pietro il Grande: il riformatore, l’uomo della lingua francese imposta a corte e della tassa sulla barba per costringere i nobili a omologarsi ai loro colleghi a ovest, non riuscì a cambiare la percezione che gli europei avevano dei suoi connazionali. Ancora nell’ottocento si diceva che l’Asia iniziasse “alla porta orientale di Vienna”: noi eravamo europei; balcanici e  slavi stavano fuori dal club. Ironia della sorte, persino Marx vedeva l’Est come terreno sterile per la  rivoluzione proletaria, fermo a uno stadio prematuro del capitalismo. A torto o a ragione, gli slavi e in particolare i Russi continuavano a essere considerati contaminati dal retaggio dei loro vecchi dominatori asiatici.

Razzismo? Cinismo? In ogni caso un’analisi del genere, che prende in considerazione le specificità  storiche e culturali di un popolo, oggi non è più permessa. Se la realtà cozza contro l’ideologia, è la prima a dover cambiare in modo da mantenere intatti i pregiudizi della seconda. L’esistenza di un popolo russo che vota e approva in massa Putin diventa in sé stessa una sfida al dogma. Per uscirne vivo il progressista è quindi costretto alla più folle ginnastica mentale: deve, per esempio, inventarsi un paladino della libertà – un certo Navalny – impegnato a salvare i russi dal malvagio judoka pietroburghese. È solo per colpa di  qualche inspiegabile forza metafisica che questo messianico eroe del popolo raggranella percentuali elettorali imbarazzanti.

Alla stessa maniera viene mediaticamente esaltata una cricca di ragazzine volgari, un collettivo femminista che con tutta probabilità avrebbe convertito Lenin all’Ortodossia: le ‘Pussy Riot’, disprezzate in patria, vengono dipinte in occidente come forza di liberazione contro il  conservatorismo al potere. Ma sono tutte proiezioni della fantasia, sogni di rivoluzioni d’importazione. La realtà resta lì, immune alle capriole mentali: ogni popolo è figlio della sua storia. In barba a tutta la più melensa retorica, la Russia moderna è il prodotto di una lunga convivenza con pacifici vicini come il Reich tedesco e le orde di Gengis Khan, la Cina maoista e la Corea del Nord, gli ottomani e i cavalieri teutonici. Quello che a noi appare come sfrontato militarismo da parte di Mosca è in realtà l’atteggiamento naturale  per un Paese privo di vere barriere geografiche, che nella sua storia ha conosciuto invasioni da tutti i lati e che, nonostante abbia rinunciato al suo status di superpotenza, continua a vedersi puntati contro i missili  della NATO. Un popolo che è riuscito a liberarsi dal dominio dell’Orda d’Oro solo conquistando il maggior numero di chilometri possibile tra Mosca e il cuore dell’Asia non può esattamente avere lo stesso approccio alle relazioni internazionali del Canton Ticino.

Una nazione multietnica, con spinte centrifughe potenzialmente devastanti, non può esser governata a suon di referendum popolari. E come stupirsi del potere della chiesa nell’ex-impero dell’aquila bicipite, considerato per tre secoli la Terza Roma e l’erede del patriarcato di Costantinopoli? Davvero qualcuno si aspetta la laicità dello stato in un Paese che ha sviluppato anticorpi spirituali potentissimi dopo ottant’anni di ateismo forzato? Se a tutto questo si aggiunge il fatto che, al momento, le vere alternative a Putin sono quel che resta del vecchio apparato comunista sovietico e un partito imperialista che di “liberal-democratico” ha solo il nome, si capisce come l’ipotesi dell’esportazione di una certa visione del mondo a est di Minsk faccia francamente sorridere. Comunque la  si voglia pensare, il grande orso resta lì, a fare la guardia a un ottavo delle terre emerse. Un odioso enigma per i progressisti che si bevono la barzelletta della ‘fine della storia’. Un Paese tremendamente affascinante per tutti gli altri.

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