Nell’estate del 1980 a San Francisco, in California, trovai tra gli scaffali della libreria City Lights di Lawrence Ferlinghetti, poeta ed editore della beat generation americana, la prima edizione di Reflections on the death of Mishima di Henry Miller. Il libro, pubblicato nel 1972 dall’editore Capra Press di Santa Barbara, venne tradotto in italiano soltanto nel 2009 da Roberto Rossi Testa e pubblicato dalla casa editrice ES nella raccolta di saggi di Yukio Mishima La spada, per poi essere stampato come volume singolo nel 2016 dalle Edizioni Feltrinelli.
Quando ebbi tra le mani lo scritto di Miller provai un’intensa scarica di adrenalina che mi riportò alla mente l’istante in cui Yukio Mishima, da sempre posseduto dalla vertigine del suicidio, si diede la morte secondo il Seppuku, antico rituale dei samurai nipponici. A sconvolgermi non fu l’idea del togliersi la vita con le proprie mani, quanto la determinazione e la violenza che quel gesto, compiuto da un uomo che voleva consegnarsi alla storia, trasmetteva ai comuni mortali: un atto liberatorio totale che poneva Mishima contro l’intero universo vivente. La sua fine atroce, culminata con la decapitazione compiuta dal fedele Morita, rappresentava la più radicale liberazione dall’oppressione e dall’alienazione creativa che comporta il vivere prima e lo scrivere poi.
Il suicidio di Mishima però non incarnava un gesto apocalittico, semmai indicava la via per la conquista dell’immortalità e la testimonianza del coraggio di un uomo, scrittore e poeta, che volle sottrarre la vita al flusso del tempo, trasformando la morte in un’opera estetica più autentica di qualunque artistico inganno possibile: uccidersi era la sfida necessaria al sublime e definitivo istante folgorante, un ritorno all’elemento fatale come affermazione assoluta della volontà del proprio Io.
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Henry Miller amava la vita anarchica condotta all’estremo delle conseguenze, spinta al rifiuto delle convenzioni morali, politiche ed economiche borghesi. Piuttosto che lasciarsi affascinare dalla civiltà dell’homo oeconomicus americano, Miller, negli Stati Uniti, scelse di ritirarsi nei pressi delle spiagge fredde e deserte di Big Sur a osservare il frangersi delle onde del mare e le grandi balene che d’inverno nuotano al largo delle acque antistanti quel lembo di terra californiana incontaminata. E fu proprio in quel luogo fuori dal tempo che iniziò a riflettere sulla morte di Mishima.
In nome della libertà di parola e di espressione, Miller aveva scelto di sperimentare il miracolo della vita eccedendo sempre, e a chi lo interrogava sui suoi eccessi replicava: «Sii ciò che sei, ma siilo al massimo». Forse per questo, dalla morte volontaria dell’intellettuale giapponese, Miller capì che non occorreva credere in qualcosa o sapere, ma anzitutto agire, e in Mishima non vide l’eroe che si innalza al di sopra della forza, né il fanatico, né l’agitatore politico, ma colse l’Assoluto che scorreva nel suo sangue, la forza dell’uomo orientale in grado di superare quelle situazioni limite che di solito condannano l’Essere allo scacco o al naufragio.
Mishima aveva superato l’impasse determinato dal bivio esistenziale costituito dal dover scegliere tra lo scrivere e l’agire politicamente per rinnovare il paese del Sol Levante: togliendosi la vita aveva abbracciato Thanatos per sempre, ma sacrificandosi in nome del suo ideale politico aveva sprigionato un atomo di libertà. Fu proprio questa indomita e titanica determinazione a colpire la sensibilità di Miller che ammise di aver pensato anche di suicidarsi ma si ritrovò come trattenuto misteriosamente sull’orlo di un precipizio fatale.
Di fatto Mishima ricorda il prototipo dell’uomo in rivolta di Albert Camus:
Che cos’è l’uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì fin dal suo primo muoversi.
L’intellettuale nipponico fu capace di rifiutare un’esistenza meschina, anti-eroica e soprattutto anti-umana, dicendo però sì alla morte. Il suicidio, per Mishima, incarnava la sublime affermazione della libertà di poter scegliere tra l’essere uomo-macchina, o uomo-massa, senza eros e senza un vero e proprio carattere individuale, e il non essere. Alla banalità e alla normalità della vita quotidiana, egli preferì darsi la morte senza alcun timore, perché come ha scritto Miller:
L’unico vero nemico dell’uomo è il timore e ogni atto dell’immaginazione (ogni eroismo) è ispirato dal desiderio e dall’incrollabile intenzione di vincere il timore.
