Intervista

«Questa è una vocazione che hanno tutti gli esseri umani, poi alcuni di loro ci si specializzano e ne fanno una professione». I segreti del lobbismo rivelati da Claudio Velardi

Imprenditore, politico, fondatore del Riformista: Claudio Velardi ha collezionato un'esperienza che per molti sarebbe difficile raccogliere in sette vite. L'ultima battaglia in ordine di tempo, quella per l'istituzionalizzazione delle pratiche lobbistiche in Italia, è in pieno svolgimento.
«Questa è una vocazione che hanno tutti gli esseri umani, poi alcuni di loro ci si specializzano e ne fanno una professione». I segreti del lobbismo rivelati da Claudio Velardi
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Quello del lobbista è un mestiere circondato da un’aura di fascino e sospetto, di eloquenza e di cinismo. Una figura a metà tra il grigiore sulfureo e compassato de Il Divo e la sfavillante prosopopea del Nick Naylor di Thank you for smoking. Una ricostruzione tanto suggestiva quanto falsata dai miti, dalle metanarrazioni e dalle sceneggiature dei media e dell’opinione comune che viene quotidianamente evocata in presenza della parola lobbying. In realtà il lobbismo è una professione che trova una regolamentazione e una sua disciplina in tutti i principali Paesi occidentali. Tanto da essere un elemento che trova un suo fondamento nella costituzione degli Stati Uniti e che è incardinata negli ordinamenti delle maggiori democrazie, e (per i suoi sostenitori) nelle più elementari relazioni umane. Una condizione di normalità nella dialettica dei poteri che però non esiste in Italia in cui, invece, persiste un sostanziale deserto normativo (fatta esclusione per l’albo dei lobbisti della Camera) e una vera e propria ipocrisia sul tema.

Ma come funziona funziona il lobbismo in Italia e quali sono i suoi principali caratteri e nodi? Per rispondere a questa domanda abbiamo intervistato Claudio Velardi, che del lobbismo non è solo un esponente di spicco in Italia, ma uno dei suoi principali pionieri. Velardi, napoletano con un passato politico nella FGCI e una lunga esperienza nel mondo della comunicazione politica e del giornalismo, entra nel backstage del mondo politico, come uomo di governo e capo dello staff D’Alema verso la fine degli anni Novanta. Un percorso che poi lo condurrà nel 2000 a costituire la prima società di lobbying e public affairs (Reti) che si sia esplicitamente definita tale, portando allo scoperto un’attività che per molti era solo una cattiva parola e che per tutti era (ed è) ancora l’ennesima ipocrisia italiana. Affabile e carismatico, sicuro di sé e cordiale, ottimista e lucido, istrionico e razionale, Velardi è tra principali conoscitori del potere e dei poteri italiani ed esperto dei principali nodi del lobbismo nel nostro Paese. In questi giorni insieme centinaia di lobbisti italiani, ha promosso  un’appello per la regolamentazione del lobbying (incentrato sui principi di trasparenza, reciprocità e professionalità) che forse potrebbe concludere questo far west normativo.

-Dott. Velardi sul lobbying esistono tante mistificazioni e tanti fraintendimenti. Può spiegarci cosa significa veramente essere un lobbista?

Essere un lobbista significa essere una persona che comunica e che cerca di fare prevalere i propri interessi e quelli di chi rappresenta, attraverso una comunicazione profilata rivolta a chi deve prendere delle decisioni. Vuol dire quindi seguire una necessità ed una vocazione naturale dell’essere umano. Ovviamente quella che ho esposto è una approssimazione generale, ma non per questo meno vera.

-E nello specifico chi è?

Il lobbista dal punto di vista professionale è chi rappresenta gli interessi di una azienda, di un gruppo, o di un settore di fronte alle istituzioni. Anche se potremmo dire che è un lobbista chiunque rappresenti degli interessi particolari di fronte ad un decisore di qualche tipo. Per forzare un po’ l’idea, è un lobbista anche un bambino che si rivolge ad un genitore più concessivo per ottenere un un aumento della propria paghetta settimanale per sé o per i suoi fratelli, chiedendogli di mediare col genitore più rigido. Il lobbismo è, quindi, una attività che ha a che fare con il rappresentare i propri interessi o quelli di un suo dante causa. È una vocazione che hanno tutti gli esseri umani, poi alcuni di loro ci si specializzano e ne fanno una professione.

Il bravo lobbista è, però, colui che costruisce una coalizione di interessi per cercare di fare prevalere le proprie istanze e quelle dei suoi danti causa. È un mestiere molto semplice da capire, ma non altrettanto semplice da fare.

-Com’era fare il lobbista quando questa categoria si affermò in Italia?

