Confessione

Umberto Pizzi

Francesco Latilla e Francesco Subiaco dialogano con il Petronio della Roma Cafonal che ha fotografato l'Italia e gli italiani per cinquant'anni: lo abbiamo raggiunto nella sua casa-archivio tra le campagne di Zagarolo.
Umberto Pizzi
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Roma è come un grande safari, farsesco e grottesco, squallido e trash che racchiude in maniera esasperata ed incattivita tutti i fenomeni sociali italiani (soprattutto quelli da baraccone…), come in un improbabile bestiario illustrato dal ghigno farsesco di Ensor oppure dal genio metafisico di Savinio. Ma in Roma c’è pure un fascino notturno, etrusco, fatto di feste squallide e decadenti ricche di personaggi e personalità di ogni tipo e di svariate classi sociali, che si incontrano nei palazzi magniloquenti della capitale per dedicarsi a incontri mondani a metà tra la sagra di Paese e il sabba stregonesco. Ed è proprio in queste feste un po’ RSA e un po’ casinò (a volte anche senza l’accento…), che sembrano bolgie infernali illustrate dal gusto infernale di un Bosch, che tutte le maschere del potere, dello spettacolo, della cultura, delle corporations di questo nostro strano Paese si riuniscono affamate di contatti, di visibilità, di attenzioni e soprattutto dei luculliani banchetti di cui si nutrono bulimicamente. Una Roma-Necropoli, fatta di colletti bianchi e silicone, vestiti pomposi e vecchie megere di plastica, che ricorda per il suo sfarzo decadente e la sua sterile opulenza la metropoli corrotta delle Satire di Giovenale e ancor di più il mondo pacchiano e fumoso del Satyricon di Petronio. Ma anche questa Roma Cafonal ha il suo cantore che attraverso le proprie opere riesce a mostrarla nella sua squallida eleganza e nella sua bonaria ferocia, attraverso fotografie che ne immortalano l’anima eterna e la mania per le mode del momento.

È una Roma fatta di arrivisti, di miti del cinema decaduti, di piccoli uomini dai grandi poteri, di abbuffate pacchiane e grandi trasformazioni sociali quella raccontata da Umberto Pizzi, tra i maggiori testimoni della nostra epoca, che attraverso le sue fotografie ha rappresentato una Comedie humaine italiana per fotogrammi capace di mostrare tutti i cambiamenti, le maschere e le metamorfosi dell’Italia contemporanea. Fotografo antropologo, Pizzi nei suoi scatti alterna l’ironia feroce e satirica di Pasquino al genio realistico di Caravaggio, riuscendo a mostrare i miti d’oggi, dalla politica allo star system, in un grande corpus fotografico capace di mostrarci chi eravamo, chi siamo e chi siamo stati davvero oltre la retorica e i facili perbenismi. Creando la materia umana che poi verrà immortalata da autori come Paolo Sorrentino, oggi raccolta in libri imperdibili come “Cafonal” e “Ultracafonal”, scritti con il geniale direttore Roberto D’Agostino. Formatosi nei maggiori scenari internazionali, Pizzi si inoltra nella Roma della Dolce Vita, rappresentandone forse l’ultimo vero protagonista. Sin dagli inizi ai tempi della Hollywood sul Tevere con le sue fotografie, mentre gli altri, i paparazzi, sapevano solo mostrare il mito del rotocalco, lui come un novello Diogene riesce, invece, a rivelare l’uomo, l’anima dei personaggi che venivano “pizzicati” dai suoi scatti. Ma Pizzi è stato, però, anche un Petronio di quella Roma decadente che alla Hollywood sul Tevere vedeva imporsi la Babilonia dei palazzi del potere, tanto da riuscire a mostrarne il vero volto farsesco, ridicolo, ma anche eroico e popolaresco, degli uomini che fanno “funzionare” il Paese, tra scenari trash e mummie di plastiche, uomini vuoti e arrivisti. Rivelando con i suoi scatti tutte maschere e controfigure contenute nel nostro carnevale italiano, politico, culturale, mondano, sociale. Non è un caso che Antonello Piroso sostenne, infatti, che se un giorno si volesse capire chi furono davvero gli italiani dal secondo Novecento ad oggi bisognerebbe studiare l’archivio fotografico di Umberto Pizzi, e, come al solito, aveva ragione. Da La Malfa a Sofia Loren, da De Michelis a Monorchio, da Andreotti alla Meloni, Pizzi li ha conosciuti tutti, li ha rivelati tutti e li ha pizzicati tutti nelle sue splendide foto.