Togliersi la vita, per Mishima, rappresentava l’epilogo motivato dell’esistenza di uno scrittore impegnato sino allo stremo delle forze, e la scrittura era il tramite per raggiungere l’immortalità. L’intellettuale giapponese inseguiva la vita eterna, che si perpetra in continuazione attraverso i suoi scritti, come se fosse una sorta di dono magico, una conquista di cui solo pochi uomini eletti possono godere veramente, poiché hanno raggiunto uno stato superiore dell’Essere al di là dell’umano. Mishima aveva raggiunto questa dimensione assoluta assumendo coscientemente i panni di chi pareggia l’eternità al tempo, e viceversa, liberandosi definitivamente da ogni contesa con la realtà e con la propria esistenza.
Se Hegel sosteneva che l’uomo fosse un vuoto niente e Marx scriveva che l’individuo determinato non è altro che un essere appartenente a una specie, e quindi come tale è mortale, Mishima li ha contraddetti entrambi: egli ha saputo vincere il niente esistenziale e il nulla che avanza nella mentalità dell’uomo moderno, contrapponendo il linguaggio della carne a quello involuto delle parole e delle immagini. Grazie a questa sublime contraddizione, con la morte che ha il misterioso potere di compendiare una lunga vita nell’esplosione di un fuoco d’artificio, egli ha vinto anche la caducità del corpo, raggiungendo e superando la barriera che separa la vita dalla sua fine con la conquista dell’eternità.
Con il Seppuku Mishima ha dimostrato che sì, l’uomo è creato e si crea come individuo unico nel suo genere, ma resta pur sempre cosciente della propria morte, la accetta spesso liberamente e se la dà talvolta, con cognizione di causa, volontariamente. Allora la morte viene a perdere quell’aspetto negativo che ha sempre caratterizzato, per temporalità e per finitezza, il progetto dell’uomo in sé, diventando la strada da percorrere per raggiungere la vita eterna e la libertà assoluta, proprio come scrisse Hegel:
Per la facoltà della morte il Soggetto si dimostra come libero e assolutamente elevato al di sopra di qualsiasi costrizione.
Al pari del surrealista Jacques Rigaut, anch’egli morto suicida, Mishima coltivava il sogno della fine a sua immagine e dava al morire una valenza estetica tale da dimostrare la sovranità smisurata dell’uomo sulla materia e nei confronti della morte stessa. Mishima ha rifiutato la vita annullata dal compromesso con il progresso e con la modernità, pur restando però vulnerabile al fascino della ricchezza, del modus vivendi hollywoodiano, della popolarità acquisibile attraverso i canali radiofonici e televisivi, fino a trasformare un gesto intimo e privato come togliersi la vita in un avvenimento popolare, morendo davanti alle telecamere in diretta televisiva.
Il suicidio di Mishima, compiuto alla presenza dei giornalisti il 25 novembre 1970 dopo aver pronunciato un proclama della Tate no Kai (la Società dello Scudo, il suo esercito personale) e trasmesso in televisione, non era una fuga da compiere, il sottrarsi all’imperio di qualsiasi condizione data o imposta dall’esistenza, bensì la denuncia al mondo intero della sconfitta della giapponesità del suo popolo, del tramonto dei valori dell’antica tradizione del Sol Levante, messo di fronte al dilagare dei dis-valori dell’Occidente americanizzato. La televisione, i fotografi e i mass media facevano parte del tentativo di Mishima di infrangere il muro tra sé e il resto dell’umanità e, al contempo, la morte volontaria, fotogenica e telegenica insieme, esaltava i contorni estetici di un uomo da sempre affascinato dalla bellezza della morte, desiderata come una fine spettacolare, e per questo provata e riprovata nella sua mise en scène a teatro e durante le riprese del film Patriottismo del 1966.
Il gesto fatale di Mishima riporta alla mente la tragica fine di Vladimir Majakovskij, poeta futurista che ha lasciato che uno sparo mettesse punto alla sua vita, finendo suicida o suicidato dai militari di Stalin. Come Mishima, Majakovskij fa parte di quella generazione che ha dissipato i suoi poeti ma che ha glorificato l’istinto. «La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano», scrisse il futurista russo che, al pari di Mishima, dimostrò di saper dominare la vita senza temere il tuffo fatale nell’oscurità eterna. Morendo, Mishima e Majakovskij diedero il magistrale esempio a un’umanità disarmata, incapace di contrastare la caducità e la decadenza della civiltà moderna.
Illuminato da uno speciale Satori e travolto da un’irriverenza cosmica geniale, attraverso il gesto di Mishima, Miller cercò di comprendere quale sapore avesse la morte, ovvero il morire inteso come fiera affermazione dell’Essere di chi preferisce togliersi la vita piuttosto che soccombere di fronte all’inquietudine esistenziale. Mishima e Majakovskij restano dunque uomini, scrittori e poeti travolti dall’antinomia Io – non Io: intellettuali che hanno avuto il coraggio di scegliere tra essere e non essere e per questo individui superiori, che hanno istintivamente risposto all’oscuro richiamo della morte liberando l’anima dalla prigione della vita.