All’epoca era un mestiere difficilissimo. Soprattutto per l’alone e l’atmosfera di sospetto che la parola “lobby” suscitava. Un sospetto cresciuto a dismisura nel tempo grazie all’uso errato che ne facevano i media, che di fronte a fenomeni complessi o che non sapevano etichettare utilizzavano sempre il termine “lobby”, ovviamente a sproposito… Rispetto ad oggi era molto più complicato, soprattutto per chi come me non nascondeva questa dicitura e si dichiarava apertamente come un lobbista. A tal proposito mi prendo una medaglietta perché dopo la fine del mio percorso politico ho creato una società che si chiamava “Reti” e che aveva per la prima volta in Italia come sottotitolo la dizione “società di lobbying e public affairs”. Prima di quel momento nessuna società si era definita “società di lobbying”, soprattutto per evitare di essere malvista o fraintesa nei casi peggiori come una società di affaristi. Un sospetto pregiudiziale e falso dato che invece il lobbismo è una cosa seria e normale nei grandi paesi occidentali. Oggi in Italia la situazione per fortuna è molto cambiata e sono contento di essere stato un apripista di questa professione in Italia.

-In questi giorni si sta parlando molto del ruolo del lobbying. C’è aria di cambiamento?

Sembra che ci siano dei sentori… In questi giorni abbiamo fatto un appello al governo con molti colleghi per fare una legge. E per la prima volta decine di lobbisti sono usciti allo scoperto presentandosi come tali per chiedere finalmente una disciplina del lobbying. Anche se ora spetta al Parlamento farla.

-Ma comunque un buon assist per il governo, anche se non sembra essere stato sfruttato adeguatamente…

 C’è stata una controproposta del Movimento 5 stelle che ha messo il cappello sul tema. Sarebbe stato meglio se da parte del governo ci fosse stato un input o una volontà di un partito della maggioranza di prendere questa iniziativa, ma purtroppo non è stato così… Però c’è ancora tempo.

-Com’è cambiata la professione del lobbista con le nuove tecnologie? 

Tutte le tecnologie cambiano i metodi e le caratteristiche di una professione. Molto spesso le facilitano ed offrono più dati ed informazioni, ma spesso ne aumentano la complessità. Oggi un lobbista deve saper utilizzare tutti i linguaggi comunicativi e avere buona padronanza delle nuove tecnologie (mail, tweet, messaggi WhatsApp…), ma soprattutto deve saper selezionare le numerose informazioni con cui entra in contatto. Infatti con i social e le nuove tecnologie si è aggiunto un arricchimento del bagaglio informativo a cui  deve seguire però la necessità di un aumento della capacità di selezione dei documenti e delle tante informazioni. Il bravo lobbista infatti deve saper selezionare e cogliere il succo di quei dati riuscendo a raccogliere il tutto in concetti essenziali e chiari. Già il presidente Kennedy ormai sessant’anni aveva affermato che “il lobbista mi fa capire in tre minuti quello che un mio collaboratore mi spiega in tre giorni”. Un vero lobbista deve saper fare proprio questo. A maggior ragione nel mondo del digitale.

-Dalla militanza politica all’esperienza nel governo D’Alema come si è sviluppato il percorso di Claudio Velardi?

Ho iniziato il mio percorso politico a 15 anni, come militante politico della FGCI,  sostenendo il PCI e sognando la rivoluzione comunista. Dopo di che esauriti i sogni giovanili ho scelto la militanza nel Partito Comunista. Un partito che si dichiarava rivoluzionario, ma di fatto era un partito radicato nelle istituzioni italiane che voleva seguire un sentiero riformista. Però già alla fine degli anni 80 prima della caduta del muro capii che quella sinistra non avrebbe avuto nessuna prospettiva se non si fosse aggiornata. Durante gli anni 80 con questa convinzione maturai un profondo disincanto verso la politica in sé che mi portò a superare la mia attività di militante. Da quel momento in poi convogliai le mie energie verso l’altra passione della mia vita, ovvero il giornalismo. Dopo aver preso il tesserino da professionista tornai a lavorare con il mio leader di riferimento dai tempi della Fgci, Massimo D’Alema, e diventai il suo capo staff. In quegli anni mi inventai lo “staff D’Alema”, creando uno staff tecnico che poteva seguire l’esempio di Tony Blair nell’impostazione di un moderno staff di governo. Avevo capito che il mio percorso sarebbe stato nel retroscena della politica e non nella scena. E così fu il resto della mia vita da quel momento. Come uomo di staff e non più come militante, lavorando attivamente nel “backstage” del potere. 

-Che ricordo ha della sua esperienza politica e di governo?