Le foto di Pizzi non solo hanno segnato un epoca, ma la hanno catturata mostrando tramite quella straordinaria fantasia che solo la verità del quotidiano e della realtà cruda di ogni giorno contiene, il vero volto del potere, della celebrità, della società, dell’Italia.

Incontriamo Umberto Pizzi nella sua splendida casa tra le campagne di Zagarolo. Una casa-archivio, in cui tra i cimeli domestici e le decorazioni casalinghe si alternano foto, faldoni, gigantografie, testimonianze di oltre 60 anni di carriera, da Capolicchio a Enrico Berlinguer. Raggiunta la casa veniamo accolti dalla sua gentilissima moglie che ci introduce a lui mentre sta visionando gli scatti del suo ultimo servizio del giorno prima. A ottantacinque anni Pizzi si muove e lavora, infatti, con la stessa grinta e vitalità di quando era un giovane fotografo, nonostante sia riconosciuto oggi, come una leggenda da parte di epigoni, politici e vip, che smaniano per diventare i soggetti delle sue foto, come ritrovando in esse la più intima convinzione di aver trovato la prova di esistere. È un uomo cordiale, schietto, di cuore, con i suoi algidi occhietti alla Beckett e i modi semplici di un uomo che non si è mai fatto lusingare dal fascino della fama. Mentre entriamo sentiamo in sottofondo delle note musicali, che investono, che ci sembrano quelle de il coro dell’armata Rossa che intona Bandiera Rossa. Appena ci vede lo interrompe e ci saluta giovialmente, con poggiata sul comodino al suo fianco la classica sciarpetta rossa che in ogni servizio lo accompagna, e che abbiamo sempre riscontrato da quando abbiamo imparato a conoscerlo. Dopo averci mostrato alcune pagine dei suoi ultimi libri su cui gli avevamo chiesto dei chiarimenti, ci dice che può iniziare il nostro dialogo.

Umberto Pizzi a noi lo può confessare come nasce il suo sguardo? Quando ha cominciato il suo occhio a trasformarsi in un obbiettivo fotografico?

Guardate, tutto è cominciato proprio qui. Sono figlio del proletariato, eravamo otto figli e all’epoca non era facile studiare, poteva andare a scuola soltanto chi riusciva a permetterselo, ad esempio chi aveva un terreno. Era un paese arretrato. Papà, quando trovava lavoro, faceva il bracciante mentre mamma badava a noi figli. Abitavamo qui a Zagarolo e questo era un pezzetto di terreno che venne dato a mio padre al termine della guerra, quando ci fu una suddivisione dei fondi non coltivati. Sono nato nel 1937, prima che scoppiasse il conflitto, così quando finì la guerra avevo già sette anni e mezzo e ricordo che in quel periodo non si pensava a nulla che non fossero i problemi della nostra condizione, soprattutto perché non c’era all’epoca nessuna vera possibilità. Terminata la guerra non c’era niente da mangiare, ci si trovava nelle stesse condizioni di quando John Steinbeck all’inizio del secolo scorso scrisse “Furore”. La nostra condizione era uguale. Così, la mia famiglia si spostò verso Roma, ma anche lì si arrancava. Io facevo qualunque cosa finché non ebbi la fortuna di trovare un lavoro grazie ad un mio amico.

