I Balcani esercitano da sempre un fascino particolare; a mezza strada tra la mitteleuropa asburgica e la Sublime Porta ottomana sono ancora terra di violente passioni politiche, di indipendentismi, di religioni e culture che si contrastano veementemente. Sarajevo, Srebrenica sono ancora ben vive e pulsanti nella memoria che biancheggia come le ossa che dalle fosse comuni urlano ancora contro il cielo, a stento coperte da brandelli di stoffa scolorita. La prima onda verde jihadista è partita da qui, accompagnata dalla silente benedizione del curdo Salah al Din dalla moschea di Sarajevo. Terra di passaggi, di incroci, di interessi ed instabilità costanti; terra di popoli e lingue diverse, terra che si dibatte in una storia perennemente tormentata. E ci siamo anche noi, gli italiani, problematici, incostanti, poco affidabili, sponda occidentale di un mondo che non sa come affrontare l’Europa d’Oriente. Ci accompagna il Professor Laris Gaiser, che di Balcani è intriso.
–Professore, i Balcani possono definirsi un limbo geopolitico?
Il cittadino medio dell’Europa occidentale rifugge dai Balcani, fatica a comprenderli; immagino perché i Balcani sono un luogo antistorico, un luogo nel quale si connettono e si scontrano mondi completamente differenti tra di loro. È il luogo di connessione di tutte le tensioni geopolitiche globali, è il ventre molle dell’Europa, è una regione che vive di storia e ne produce molta di più di quanta ne riesca sostanzialmente a consumare, come disse Churchill. Si tratta di un qualcosa che a noi è abbastanza sconosciuto ed esprime una cultura storica ed un approccio alla vita completamente differente, dunque anche da un punto di vista filosofico più profondo. Questa è ovviamente anche la causa delle tante problematiche che da questa regione derivano.
–La querelle kosovara: quali prospettive si possono intravedere?
Come dicevo le grandi questioni geopolitiche mondiali sono connesse ai Balcani, malgrado si fatichi a scorgerlo e il Kosovo rimane una delle questioni collegate alle più rilevanti questioni globali. Il Kosovo, insieme a tante altre vicende rimaste insolute come conflitti e contrasti congelati latenti nella regione, fa parte di un quadro più ampio. Per risolvere la questione kosovara come anche per risolvere la querelle della Bosnia Erzegovina, in altri tempi si sarebbe ricorsi ad un congresso internazionale tra grandi potenze; ovviamente parliamo di XIX-XX secolo. Ora, tutto ciò che succede a Mariupol è connesso a ciò che è successo o succede in Kosovo; ritengo che le grandi potenze dovranno comunque trovare un accordo. Al momento la questione kosovara è legata al dialogo impostato dall’Unione Europea e certamente non troverà una soluzione in breve tempo perché i leader politici locali sostanzialmente non la desiderano e perché sia in Europa che in America si è prossimi ad elezioni. Molto probabilmente sulla base dei risultati elettorali anche il premier kosovaro ricorrerà ad elezioni anticipate. Almeno per un anno la questione rimarrà dunque sicuramente posposta.
–Prof, come vede politiche ed influenze italiane nell’area?
Senza saperlo, l’Italia rimane la Cenerentola della regione. Roma propaganda da sempre il fatto che la regione è prerogativa politica di assoluto interesse nazionale. I Balcani sono il luogo in cui teoricamente l’Italia ritiene di dover contrastare l’allargamento dell’influenza franco-tedesca bilanciandone il potere. In verità, in decine di anni ormai l’Italia non ha avuto una politica strategica verso questa regione, come non ha mai avuto un approccio sistematico come invece lo ha Berlino, forse un po’ meno Parigi. L’Italia ha giocato la carta del partner economico, anche se negli ultimi anni ha visto incrinarsi anche questo settore tanto da vedere in declino il suo ranking. La stessa Slovenia, il primo Paese vicino di casa in questa parte centrale dell’Europa, in quest’ultimo periodo ha visto il sopravanzare commerciale della Svizzera, capace di sottrarre posizioni preziose al nostro Paese.
–Continuiamo a parlare di vicini di casa: quali possono essere le politiche e le influenze turche e greche nella regione?
La politica di influenza greca è differente da quella turca; certamente Atene ha tutto l’interesse ad avere una regione stabile. I greci giocano un ruolo diplomatico sostanzialmente defilato ma con una presenza costante. D’altra parte invece i turchi, negli ultimi 15 anni hanno avuto un approccio ben più proattivo iniziato con la famosa teoria della profondità strategica, cioè dell’essere presenti in modo abbastanza consistente nelle regioni in cui una volta si estendeva l’Impero ottomano. In più in questo senso hanno avuto carta bianca per diventare un proxy imperiale americano, dunque un gestore regionale dell’impero di Washington tra il 2010 ed il 2015. Ora Ankara sta tornando a cercare stabilità e conforto geopolitico americano dopo il tentato colpo di stato interno del 2016, dando concretezza alla loro influenza. Economicamente la Turchia non è un grande partner nella regione, lo è politicamente; prova ne sia che per la prima volta alla Turchia è stato affidato il comando di una missione internazionale della NATO proprio nei Balcani: lo scorso ottobre presso la Kosovo Force si è insediato un comando turco. C’è dunque da considerare che si è trattato della prima volta in assoluto che la NATO ha assegnato un comando alla Turchia, a riprova dell’importanza e dell’interesse di Ankara nella regione.
