La quiete della campagna slovacca squarciata dal tonfo degli spari a Robert Fico è la metafora di un crescendo inarrestabile di tensioni, che avvolge l’Europa alla vigilia del suo più importante appuntamento elettorale. L’irruzione della violenza nella vita politica è un fatto di per sé inusuale se non straordinario per il vecchio continente, che raramente ha visto alzare l’asticella della ferocia sino a minacciare l’incolumità fisica. L’attentato al premier slovacco rappresenta un salto di qualità, che macchia di sangue la vigilia delle urne, gettando un’ombra sulla destabilizzazione degli equilibri di un Paese che a inizio maggio festeggiava con orgoglio i vent’anni dall’ingresso nell’Unione. Oggi Bratislava è avvolta da una cappa di tensione palpabile, che contrasta con la suastoria di transizioni pacifiche come la Rivoluzione di velluto e proietta dubbi sull’effettiva tenuta delle istituzioni democratiche.
Se le proteste del 1989 portarono al collasso della Cecoslovacchia e all’allontanamento dalla sfera russo-sovietica senza colpo ferire, gli eventi di oggi dipingono uno scenario opposto. La Slovacchia odierna si colloca infatti al centro di un mosaico di interessi spesso in contrasto tra loro, sullo sfondo di un sistema istituzionale ormai consunto e privo di quell’autorevolezza riposta con grande ottimismo alla fine della guerra fredda. Robert Fico incarna meglio di chiunque altro le contraddizioni di una transizione verso i cosiddetti standard liberali, soprattutto sul piano economico, nonostante l’ombrello offerto dall’Unione Europea. La stessa parabola del primo ministro lo dimostra, dopo le dimissioni del 2018 provocate dall’omicidio del giornalista investigativo Ján Kuciak che indagava sui legami tra frodi fiscali e criminalità organizzata.
Oggi, con la guerra russo-ucraina nel cuore del Vecchio Continente, i nodi sono venuti al pettine e la sovrapposizione di fattori esogeni ed endogeni è arrivata vicina al cadavere eccellente. Ma Fico non è l’Arciduca Ferdinando e il suo aspirante omicida, il “poeta” Juraj Cintyla ha poco in comune con Gavrilo Princip. Potrà dormire sonni tranquilli chi per un momento ha pensato ai venti di guerra che spirano dall’est Europa. Le pallottole dirette al primo ministro non saranno di certo la causa scatenante di nuovi eventi bellici, ma alimenteranno una spirale destabilizzante in prossimità delle elezioni, inquinando alla radice i meccanismi di competizione democratica su cui la Slovacchia e l’Unione europea si fondano. Non giova certo all’Occidente la morte di un leader politico illiberale, maestro nel camaleontismo e capace di destreggiarsi su più tavoli, tornato alla guida di un paese in eterna transizione. Al contrario, la vicinanza di Robert Fico alla Russia, esplicitata più volte nell’opposizione a sanzioni e aiuti all’Ucraina, rende il tentativo di assassinio un invito irresistibile per promuovere una brusca sterzata repressiva ai danni delle opposizioni, con tutto ciò che ne deriverebbe.
Solo il tempo potrà dire se quella che assomiglia alla versione slovacca dell’omicidio di Salvo Lima, più per tempistiche ed effetti destabilizzanti che per la mafia, produrrà una regressione dello Stato di diritto, in assenza di eventi traumatici. Così mentre le apparizioni e i comizi dei leader europei si rarefanno e affiorano i canonici interrogativi sulla capacità di respingere la spirale di violenza, Russia e Cina guardano (nemmeno troppo) da lontano il destino riservato al nuovo alfiere dell’antioccidentalismo. Una Slovacchia indebolita all’interno è congeniale agli ingegneri del caos più di quanto non lo sia un leader accondiscendente, in apparenza nel pieno dei suoi poteri, ma in realtà limitato nelle scelte dai vincoli euroatlantici. Su questo punto è destinata a giocarsi la partita dei prossimi mesi che riveleranno i futuri equilibri dell’Europa Orientale.