Quest’ultimo mi parlò di un ricco signore proprietario delle acque di Fiuggi a cui era stata tagliata una gamba a causa di malattie e aveva bisogno di una persona che lo accompagnasse ad un grande hotel in Via Veneto. Aveva una Rolls-Royce uguale a quella della regina d’Inghilterra ed anche una Chevrolet ed io sentivo che dovevo fare qualcosa, sentivo che dovevo svegliarmi dal sonno e dalla stasi in cui ero confinato, e così decisi di partire ed iniziare a lavorare per lui. In quei mesi avevo comprato una macchinetta fotografica a soffietto e cominciai, intorno al 1965, a scattare delle foto, immortalando ogni cosa, anche le radici degli alberi che mi affascinano da sempre per via di quel senso divino che emanano. Un giorno incontrai un austriaco che curava la gamba tagliata di questo ricco inglese e mi chiese: “Umberto, perché non vai in giro per il mondo a fare delle foto?”. Lui mi disse che aveva un’amica importante, la signora Butts, la quale quando mi vide pensò subito di inviarmi in Medio Oriente e mi disse: “Noi non paghiamo nulla, al ritorno dal tuo viaggio acquisteremo i negativi”, allora io, che avvertivo la voglia di conoscere un altro mondo, cominciai a viaggiare andando in Turchia, Iran, Iraq, Arabia Saudita, Kuwait e così andai all’arrembaggio, con un pacco di rullini. Fu una continua avventura. Ricordo che mi piaceva particolarmente fotografare i bambini. I progetti che mi venivano assegnati erano allora legati alla Freedom Company – l’organizzazione per la liberazione dalla fame nel mondo, il cui braccio destro era la FAO – per la quale lavorai perché, all’epoca, c’erano dei progetti di lavoro che facevano in questi paesi dove però lo Stato non poteva pagare i lavoratori e allora per provvedere al loro sostentamento ci pensava la Freedom Company.

Sono stato in miniere, ho visto desalinizzare il deserto e costruire abitazioni per i nomadi in mezzo ai deserti e così fu per tre anni. Tornato a Roma, cominciai ad aver paura di non riuscire più a mantenermi e fu proprio la signora Butts a dirmi: “Umberto, hai un occhio così attento, perché non vai a vedere il mondo dei paparazzi?”. All’epoca il “paparazzismo”, che era partito nel 1955, e si era diffuso anche e soprattutto per il film di Fellini “La dolce vita”, oltre che per la nascita della cosiddetta “Hollywood sul Tevere” che si venne a creare proprio perché gli americani venivano a girare i film da noi dato che i costi erano inferiori. Quindi tutti i grandi film venivano girati in Italia, a Roma, e i grandi divi del cinema mondiale quando si trovavano a vagare per la città eterna se ne innamoravano. Dovete sapere che nel secondo dopoguerra i fotografi, per rimediare la “pagnotta” giornaliera, andavano alla stazione Termini ad attendere che arrivassero le persone col treno per fotografarle. Tutto cambiò però quando Edilio Rusconi, un reporter che lavorava per l’Oggi, andò dai fotografi dicendogli: “Ma cosa fate qui, andate a mezzo chilometro di distanza, in Via Veneto, dove ci sono gli americani. Andate lì a fotografare perché con una sola foto guadagnate di più quello che prendete a lavorare qui per un mese”. Così si spostarono e cominciò il mito della dolce vita. Ci stavano tutti a farsi fotografare, i divi amavano farsi ritrarre in questa città magica che ha la virtù di ammaliare i suoi visitatori. Roma è così, li ha stregato tutti. Così iniziai il mio percorso…

Lei che rapporto ha avuto con la Hollywood sul Tevere?

Partiamo dal fatto che questa “dolce vita” finì subito, perché Fellini faceva dei grandi film ma il pubblico non li andava a vedere al cinema. Il pubblico preferiva al cinema d’arte, le pellicole puttanesche, i film dei “pipparoli” diciamo, e così ci fu un calo. Io arrivai sul finire di questa magia ed osservai questi divi, dato che ero molto curioso e imparavo subito tutto del personaggio che mi attraeva. Capivo fin dall’inizio in quali momenti avrei dovuto fotografarlo, ad esempio quando un divo scappava verso l’auto io ero nascosto con il teleobiettivo e quindi riuscivo comunque a fotografarlo, perché ne conoscevo le abitudini. Mi aiutava il fatto di lavorare sempre da solo, cosa che faccio tutt’ora.

Lei si è definito un fotografo antropologo perché studia la gente e ha sempre cercato di capire chi ha davanti. È davvero così?

La verità è che studio fin nel dettaglio chi ho davanti e capisco subito le sue abitudini, il che è fondamentale in questo lavoro. Ad esempio, la Taylor quando arrivava stava sempre tre giorni nel Grand Hotel a causa del jet lag che le dava molto fastidio. Aveva una suite ad angolo e le ho fatto delle foto ogni volta che si affacciava dal balcone dopo il bagno, mentre si copriva con l’asciugamano in testa. In tre mesi guadagnai la somma che mi serviva per comprarmi un pied-à-terre perché facevo i servizi da solo e mostravo il personaggio come nessuno aveva fatto prima.

