OGGETTO: Terrore razziale
DATA: 26 Settembre 2021
SEZIONE: inEvidenza
Ricchi, deboli, vili, accettiamo la barbarie nelle nostre città. Sul perenne conflitto tra “bianchi” e “neri” (che sfugge alla politica), le parole oscure di Nick Land
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Bella esperienza vivere nel terrore, vero? Ecco cosa significa essere uno schiavo.

Blade Runner

Non c’è una zona di Singapore, Hong Kong, Taipei, Shangai e di molte altre città dell’Estremo Oriente dove non sia possibile camminare con sicurezza a notte fonda. Le donne, sia giovani che adulte, da sole o coi bambini, possono tranquillamente dimenticarsi di cose come spazio e tempo, perlomeno riguardo al timore di poter subire una aggressione. Anche se questo potrebbe non essere sufficiente per definire una società civilizzata, ci siamo quasi. È certamente necessaria una definizione simile. Il caso contrario è la barbarie.

Queste fortunate città sulla sponda occidentale del Pacifico sono caratterizzate da posizioni geografiche e da profili demografici che richiamano in modo evidente le minoranze modello, educate in un modo che ha dell’imbarazzante, dei paesi occidentali. Si tratta di città dove (non-odiosamente) prevalgono popolazioni che – per eredità biologica, tradizioni culturali o per qualche inestricabile incastro delle due cose – raggiungono un livello di interazioni sociali educate, prudenti e pacifiche senza grandi sforzi, e meritevoli di un continuo sostegno. Sono pure, cosa più importante, società aperte, cosmopolite, del tutto scevre di rozzezza sciovinista o di paranoie etnico-nazionaliste. I loro cittadini non sono inclini a sottolineare le proprie virtù. Al contrario, sono solitamente modesti riguardo alle loro caratteristiche e ai loro successi individuali e collettivi, sono incredibilmente sensibili riguardo ai propri fallimenti e difetti, costantemente attenti alle opportunità di migliorarsi. L’autocompiacimento è tanto raro quanto la delinquenza. In queste città, il terrore sociale è del tutto assente.

In netto contrasto, in gran parte del mondo occidentale la barbarie è stata normalizzata. Che le città abbiano brutte zone che non sono solo indigenti, ma rappresentano una minaccia letale sia per i residenti sia per gli estranei è considerato semplicemente ovvio. Ai visitatori si consiglia di starne alla larga mentre gli abitanti fanno del loro meglio per trasformare le proprie case in fortezze, evitando di uscire quando è buio e – soprattutto se maschi e giovani – chiedendo protezione alle gang criminali, il che degrada ulteriormente la sicurezza di tutti gli altri. Lo spazio pubblico è controllato dai predatori, i parchi sono trappole mortali, la minaccia è celebrata alla stregua di un’attitudine, il mercato immobiliare è in mano ai delinquenti, l’istruzione scolastica è ridicolizzata e l’attività commerciale non criminale deprecata come una violazione delle norme culturali. Ogni significativo meccanismo di influenza socio-culturale, dall’educazione al patrimonio culturale alla pressione tra pari, fino alla retorica politica e agli incentivi economici, è adeguato all’approfondirsi della depravazione compiacente, dell’estirpazione senza tregua di ogni impulso all’auto-miglioramento. È abbastanza chiaro che questi sono posti dove la civiltà fondamentalmente è collassata, e una società che li includa ha fallito fino in fondo.

Nei paesi più influenti del mondo anglofono, la disintegrazione della civiltà urbana ha plasmato profondamente la struttura e lo sviluppo delle città. In molti casi, il modello naturale (ora si potrebbe anche chiamarlo asiatico), nel quale l’urbanizzazione intensiva e i corrispondenti valori immobiliari sono maggiori nel centro città, è stato distrutto o perlomeno deformato. La disintegrazione sociale del centro urbano ha portato all’esodo dei ricchi (anche dei moderatamente ricchi) verso rifugi periferici ed extraurbani, producendo un modello, grottesco e storicamente senza precedenti, di sviluppo a ciambella in cui le città tollerano le – o semplicemente si adattano alle – parti più interne, rovinate e in decadenza, quelle dove chi è sano di mente ha paura di passeggiare. Centro città ormai significa esattamente l’opposto di quel che avrebbe prodotto uno sviluppo urbano che non fosse stato distorto nel suo corso. Questa è l’espressione geografica di un problema sociale dell’Occidente – e specialmente dell’America – che è a un tempo del tutto innominabile quanto evidente.

