Qualche anno fa venne pubblicato in Francia Indignez-Vous! di Stéphane Hessel, un diplomatico francese novantatreenne ed ex partigiano. In poco tempo, il pamphlet fu tradotto in tutte le lingue (in Italia col titolo Indignatevi!), fino a diventare il trattato del ribelle di un certo “populismo di sinistra”. L’indignazione dunque come primo passo per un risveglio delle coscienze, come forza collettiva, come motore della contestazione. Queste pagine ormai appartengono però a un’altra epoca. Nel 2011 emergevano le contraddizioni del sistema capitalistico, nasceva poco a poco la narrazione contro le élites, ma soprattutto c’erano ancora le piazze dove il popolo poteva incontrarsi con il populismo. Poi è arrivata l’epidemia, e con lei, l’impossibilità di riunirsi, dunque di indignarsi. Contro un nemico invisibile, contro una classe dirigente protetta dallo stato di emergenza e dall’eterno ritorno dell’uguale informativo (con qualche variazione dettata dalle varianti e dalla campagna vaccinale). Anche se improvvisamente, per un attimo, nella transizione dal governo Conte II al governo Draghi, era sembrato che la curva epidemica si fosse fermata.
Insieme allo spazio insomma si è più o meno sospeso anche il dibattito pubblico, rimasto fermo a marzo del 2020, come i numeri dei contagiati, dei decessi, dei malati in terapia intensiva. Viviamo nell’interregno dell’irrazionale, dell’ignoto, dell’impotenza. E chi prova a indignarsi, con rivendicazioni sacrosante, subisce la delegittimazione coatta. Siamo prigionieri dell’iper-realtà. Ce lo suggerisce Giorgio Cosmacini nello straordinario libro Le spade di Damocle, trascrive l’evoluzione delle paure e delle malattie. La paura della morte fisica, durante la peste, quando il tasso di letalità era altissimo; la paura della morte civile, come per la lebbra, “che comportava la segregazione dal mondo dei vivi, incarnava la paura dell’emarginazione, del rigetto dal consorzio civile”; la paura della morte morale, che colpiva i malati di sifilide; o ancora la paura di una malattia sessuale peccaminosa e vergognosa. Lo storico Giorgio Cosmacini ci insegna anche che nella storia pestilenziale dell’umanità, le misure per il contenimento del virus, sono stato più o meno sempre uguali. Le stesse regole e regolette anti-virali insomma, per quanto insopportabili per qualsiasi comune mortale, furono adottate anche in passato per affrontare l’epidemia. In attesa che finisse, sconfitta dalla medicina, o nella testa delle persone. Anche tra il Trecento e il Seicento, negli anni della peste, c’erano “patenti” o “bollette” di sanità per fermare i sospetti che provenivano dai luoghi infetti, insieme alle misure sanitarie da parte di tutti gli strati sociali, dalla nobiltà al clero, dalla classe media imprenditoriale alla gente comune.
Ma c’è un dato storico ancora più interessante con cui dobbiamo fare i conti. Dopo una prima fase di panico diffuso, poco a poco la popolazione reagiva alla coercitiva gestione dell’emergenza con la rassegnazione e il fatalismo. E tramite la riattivazione dei circuiti umani (quelli che oggi vengono definiti “assembramenti”) e commerciali (la riapertura delle attività) si cercava di rendere la paura della morte – che fosse civile, fisica, morale, sessuale, legata più ai sentimenti che agli eventi – sopportabile e superabile. Perché la tragedia umana ed economica a un certo punto supera quella sanitaria, allora la disobbedienza diventa inevitabile. Non si tratta di disobbedienza civile, contro un’autorità che impone delle misure, bensì spirituale, vale a dire contro noi stessi. Improvvisamente la paura, segreta, intima, individuale diventa collettiva, perché è nella collettività che si trova conforto. E alla psicosi individuale subentra la psicologia delle folle. Solo l’irrazionalità collettiva può sconfiggere l’individuo irrazionale. Sconfiggere la psicosi, in entrambi i casi, significa rassegnarsi, e rassegnarsi vuol dire accettare la morte, una realtà dalla quale non si può sfuggire, perché in fondo siamo solo di passaggio. Lo disse Boris Johnson nel marzo del 2020 in una conferenza stampa che provocò l’indignazione dei giornalisti: “è la più grave crisi sanitaria in una generazione, moriranno molti nostri cari”. Il premier inglese aveva detto fin da subito che per sconfiggere l’epidemia, e la psicosi dell’opinione pubblica, occorreva affrontare la questione con realismo e filosofia. Uno statista è chiamato a governare lo stato di emergenza e quello dell’anima. Il Covid-19 uccide, i vaccini hanno avuto effetti collaterali su alcune persone (1 su un milione e 400mila persone). Lo sappiamo, e dobbiamo rassegnarci alla paura. Perché anche la psicologia è una medicina fortissima. E rassegnarsi alla possibilità della morte è la prima regola se vogliamo tornare a vivere. E’ la storia della natura umana contro la prepotenza della natura.