Entrava dentro la vita dei suoi personaggi?

Assolutamente. Adesso li seguo ancora, anche se non sono più i divi del cinema ad interessarmi così tanto ma i personaggi politici. Alle vostre spalle c’è una fotografia che mi ritrae mentre saluto una giovane politica, è diventata importante nel tempo. La riconoscete?

Ma è la Meloni!

Esatto. Io la Meloni la conosco bene e lei sa che sono un “compagno”, poi quando mi infilo alle sue serate mica le faccio le foto tranquille e sorridenti, le sto addosso, però dice sempre ai suoi: “Ragazzi state attenti eh, Pizzi non me lo trattate male”. Quando si fa il fotografo bisogna conoscere bene i personaggi che si immortala e poi, anche il senso artistico conta molto, bisogna sapere già come verrà la foto anticipando così le mosse di essi per ritrarli in modo da mostrarne l’essenza più profonda. È un mestiere fatto di velocità e prontezza nell’atto. Poi ho studiato anche un po’ di storia dell’arte e attraverso lo studio ho arricchito il linguaggio per mostrare al meglio queste figure. Queste foto andranno avanti per sempre. Sono sicuro che se un giorno qualcuno vorrà sapere qualcosa di un personaggio del nostro tempo, non lo cercherà sui libri ma sulle foto che nella sua carriera politica lo hanno rappresentato in maniera più netta.

Cosa ne pensa, invece, di Ignazio La Russa?

Non ne parliamo. Per lui non ho parole, ma solo tante fotografie.

-Aveva ragione Piroso allora a dire che: “Per capire la nuova classe politica non bisognerà guardare i risvolti della Camera ma le foto di Umberto Pizzi”?

No, non soltanto le mie ovviamente. Ci sono anche altri fotografi bravi nonostante la fotografia sia in una crisi bestiale, perché sono uscite delle nuove tecnologie e addirittura dei programmi che prendono il viso di una persona e lo trasformano.

-Cose molto inquietanti…

Questa è una distopia. Vogliamo parlare in termini artistici? Quello è un falso. Voglio dire, osservando le mie foto si percepiscono delle storie vere. Quelli sono solo dei banali artifici.

Lei è più fiero delle foto che ha scattato ai politici o agli attori?

Guardate, gli attori mi hanno dato i soldi i politici niente. Vi voglio dire una cosa: osservate tutte queste foto con personalità importanti ed influenti della società, non sono mai noiose. Non troverete mai una foto in cui tutti sono posati. Mai. Non è nel mio stile non voglio fare ossequi io… Comunque, dato che ai miei tempi il paparazzo non era visto di buon occhio cominciai a fotografare anche situazioni sociali importanti ma senza cambiare il mio stile fotografico e se qualcuno che stavo fotografando si fermava per mettersi in posa non lo riprendevo perché volevo che tutto fosse spontaneo, naturale, vero. Se vengo a fare un servizio per raccontare chi sei, tu non puoi metterti in posa. All’inizio del 1970 nacque un giornale americano che si chiamava “National Enquirer” ed era la Bibbia del gossip, creato da un italo-americano pieno di soldi. Questo giornale mi “affittò” in un certo senso e ricordo che guadagnavo in un giorno più di quello che prendeva mio fratello in un mese di lavoro in fabbrica. Poi nacque un altro giornale che era in bianco e nero, soltanto la copertina era a colori, e anche lì pagavano bene. Questi americani amavano le paparazzate e per loro erano quasi arte, perché è l’occhio del fotografo che le crea, anche se si tratta di pettegolezzi. La fotografia è la migliore arte contemporanea. Attraverso di essa innanzitutto racconti qualcosa di vero, di profondo, di essenziale e poi, soprattutto, è bella. La fotografia è un’arte viva.

Per lei la fotografia è un proseguimento della pittura ma su una chiave reale?