Sorprendentemente, la “sindrome da ciambella col centro collassato” ha un nome particolarmente sconveniente eppure accolto comunemente, che ne cattura il senso a grandi linee – almeno, in accordo alle sue caratteristiche secondarie – e con un grado ragionevole di approssimazione statistica: White Flight, la fuga dei bianchi. È un’espressione notevole, per più ragioni. Innanzitutto, porta il timbro di una bipolarità razziale che – come arcaismo vitale – risuona a più livelli con la cronica crisi sociale dell’America. Anche se all’apparenza datato per un’epoca di molteplici questioni che riguardano il multiculturalismo e l’immigrazione, esso ripristina il codice dei non-morti ereditato dalla schiavitù e dalla segregazione, codice identificato per sempre dalle parole di Faulkner: «Il passato non è morto. Non è nemmeno passato». Eppure anche in questo momento atipico di candore razziale, la nerità è elisa e implicitamente scollegata, senza rappresentanza. La si indica per allusione, come fosse un residuo, concentrato passivamente e per via derivata, della funzione setacciatrice di un panico bianco altamente adrenalinico. Quel che non può essere detto lo si indica persino quando non lo si menziona. Un notevole silenzio accompagna l’espressione spezzata di una muta marea di separatismo razziale, guidata da terrori e animosità civilmente invalidanti, le cui profondità e le cui strutture di reciprocità restano inconfessabili.

Se l’esodo puritano dal Vecchio al Nuovo Mondo è stato alla base della globale modernità anglofona, il White flight ne è il logorio, la dissoluzione. Come per la migrazione pre-fondante, quel che rende la fuga dei bianchi ineluttabile è il suo tratto sub-politico: tutte defezioni e nessuna protesa. È l’altro – che non polemizza né esige – della socialdemocrazia e dei suoi sogni – l’impulso spontaneo dell’Illuminismo oscuro, col suo baluginio iniziale al contempo fatto di disillusione e implacabilità.

Domanda: Qual è il problema razziale americano?

Risposta 1: i neri.

Risposta 2: i bianchi.

La popolarità combinata di queste opzioni è significativamente ampliata, molto probabilmente per racchiudere la grande maggioranza di tutti gli americani, quando si voglia includere chi sostiene che una di queste due risposte domina i pensieri dell’altra parte. Tra di loro, le proposizioni: Il problema finirebbe se ci liberassimo dei teppisti neri/razzisti bianchi; e/o: Pensano che siamo tutti teppisti e razzisti e vogliono sbarazzarsi di noi occupano una proporzione impressionante dello spettro politico, stabilendo una solida base di terrore e avversione reciproci. Quando si aggiungono le proiezioni difensive (Non siamo teppisti, siete voi i razzisti o Non siamo razzisti, siete voi i teppisti), il potenziale per una dialettica surriscaldata e priva di sintesi si avvicina all’infinito.

Non che queste due parti abbiano un approccio razziale (fuorché nella fantasia tribal-nazionalista dei neri o dei bianchi). Per i rozzi stereotipi è molto più utile rivolgersi alla dimensione politica, alle sue categorie di liberale e conservatore nel senso che hanno oggi negli Stati Uniti. Identificare la questione razziale con il razzismo bianco è la tipica posizione liberale, mentre identificarlo con la disfunzione sociale dei neri è il preciso correlativo dei conservatori. Sebbene queste posizioni siano formalmente simmetriche, è la loro effettiva asimmetria politica che carica la questione razziale americana del suo straordinario dinamismo storico, del suo significato universale.

Che bianchi e neri americani – considerati grossolanamente come aggregati statistici – coesistano in una relazione di reciproca paura e vittimizzazione percepita è dimostrato dai modelli evidenti dello sviluppo urbano e degli spostamenti, dalla scelta della scuola, dalla detenzione di armi, dalla vigilanza e dalla reclusione, e da tutte le altre forme di espressione di una preferenza rivelata (in quanto opposta a dichiarata) che è collegata alla volontaria ridistribuzione e sicurezza sociale. Regna un obiettivo equilibrio del terrore, la cui visibilità è oscurata dalle prospettive complementari ma incompatibili del suprematismo vittimista e del suo diniego. Eppure tra le posizioni liberali e conservatrici riguardo alla razza non c’è alcun equilibrio, ma qualcosa di simile a una disfatta.

Nick Land

*Si ricalca parte del capitolo “Sub-digressione a più parti nel terrore razziale”, da: Nick Land, “L’illuminismo oscuro”, Gog, 2021

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