L’esperienza politica e di governo è stata per me fondamentale. Perché avere esperienza politica, in qualsiasi partito, vuol dire saper governare le istanze e le dinamiche del rapporto con gli altri, coltivando una visione d’insieme. Dalla conduzione di una riunione alla gestione di una emergenza, dal rapporto con i clienti alla comprensione delle dinamiche sociali e del potere. Imparai molto anche dalla mia esperienza di governo, che per me fu davvero molto importante, ma allo stesso tempo mi lasciò anche tanta amarezza e frustrazione. Perché nonostante il mio impegno totalizzante, ogni giorno i miei programmi e propositi che avevo quando uscivo di casa, venivano regolarmente disattesi dalle difficoltà della burocrazia e dai disagi, rallentamenti e contrasti dell’amministrazione e del mondo politico.  Sperimentai i problemi del passaggio dalla teoria alla pratica, un ulteriore prova che mi portò a capire che non volevo seguire un percorso di governo, ma che volevo fare altro.

-Cosa la ha portata a diventare un lobbista?

Perché per me è stato il compimento naturale del mio percorso che dalla politica al giornalismo, fino alle pubbliche relazioni aveva avuto come punto di congiunzione la comunicazione e la rappresentanza di alcune idee ed istanze. Per essere un vero lobbista bisogna infatti saper essere un comunicatore, un vero conoscitore degli ingranaggi del potere e saper interpretare le leggi della politica e dei media. È stata quindi una conseguenza naturale della mia carriera professionale. Anche se essendone stato un antesignano di questa professione, inizialmente non sapevo come strutturare ed impostare questa attività, ma col tempo ho imparato moltissimo, e ci sono riuscito.

-Quale è stato l’insegnamento maggiore che le ha dato la sua professione?

L’arte della mediazione. Perché un lobbista è soprattutto, in ultima istanza, un mediatore e un persuasore per indole. Io di mia natura non sono e non sono mai stato un mediatore, ma attraverso tale attività ho imparato l’importanza del confronto, del dialogo e dei compromessi. Soprattutto ho rivalutato l’importanza dei compromessi, che consideravo con sufficienza da militante, ma di cui scoprii successivamente la loro meravigliosa capacità di sintesi e costruzione.

-Secondo lei come mai l’Italia è forse l’unico grande paese occidentale in cui è assente una disciplina e una regolamentazione del lobbying?

Le cause profonde di questa assenza sono date dal fatto che nel nostro Paese la politica vuole avocare a sé tutta l’area della decisione e della rappresentanza. Perché il lobbista è sempre partecipe del processo decisionale e rappresenta degli interessi che il potere politico vorrebbe interpretare e incarnare. Il nostro mondo politico è infatti un mondo che tende ad escludere alternative alla propria mediazione, che sicuramente non ha favorito una vera regolamentazione del lobbying.

-Secondo lei una regolamentazione del lobbismo come avrebbe cambiato durante la prima, o durante la seconda Repubblica, il volto della nostra politica?

A mio avviso il fenomeno del lobbismo durante la cosiddetta “Prima Repubblica” non avrebbe avuto lo stesso significato che avrebbe assunto dopo poiché i partiti riuscivano a intercettare con una rappresentanza diretta gli interessi delle classi sociali e dei gruppi sociali.

-Può spiegarsi meglio?

Gli agricoltori della Coldiretti erano rappresentati direttamente dalla DC, gli operai e i sindacalisti erano eletti nelle liste del PCI, gli industriali erano rappresentati dai partiti laici o di governo. Insomma i partiti riuscivano ad incarnare le istanze dei principali corpi sociali e supplivano a queste modalità di mediazione o rappresentanza. Si trattava però di una società ancora divisa in classi e in componenti ben precise. Ma dalla caduta del muro di Berlino fino alla nascita della impropriamente cosiddetta Seconda Repubblica ci furono grandi cambiamenti sociali ed economici e si arrivò ad una società sempre più frastagliata e complessa. Dei cambiamenti e dei mutamenti che i partiti tradizionali non erano più in grado di incarnare. Probabilmente nei primi anni 90 una regolamentazione del lobbying sarebbe servita anche per contenere gli eccessi dell’Odissea di Mani Pulite, perché una parte della rappresentanza di interessi attaccata in quella stagione era legittima e rientrava nella normale dialettica tra politica e gruppi di pressione, però con il senno di poi tutto è possibile. Durante la seconda Repubblica, invece, ci sarebbe stata una vera esigenza di una regolamentazione del lobbying, ma purtroppo così non è avvenuto.

Roma, Novembre 2023. XII Martedì di Dissipatio

-In questa assenza ha pesato probabilmente il ruolo degli ex parlamentari come unici insider di fatto del lobbismo che hanno ostacolato questa regolamentazione?