–A proposito di influenze: Mosca?
Nonostante la propaganda occidentale e le schematizzazioni e le semplificazioni occidentali che vogliono vedere la Russia sempre presente nei Balcani quale grande amica delle popolazioni slave locali, la verità è completamente diversa. Se si cammina per strada a Belgrado, considerata l’alleata più vicina a Mosca, e si chiede a qualunque cittadino qual è il beneficio ricevuto dall’amicizia con la Russia, qualsiasi serbo onesto risponderà “assolutamente nulla tranne guai”. Nei Balcani la Russia è sempre stata lo spauracchio occidentale ma mai una vera alleata amica dei Paesi della regione; facile dunque giungere a motivazioni geopolitiche costantemente attuali, come potrebbero esserlo quelle che con la considerazione del rapporto russo cinese consentirebbero alla Serbia di ottenere il massimo vantaggio economico possibile dall’UE e dalle potenze occidentali. Certamente la Russia ha un interesse di arrivare ai mari caldi, di arrivare al ventre molle della zona nord atlantica per poter avere un grimaldello utile alla stabilizzazione o destabilizzazione dell’area funzionale ai suoi interessi.
–Tasto delicato ma ineludibile: il nazionalismo balcanico
Il nazionalismo balcanico è un problema. Lo abbiamo detto all’inizio: questo è un luogo antistorico, un luogo schizofrenico, vive immerso nella storia. Si potrebbe dire che i cittadini della regione conoscano ogni singola pietra su cui camminano. Il nazionalismo attecchisce dunque facilmente; del resto tutte le storie nazionali, con la creazione dei vari stati in questa regione dal XIX secolo in poi non si basa su un percorso storico continuo ma molto spesso sulla creazione di miti storici. Ovviamente creare nazioni su miti storici porta facilmente al nazionalismo. Indubbiamente negli ultimi anni c’è stato un revival del nazionalismo, ma questo è una colpa in larga parte ascrivibile all’UE, soprattutto alla Commissione presieduta da Junker che, all’inizio del suo mandato disse che non ci sarebbero stati allargamenti verso i Balcani. Forse sono cose che si fanno e non si dicono, ma certo una volta dette gli attori locali vedendo sbarrate le porte di un’entrata in occidente, si sono chiusi favorendo una spirale nazionalista, certo qui pericolosa. Molto spesso quanto accade nei Balcani rientra negli interessi delle potenze straniere, perché i Balcani sono sì complicati per sé stessi ma vengono utilizzati spesso come tool box per crisi a la carte, con una commistione di interessi interni ed esterni, tra stabilità interna e persistente disequilibrio esterno.
–Si parla inevitabilmente di jihadismo: c’è stata una radicalizzazione anche qui?
La radicalizzazione certamene c’è stata; è un fenomeno che si è cercato di contenere. Ha dimostrato presenza e potenza durante la guerra in Siria, dove gran parte dei combattenti percentualmente venivano da Kosovo e Bosnia Erzegovina. Ci sono stati anche tanti terroristi di ritorno. La soluzione operata con la detenzione locale non ha offerto molti spunti positivi, anche perché non ci sono stati programmi adeguati al reinserimento ed alla risocializzazione di questi soggetti. Tutto ciò nasce negli anni ’90 con le guerre in Bosnia e con l’importazione di combattenti dal mondo musulmano che ha sradicato l’islamismo laico presente fin da epoca austro ungarica e sopravvissuto al regime comunista.
–Nuovi egemoni: i cinesi. Sono anche qui?
Il mercato balcanico è piccolo, arriviamo al massimo a circa 20 milioni di consumatori; non ha senso investire geoeconomicamente e geopoliticamente nei Balcani badando solo all’aspetto mercantile. Ci vuole un motivo geopolitico che la Cina ha colto riuscendo ad entrare in un contesto ora condizionato dallo scontro tra Occidente e Russia. Praticamente a costo zero è riuscita ad ottenere investimenti ed amicizie per entrare nella zona del ventre molle nord atlantico garantendosi così una presenza costante in una zona strategica per i futuri equilibri globali. Anche questo è un modo di fare politica, e la Cina lo ha dimostrato con la costruzione del ponte che collega la terraferma a Dubrovnik (Ragusa) in Croazia confermandosi quale partner economico in Europa grazie ad un grande investimento infrastrutturale. Questo ha permesso alla Cina di introdursi nel continente proprio a cominciare dai Balcani ed in particolare sulla costa adriatica con chiari intenti geopolitici più che geoeconomici.
