Nell’epoca attuale, in cui la complessità delle dinamiche internazionali si rifrange come un caleidoscopio sulle capitali del potere, Roma torna oggetto di rinnovata attenzione: ancora è evocata come centro diplomatico, crocevia ideale e simbolico della storia occidentale, punto di incontro tra mondi diversi. Tuttavia, sorge spontaneo domandarsi quale ne sia oggi la reale natura: la centralità di Roma nell’odierno scenario globale è appannaggio dello Stato italiano o, piuttosto, della Chiesa cattolica insediata nella minuscola ma potentissima enclave vaticana? Quali meccanismi storici e ideologici hanno determinato l’asimmetria tra queste due entità, fisicamente contigue eppure così distinte per obiettivi e portata? Fino a che punto lo Stato e la Chiesa possono realmente collaborare senza che la forza dell’una conduca al declino dell’altra – e dunque, vi è ancora spazio, nella contemporaneità secolarizzata e globalizzata, per una convergenza d’interessi dalla quale entrambi possano trarre vigore, facendo di Roma un laboratorio di mediazione globale, capace di parlare all’Occidente quanto al resto del pianeta?
Per abbozzare una risposta che non sia semplificatrice, occorre innanzitutto gettare un lungo sguardo su quella stratificazione storica che rende il rapporto fra Italia e Vaticano unico nel consesso internazionale. Già nei secoli della modernità, e ancor più nell’Ottocento pre-unitario, la penisola italiana era tutto fuorché un blocco omogeneo: mosaico di regni, granducati e potentati cittadini, tra cui lo Stato Pontificio si distingueva per influenza e ambizione universalistica.
Roma, cuore della cristianità e sede papale, era al contempo un centro religioso e un’entità governativa temperata dalla sua stessa funzione spirituale: in questa ambiguità, risiedeva la forza ma anche il limite della Chiesa. Se da una parte il Papa poteva muovere leve di soft power non circoscritte ai confini politici, dall’altra la sua sovranità territoriale imponeva di confrontarsi costantemente con gli appetiti degli Stati circostanti.
Decisivo, ai fini della geopolitica italiana, fu l’impossibilità della formazione di uno Stato nazionale prima della metà dell’Ottocento: le cause furono molteplici, ma il ruolo della Chiesa non può essere sottovalutato. Il Papato, sospeso tra la pretesa di universalità religiosa e la realtà di uno Stato territoriale, guardava con grande diffidenza alla possibilità di una moderna Italia unita. Un simile progetto, infatti, avrebbe inevitabilmente travolto quell’autonomia secolare che, pur tra crisi e restaurazioni, aveva garantito al soglio pontificio un riconoscimento privilegiato presso tutte le grandi potenze europee.
La vicenda risorgimentale, però, non si esaurì esclusivamente in una sequenza di conflitti armati e negoziati diplomatici, ma si configurò come una vera e propria lotta ideologica. Da un lato premevano le idee del liberalismo, ispirate ai modelli anglo-protestanti e alla Rivoluzione francese – entrambe fautrici di laicità, secolarizzazione e modernizzazione delle istituzioni. Dall’altro, la Chiesa cattolica vedeva nel sistema dell’Ancien Régime l’unico argine efficace contro un laicismo che minacciava di dissolvere il tessuto comunitario europeo e, parallelamente, l’unico strumento per mantenere intatta la propria influenza sulle cancellerie continentali.
In questo quadro, la questione della formazione dello Stato nazionale italiano fu tanto una questione geopolitica – legata ai nuovi equilibri tra potenze europee e all’affermazione di uno spazio italiano autonomo – quanto una questione di egemonia ideologica, in cui si scontrarono visioni inconciliabili del rapporto tra religione, politica e società.