Certo, ma ad aver ostacolato una disciplina del lobbying non ci sono stati solo loro. Sicuramente però una parte del mondo degli ex parlamentari ha interesse nel trovare una prospettiva nel lobbismo, avocando a sé questo ruolo. Non a caso i maggiori e più attivi oppositori ad una regolamentazione del lobbying siano i cinquestelle che in buona parte sanno che la loro avventura parlamentare sta per concludersi e vogliono impedire questa opzione. Anche per questo io credo che una regolamentazione seria del lobbismo dovrebbe costituire dei meccanismi che possano impedire questo fenomeno di revolving doors, che fanno i parlamentari diventando poi a fine mandato si inventano come lobbisti. Credo, infatti, si dovrebbe, prevedere un numero di anni di tempo che impedisca ad un parlamentare di diventare pochi mesi dopo un lobbista appena terminato il suo mandato.

-In molti casi una assenza di tale regolamentazione ha favorito o una selezione avversa oppure il rischio continuo di accuse spesso infondate di traffico di influenze illecite. Cosa ne pensa?

Si tratta di uno di uno degli aspetti più inquietanti e grotteschi della questione della regolamentazione del lobbying. Perché il traffico di influenze illecite è qualcosa di profondamente indeterminata definizione. È qualcosa di assolutamente vago e indefinito. Tanto è vero che viene usato come succedaneo alle mancanze di una sana distinzione e demarcazione degli ambiti del lobbying o di norme che non ci sono. Una accusa che spesso si rivela inconsistente. Anche perché è un reato facilmente ipotizzabile, tanto sono sfumati i suoi confini, quanto difficilissimo da individuare.

-Il lobbying si presenta come un prodotto di importazione nel nostro contesto politico. Quale sono le sue caratteristiche propriamente italiane?

Non apprezzo molto la retorica sul “caso italiano” e l’ “anomalia italiana”. Credo che basterebbe semplicemente applicare una regolamentazione capace di configurare il rapporto tra lobbisti e istituzioni inserendolo nel contesto istituzionale in maniera seria e trasparente. Però per tornare alla sua domanda, non penso che il contesto italiano possa fare bene o dare una sua originalità al lobbying, ma ritengo più che una regolamentazione del lobbying potrebbe fare bene al dibattito e alla politica italiana. In quanto potrebbe rendere più sobrio e trasparente il confronto politico.

-Oggi come vede lo scenario dei poteri pubblici e privati nel nostro Paese? Dove si concentra il potere in questa strana poliarchia che è l’Italia?

Sicuramente non nella politica. Forse in Italia contano di più i media o la giustizia, soprattutto quando entrano in collaborazione, anche se non parlerei di potere, né tantomeno di poteri forti. L’Italia è un Paese senza poteri, né forti, né deboli, che vive dei ricordi dei suoi successi lontani e passati. Oggi l’Italia è una piccola appendice dell’Eurasia. Figuriamoci il grado di potere che vi si si concentra…

-Nel 2017 su proposta di alcuni parlamentari, fu istituito un albo dei lobbisti della Camera. Secondo lei quale tipo di impostazione e disciplina potrebbe essere adatta al caso italiano?

Io sono d’accordo ad una esigenza di trasparenza dei lobbisti verso le istituzioni, ma riterrei opportuno considerare un principio di reciprocità da parte della politica. Un lobbista può dichiarare per conto di chi sta incontrando un uomo delle istituzioni, ma tale attività deve avvenire anche da parte del ceto politico.

-In America la Trinità del lobbismo secondo grandi studiosi di Yale ed Harvard è in sostanza Boobs, Bubbles, Billets. Quale è o quale potrebbe essere invece la Trinità italiana?

Ti direi trasparenza, professionalità e reciprocità.

-Non mi sembra molto orecchiabile…

No, affatto, però è quello su cui si dovrebbe fondare una vera regolamentazione del lobbying italiano e una via italiana al lobbismo. Poi per le note di colore c’è sempre tempo anche se la nostra lingua si presta meno a “Trinità” così efficaci…

-Chi sono i tuoi miti e gli incontri che hanno segnato la vita di Claudio Velardi?

Non saprei rispondere. Anche perché sono un po’ presuntuoso… Tutto sommato ti dirò che 2

-Quale potrebbe essere il profilo di un lobbista oggi?

Competenza e curiosità. Deve saper capire di diritto, di economia, di politica con competenza, ma deve avere la curiosità che gli possa permettere di stupire, di conoscere l’insperato. Leggendo i giornali e mostrandosi sempre preparato su tutto. O almeno sembrarlo.

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