–La perla dell’Adriatico: quanto rimane della Trieste mitteleuropea?
Lo scrisse Luigi Einaudi prima della fine della prima guerra mondiale: annettete Trieste all’Italia e Trieste morirà. È esattamente quello che è capitato per 80 anni. Trieste ha sofferto, è stata isolata, è morta economicamente anche se era la più grande piazza mercantile con Londra, si è vista relegata in periferia perché privata dei suoi mercati nell’entroterra. Trieste stava rinascendo; non è certo più la città mitteleuropea crogiuolo di popoli diversi, è rimasta la storia, la filosofia, la cultura, lo spirito, ma certamente poco di quelle popolazioni. Spinta dal proprio porto Trieste si stava riaprendo, grazie ai grandi cambiamenti geopolitici che vedevano la crescita dei mercati centroeuropei cui Triste appartiene e di cui è il porto naturale; gli scontri in Ucraina hanno nuovamente falcidiato la crescita potenziale a breve termine. Certamente l’interesse per far crescere Trieste esiste anche dal punto di vista americano e lo si è notato pesantemente anche negli anni passati quando il governo italiano e le autorità portuali triestine hanno firmato con la Cina un accordo inerente al passaggio della Via della Seta. La reazione americana ha certamente evidenziato forti interessi per il futuro su città e porto. Il potenziale è evidente; in futuro questo potenziale tornerà sicuramente utile per l’intero sistema italiano.
–Geopolitica dei Balcani: verso est o verso ovest?
I Balcani sono una cosa molto particolare, comprenderli è difficile, non sono né est né ovest, ci si deve essere nati per capirne finezze, sottigliezze, difficoltà. Dall’esterno è difficile afferrarne le complessità; sono proprio queste che rendono i Balcani sono una cosa a sé stante. Essi stessi si percepiscono quale parte più importante del mondo astraendosi ed isolandosi dal concetto di collocazione est-ovest. Sicuramente UE e Nord Atlantico qui dovranno portare stabilizzazione e visioni di lungo termine per il futuro, cosa non facile. L’UE, in questo caso longa manus dell’impero americano, si trova di fronte al dilemma austro ungarico del 1908; all’epoca Vienna doveva decidere se lasciare la Bosnia Erzegovina fuori dai confini imperiali conscia della creazione di criticità e destabilizzazioni regionali oppure annetterla cercando controllare direttamente le crisi. Scelse l’annessione sperando di riuscire a controllarne le spinte disgregatrici, e sappiamo com’è finita. L’UE si trova ora nella stessa identica situazione: difficile qualsiasi scelta da operare, dipendendo tutto dalle capacità di attrazione e gestione del consesso europeo e dell’evoluzione delle questioni geopolitiche internazionali.
–Il nostro vicino di casa. Perché si parla meno di Slovenia rispetto agli altri Paesi?
Della Slovenia si parla poco perché lo si ritiene una Paese stabile, democratico, sviluppato, destinato ad essere parte della famiglia occidentale. È una visione sbagliata che non considera tutte le sottigliezze rappresentate da Lubiana, ma soprattutto è un approccio sbagliatissimo dal punto di vista della politica internazionale perché lascia Lubiana sempre e solo nelle mani del partner tedesco, per cui si nutre un grandissimo rispetto. Solo negli ultimi anni sono migliorate le cose, quando si è capito che le direttrici strategiche italiane dovevano essere tracciate a Roma e non lasciate ad interessi ed interpretazioni derivanti da Trieste o dal Friuli Venezia Giulia che ovviamente risentivano dell’interesse e delle tensioni alimentate dalle minoranze. Il problema è che l’Italia, oltre a non essere riuscita a mantenere la posizione di primo partner economico cedendola alla Svizzera, non è mai riuscita a portare avanti un partenariato politico strategico. Un progetto su cui ho lavorato all’inizio degli anni 2000 con i governi italiani puntava a rivitalizzare sia il bilanciamento dei poteri nei confronti della Germania nei Balcani sia tante delle le iniziative locali come quella Centro Europea, quella Adriatico Ionica, tutti mezzi a disposizione dell’Italia per cui Roma non ha tuttavia mai trovato partner stabili. Sarebbe stata l’impresa forse più agevole, dato che con la Slovenia non c’erano particolari querelle storiche e che si trattava del primo vicino di casa.
-In cauda venenum: come i Balcani vedono l’Italia
I Balcani vedono l’Italia come qualcosa di bello, in senso generale. Ma attenzione perché i Balcani sono molto realisti. Lo dicono chiaramente: dall’Italia non è arrivato alcun approccio sistemico. È un partner con cui si fanno affari ma è anche un partner instabile privo di una visione di lungo termine. Un Paese su cui non fare sempre affidamento nel contesto internazionale. Il problema è la comparazione con la Germania, che evidenzia sempre movimenti ponderati a livello politico economico.