Finché la Chiesa mantenne intatto il proprio potere temporale, il progetto nazionale italiano rimase un miraggio. Solo quando la debolezza dello Stato pontificio divenne manifesta, la spinta geopolitica verso l’unità poté imporsi: evento simbolicamente rappresentato dalla presa di Roma nel 1870, quando il Papa si dichiarò “prigioniero” in Vaticano, mentre lo Stato italiano assumeva il controllo della città eterna. Questo atto suggellò un antagonismo destinato a segnare la storia italiana ed europea per molti decenni a venire.
Da quel momento, la storia sembrò obbedire a una logica quasi ineluttabile: la forza dello Stato italiano e quella della Chiesa romana si sono alimentate, nel tempo, dell’indebolimento reciproco. Due entità profondamente diverse per vocazione – una proiettata verso l’universalità spirituale, l’altra verso la costruzione di un’identità nazionale – ma costrette a convivere nello stesso spazio, hanno finito per trovare nella crisi dell’una la condizione necessaria all’espansione dell’altra. Così, quando ad affermarsi è stata l’Italia, la Chiesa ha visto restringersi il proprio margine d’azione; allo stesso modo, quando la Chiesa ha saputo riconquistare influenza e slancio, è stato spesso a scapito dell’iniziativa politica dello Stato, che si è ritrovato relegato a un ruolo secondario.
In questa dialettica, la centralità di Roma si è giocata su un equilibrio sempre instabile, dove il rafforzamento di una delle due istituzioni ha quasi inevitabilmente significato la marginalizzazione dell’altra.
La firma dei Patti Lateranensi nel 1929 rappresentò non solo la necessità di normalizzare i rapporti tra Stato fascista e Santa Sede, ma anche un tentativo di allineamento strategico da parte di entrambe le istituzioni. Dal punto di vista del Vaticano, l’accordo mirava a consolidare e prolungare la propria influenza all’interno del territorio italiano, assicurandosi un ruolo centrale nella vita sociale e culturale della nazione nonostante la perdita del potere temporale. Per il regime fascista, invece, l’obiettivo era quello di ottenere dall’autorità vaticana un sostegno – o almeno un tacito allineamento – alle proprie scelte politiche e ideologiche, rafforzando così la legittimità e la forza del regime agli occhi della popolazione e della comunità internazionale. Le cose però non andarono esattamente nel modo auspicato.
Il XX secolo fu segnato da una sostanziale convergenza tra Stato e Chiesa cattolica, nonostante le fisiologiche frizioni e distinzioni di orizzonte politico e spirituale. Il caso forse più emblematico fu rappresentato dal periodo della Guerra Fredda, quando l’esigenza di contrastare la minaccia comunista fece convergere, benché in modo strumentale, gli interessi della Democrazia Cristiana e quelli sia del Vaticano che di Washington. In particolare, il papato di Giovanni Paolo II divenne simbolo della reazione cristiana contro l’Impero sovietico e l’ideologia comunista; questo rese possibile una rara sinergia in cui la Chiesa e lo Stato italiano, integrato nell’orbita atlantica, rifulsero quasi all’unisono. Tuttavia la storia insegna che simili convergenze sono eccezioni, piuttosto che la regola: la prossimità geografica tra Vaticano e Italia, piuttosto che favorire un’alleanza stabile, ha spesso condotto a una sorta di “competizione per la centralità”, data la divergenza degli orizzonti. La Chiesa, infatti, trae senso e potere dal suo universalismo: essere ad un tempo istituzione religiosa globale e minuscolo Stato territoriale le permette di agire con agilità tra i confini e di superarli con il messaggio spirituale; questa miscela si rivela, da un lato, una irriducibile alterità rispetto allo Stato nazionale e, dall’altro, una riserva di soft power che si irradia ovunque vi sia una comunità di fede.

Qui si coglie una ragione più profonda dell’incompatibilità strutturale tra Chiesa cattolica e Stato italiano, collegata non solo agli interessi materiali, ma alle ideologie di fondo che plasmano la modernità. L’ideale statuale italiano, fondato su principi di laicità e autonomia della sfera civile rispetto a quella religiosa, affonda le proprie radici nella tradizione liberale – tradizione questa che nel corso dell’Ottocento decostruì la pretesa della fede di orientare la polis. Il liberalismo filosofico divenne nemico della Chiesa cattolica, accusata di oscurantismo e di commistione indebita tra trono e altare; la secolarizzazione dell’Occidente rinnegava ogni primato teologico nella sfera pubblica, aprendo la strada a un processo di emancipazione delle società europee dalla tutela ecclesiastica. Da ciò discende anche la radicale differenza tra la funzione universale della fede, che può diventare strumento di costruzione imperiale per chi la controlla – come avvenne nell’Impero romano tardo-antico con Teodosio, che fece del cristianesimo la religione ufficiale, nel Sacro Romano Impero di Carlo Magno, nella Spagna dei secoli d’oro o nella Francia dei “Re Cristianissimi” – e la sua difficoltà a integrarsi stabilmente con l’idea moderna di Stato nazionale, fondato sulla delimitazione territoriale, sull’identità culturale e sulla sovranità politica, elementi che mal si conciliano con la vocazione universale, inclusiva e sovranazionale propria della religione. La presenza storica del Papato in Italia, insomma, fu non solo una delle cause ma forse il più persistente ostacolo alla nascita di uno Stato nazionale italiano – problema che ancora oggi si riflette nella difficoltà dello Stato a mobilitare le masse attorno a un’idea civica condivisa, come dimostra la persistente influenza culturale e morale della Chiesa nell’immaginario collettivo.
Inoltre, la collaborazione tra Stato italiano e Chiesa, per quanto auspicata e ciclicamente riproposta, si è dimostrata possibile solo a condizione di una convergenza geopolitica temporanea: si verificò, come accennato, durante la Guerra Fredda, nel comune interesse a contrastare il comunismo, e, in modo più complesso, durante il ventennio fascista. In quest’ultimo caso, non fu solo la comune avversione alla “decadenza” liberale a favorire un avvicinamento tra Stato fascista e Vaticano; tale sintonia fu il risultato di una coincidenza di interessi dettati anche dalle specifiche contingenze storiche. Da un lato, la Chiesa cattolica vedeva nell’occasione fascista la possibilità di porre fine al lungo contenzioso con lo Stato italiano apertosi nel 1870, reclamando finalmente un riconoscimento e una posizione stabile all’interno del nuovo assetto nazionale. Dall’altro, il regime fascista, in cerca di legittimazione e coesione interna, considerava la riconciliazione con la Chiesa un elemento fondamentale per rinsaldare il fronte interno e acquisire maggiore forza in vista delle proprie ambizioni di proiezione internazionale.
Tuttavia la conflittualità di fondo, alimentata dalla prossimità geografica e dalla disomogeneità delle rispettive missioni storiche, riaffiora non appena muta il contesto internazionale. Tale sentimento è amplificato oggi dalla chiara consapevolezza che la crisi della fede in Europa – consustanziale all’onda lunga della secolarizzazione – rappresenti un pericolo esistenziale per la Chiesa di Roma. Non a caso, se durante il pontificato di Giovanni Paolo II l’urgenza era quella di resistere al relativismo e all’ateismo militante dell’Est europeo, con l’avvento della modernità tardo-liberale, lo scenario si è capovolto: la minaccia non è più l’ateismo di Stato, ma l’indifferenza religiosa delle società opulente e individualizzate dell’Occidente.
È dunque nel contesto di una progressiva marginalizzazione della fede cattolica in Europa che va interpretato il rapporto tra la Chiesa cattolica e l’Italia nel XXI secolo. Dopo la stagione definita dal Concordato lateranense e i riflessi della Guerra Fredda, la Chiesa si è trovata a fronteggiare una costante erosione del proprio radicamento nella società occidentale. Mentre la pratica religiosa e il senso di appartenenza si indebolivano tra le popolazioni europee, il baricentro demografico e culturale del cattolicesimo si è progressivamente spostato verso il Sud del mondo e l’Est globale: oggi, Sud America, Africa e Asia costituiscono i nuovi teatri in cui si articola la sfida della presenza cattolica sulla scena globale.
In questa prospettiva si inscrive il pontificato di Papa Francesco, il primo pontefice proveniente dall’America Latina, la cui elezione ha segnato una chiara apertura verso una dimensione sempre più internazionale della Chiesa. Francesco ha costantemente rivolto la sua attenzione alle cosiddette “periferie” del pianeta, privilegiando quelle regioni in cui la vitalità religiosa è in crescita, piuttosto che continuare a concentrarsi sul nucleo storico ma ormai laicizzato dell’Europa. Questa scelta, oltre a essere pastorale e culturale, ha assunto un significato strategico: nelle aree dove l’Islam e le confessioni evangeliche stanno rapidamente guadagnando terreno, la Chiesa cattolica ambisce a rappresentare un punto di riferimento universale alternativo.
Al contempo, la postura di Francesco sull’accoglienza dei migranti si inserisce in una visione più ampia di “nuova evangelizzazione” in Europa: favorendo l’arrivo di fedeli provenienti dall’Africa e dall’Asia, si punta a rivitalizzare una presenza cattolica che nel Vecchio Continente appare ormai in declino, sia dal punto di vista demografico che da quello religioso. Non è possibile affermare con certezza che questa sia stata una deliberata strategia pianificata dal Pontefice, ma si può ragionevolmente ipotizzare che la crescita di nuove comunità credenti, grazie alle migrazioni, venga percepita dalla Chiesa come una possibile via di rinnovamento. In questa prospettiva, si potrebbe supporre che, dato ormai per “perduto” l’Occidente sul piano di una evangelizzazione diretta, si sia privilegiata la strada di una ricristianizzazione indiretta, affidata proprio agli immigrati. Resta dunque aperto il problema della reale intenzionalità di questo processo, la cui natura potrebbe essere più consequenziale che davvero programmata, ma ciò non toglie che tali dinamiche riflettano l’intersezione tra fenomeni migratori, strategie religiose e assetti geopolitici contemporanei.
Tale intreccio tra motivazioni identitarie e strategie di lungo periodo non ha mancato, tuttavia, di generare attriti proprio nel rapporto tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Negli ultimi anni, le divergenze in materia di immigrazione si sono fatte particolarmente evidenti, specchio di una diversa prospettiva su come affrontare e governare il fenomeno: mentre la Santa Sede insiste, sull’onda di un imperativo etico-universale, sull’accoglienza incondizionata e sulla tutela dei diritti umani, lo Stato italiano è frequentemente costretto a confrontarsi con i limiti imposti dal quadro economico, dalla pressione sociale e dalle proprie responsabilità nei confronti dell’elettorato. Ne sono derivate tensioni, talvolta manifeste, sia sul piano della dialettica pubblica che delle scelte operative, rivelatrici di un equilibrio quanto mai instabile tra la vocazione universalistica della Chiesa e la contingenza nazionale del governo italiano.

Il rapporto con lo Stato italiano resta, in questo quadro, ambiguo e teso. Da un lato, la Chiesa non può permettere che il territorio su cui sorge la cattedra petrina si laicizzi al punto da compromettere la sua “base di lancio” simbolica e organizzativa nel cuore dell’Occidente. Dall’altro lato, lo Stato italiano, costretto tra crisi economiche, turbolenze politiche e dipendenza dalla dinamica euro-atlantica, si trova spesso a subire più che a governare il dialogo con la Santa Sede. Questo squilibrio si legge già oggi nell’influenza esercitata dalla Chiesa nei dibattiti etici interni, così come nella sua capacità di incidere su scenari lontani – Asia, Africa, America Latina – dove la presenza diplomatica italiana, pur esistente, risulta molto meno incisiva di quella vaticana.
Tuttavia, come la storia insegna, i cicli si rincorrono e le fasi di opposizione possono lasciare il passo a nuove, inedite possibilità di convergenza quando lo spirito dei tempi lo permette. In questo senso, l’avvento al soglio pontificio di Papa Leone XIV, primo Pontefice statunitense, sembra preannunciare una possibile svolta nella traiettoria della Chiesa. Le sue parole nelle prime omelie lasciano intravedere una linea di pensiero: il vero pericolo risiederebbe ormai nella secolarizzazione radicale delle società occidentali, nella perdita di fede che conduce a crisi spirituali, culturali e sociali e che rischia di dissolvere quel senso di universalità cristiana su cui la Chiesa ha costruito la sua permanenza millenaria. Si coglie, in nuce, la visione di una Chiesa che intenda tornare a parlare anzitutto all’Occidente, non per rinunciare all’evangelizzazione globale bensì per riconquistare il campo perduto nelle coscienze collettive di Europa e Nordamerica.
Ad amplificare questo disegno è la stessa provenienza del nuovo Papa: Stati Uniti, epicentro della post-modernità tecnologica, ma anche uno dei principali araldi dell’idea occidentale della libertà religiosa. Si potrebbe dunque ipotizzare che la missione sia orientata verso una riconquista spirituale delle società oggi più distanti dalla fede, nella consapevolezza che senza una riconciliazione tra ragione pubblica e valore religioso la crisi morale dell’Occidente rischia di acuirsi ulteriormente.
In una realtà internazionale sempre più caratterizzata da tensioni belliche, in cui le guerre locali lambiscono il centro Europa e i flussi migratori ridisegnano le frontiere interne e simboliche delle nazioni, questa possibile svolta apre un varco attraverso cui Stato italiano e Vaticano possono, forse per la prima volta da molti anni, tornare ad avviare un dialogo intorno a valori percepiti, o ritrovati, come comuni.
Si tratta di una scommessa complessa ma non impossibile: qualora la Chiesa perseguisse l’intento di contrastare la secolarizzazione, ciò potrebbe tradursi, intenzionalmente o meno, nell’assumere come propria anche la questione delle identità europee. Le radici cristiane, infatti, sono profondamente intrecciate alla storia e alla cultura delle collettività che, per secoli, hanno fondato la loro identità sulla fede cattolica. Sembra dunque inevitabile che qualsiasi tentativo di ricristianizzazione dell’Europa finisca per evocare, anche solo indirettamente, quei valori storici e culturali che costituiscono il sostrato più profondo delle identità europee. E proprio a questo obiettivo potrebbe corrispondere l’interesse dello Stato italiano, desideroso di rilanciare una presenza culturale e diplomatica che, da solo, non riesce ad affermare pienamente.
Pur mantenendo uno sguardo realistico, senza indulgere in illusioni ingenue – come pure è sembrato accadere nel dibattito pubblico in seguito alla morte del papa e al recente conclave – Roma potrebbe realisticamente aspirare a rafforzare la propria posizione nello scacchiere internazionale, sfruttando la presenza della Santa Sede come straordinario moltiplicatore di potenza e opportunità diplomatiche.
La centralità di Roma si colloca in quella dimensione intermedia dove la sua eredità storico-culturale e la funzione religiosa del Vaticano possono favorire iniziative di dialogo, sia a livello intra-europeo, sia nell’interazione tra Occidente, Sud globale e Oriente.
In un’epoca segnata da profonde fratture – dalle tensioni interne alle società europee fino ai conflitti e alle rivalità sistemiche che attraversano le relazioni internazionali – la capacità della Santa Sede di proporsi come attore di mediazione e riconciliazione costituisce una risorsa preziosa, da cui anche lo Stato italiano può trarre beneficio, qualora sappia interpretare con lungimiranza le dinamiche in atto.
Se l’obiettivo del Vaticano resta quello di ricucire le ferite interne all’Occidente e rinsaldare i legami identitari e valoriali, Roma si candida come snodo essenziale di un dialogo soprattutto intra-europeo; tuttavia, la stessa operazione potrebbe produrre effetti rilevanti anche su scala più ampia, permettendo alla città eterna di ritrovare una relativa centralità come ponte tra le due sponde del Mediterraneo e tra Nord e Sud del mondo. In questo contesto, un coordinamento intelligente tra politica italiana e diplomazia vaticana potrebbe tradursi in un’influenza più incisiva per entrambi, restituendo a Roma un protagonismo credibile nelle dinamiche euro-mediterranee e oltre.
Il punto nodale resta, tuttavia, la natura stessa dell’esperienza religiosa e politica nell’età della crisi. Quando l’insicurezza si diffonde su scala globale, le persone tendono a cercare ancoraggi che offrano protezione, orientamento e stabilità. A questa domanda di sicurezza, tanto concreta quanto esistenziale, rispondono sia lo Stato che la religione, ciascuno secondo modalità differenti: lo Stato si propone come garante dell’ordine pubblico, della coesione sociale e della sicurezza fisica, mentre la Chiesa si presenta come custode di una Verità capace di dare senso all’esperienza umana, offrendo risposte ultime, una prospettiva di salvezza e una sostanza identitaria che trascende la dimensione materiale.
Si dovrà dunque riflettere seriamente sulla reale inevitabilità della secolarizzazione: se essa rappresenti davvero l’approdo definitivo della modernità occidentale, o se piuttosto non si tratti di una parentesi storica destinata a essere superata, qualora il bisogno collettivo di sicurezza, coesione e identità riaffiorasse con rinnovata forza. Alcuni segnali provenienti dalle prime esternazioni di Papa Leone XIV sembrano indicare che la secolarizzazione sia stata assunta come bersaglio prioritario della sua azione pastorale, quasi a voler dimostrare che non si tratti di un processo irreversibile.
Qualora lo Stato italiano sapesse intercettare con lungimiranza questa domanda di “ritorno al senso”, potrebbe trarne impulso per rilanciare un ruolo propositivo nello scenario geopolitico, collaborando con la Chiesa su alcune grandi questioni di fondo – dalla diplomazia mediterranea al dialogo interreligioso, fino alla promozione della cultura europea – senza mai perdere di vista la consapevolezza che un equilibrio duraturo tra le due istituzioni rimane, per sua natura, precario, reversibile e contingentato alla mutevolezza dei contesti storici.
La storia ci insegna che la relazione tra Stato italiano e Chiesa cattolica si configura come una dialettica di alternanze, in cui la forza dell’una è troppo spesso la debolezza dell’altra: solo in tempi di grandi crisi o di eccezionale convergenza di interessi sono possibili alleanze tattiche, come avvenne sotto Pacelli e Wojtyla. La natura stessa del cattolicesimo romano – istituzione universale, proiettata ben oltre i confini italiani – rende impossibile ogni vera simbiosi con uno Stato nazionale, soprattutto quando la Chiesa tenta di recuperare la propria centralità in Europa. Eppure, nel tempo della crisi della modernità secolarizzata e dello smarrimento identitario, una nuova stagione di collaborazione non va esclusa a priori: la riproposizione del tema della fede come fondamento del tessuto sociale potrebbe consentire a Roma di recuperare almeno temporaneamente quella funzione di ponte tra mondi e popoli che la storia le ha assegnato. La sfida è ardua: si tratta di accettare che il ruolo internazionale della città eterna dipenda oggi, più che in passato, dalla capacità di cavalcare la forza propulsiva della Chiesa, senza mai smarrire il pragmatismo necessario a valorizzarne l’universalismo nei limiti delle strategie nazionali. Lo Stato italiano, al netto delle fragilità strutturali che ne rendono flebile la voce sulle grandi questioni globali, può ripensare la propria centralità solo se saprà rimodulare il rapporto con la Santa Sede: non antagonismo sterile, né ingenua fusione di orizzonti, ma alleanza tattica e consapevole, nella consapevolezza che raramente l’una e l’altra potranno essere grandi contemporaneamente se non in presenza di una vera svolta nella storia mondiale. In questa difficile arte dell’equilibrio, si gioca forse il destino geopolitico di Roma nei decenni a venire: crocevia, ancora una volta, di storia universale.