Indubbiamente. Il fotografo è pittore allo stesso modo in cui il pittore a sua volta era già fotografo quando dipingeva en plein air. Se vedete certe mie foto non sono altro che l’insegnamento che mi hanno lasciato i quadri dei pittori francesi dell’Ottocento. Ormai il fotografo dà maggiore garanzia all’arte. Non voglio offendere nessuno, ma ho provato a vedere alcune opere di arte contemporanea e mi sono chiesto: “ma che roba è?”. Tornando alla fotografia, come vi dicevo prima cerco sempre di fare delle foto che non siano delle ceramiche, delle statue di cera, perché credo che debbano dire qualcosa. Osservate queste foto di abbuffate dei pezzi grossi, io ogni volta che sto lì osservo bene quello che c’è attorno a me e poi catturo tutti i dettagli. Soprattutto quelli che spesso cercano di non fare trasparire.

In questa foto c’è Pomicino.

Si. Io e lui siamo amici da tanti anni. Ho fotografato anche il suo matrimonio che è stata una festa da Grande bellezza, una scena da film, ad un certo punto la moglie si è tolta le scarpe e hanno ballato sul prato. Poi c’era Peppino Di Capri, Pippo Baudo e tutti personaggi di questa importanza.

Lei ha detto che l’era dei Cafonal è arrivata con Berlusconi. Lo crede ancora?

Si. Vedete, Berlusconi è un signore che quando è arrivato ha trovato subito pane per i suoi denti. Ha capito i vizi e i sogni degli italiani: essere ricchi, potenti, mangiar bene e avere tante donne. Queste sono le quattro cose basilari degli italiani e lui gliele ha mostrate.

Vendeva il sogno del futuro.

Esatto, lui si è sempre mostrato in una maniera che poteva attecchire il suo pubblico e infatti c’è stata una mutazione antropologica nel nostro paese e gli italiani stessi sono cambiati radicalmente.

Non avevate un buon rapporto, giusto?

Vero, con Berlusconi non ero in buoni rapporti. Assolutamente. 

Che ricordo ha invece della classe politica della Prima Repubblica? Ad esempio di La Malfa, Berlinguer, Almirante, Moro, Andreotti.

Moro era un signore, distinto, La Malfa non si voleva neanche far fotografare. Berlinguer era una figura quasi ieratica, io non lo fotografavo quasi mai, fotografavo molto di più sua figlia Bianca perché da ragazzina si divertiva a fare un po’ di Dolce Vita in alcuni locali romani. Lui invece era talmente esile e riservato che avevo quasi paura di fargli una violenza scattandogli una foto.

In che senso?

Di fargli del male standogli addosso con le foto, no?!

Però una delle sue foto più importanti ha come protagonista proprio Berlinguer e se non andiamo errati, è anche la foto a cui è maggiormente legato.

Non ho preso una lira da quella foto. Era un dono, una dedica, un tributo.

E poi, il senso della verità che trasmette questa fotografia di Berlinguer che parla con gli operai è così visibile. Davanti ad un’immagine così non si può scrivere niente. Un uomo a capo di un partito con due milioni di iscritti, uno che nel 1975 fece il 35% alle elezioni europee, mi apparve in tutta la sua umiltà, semplicità ed autorevolezza. Anche se indubbiamente rimaneva sempre una persona riservata e disarmante per le sue capacità. Ne ho conosciuti di politici io, ad esempio Almirante era uno a cui piaceva la mondanità. una sera lo beccai con la moglie, donna Assunta, in un ristorante vicino Piazza di Spagna e lo trovai nel momento esatto in cui comprò una rosa per darla in regalo a lei. In quel momento donna Assunta mi vide che li stavo fotografando e cercò di menarmi con quella rosa mentre io scattavo. Guardate com’è bella la foto che ne è venuta fuori. C’è proprio donna Assunta che con quella rosa procede impetuosa verso di me.

Che ricordo ha di Craxi invece?

Craxi era un po’ un orso.

Era stata organizzata una serata per i socialisti al teatro dell’Opera di Roma e a noi fotografi non ci facevano entrare. Io, siccome sentivo l’odore del grande avvenimento, mi infilai in qualche modo e così non riuscirono a tenermi fuori. Ad un certo punto rimasi colpito da un signore che non conoscevo ma che emanava la sensazione di essere un grande. Chiesi al sovrintendente chi fosse e lui mi rispose: “Come chi è? Questo è Sabin!”.

Insomma, ero a mia insaputa davanti ad uno dei più grandi uomini del tempo, colui che ha creato il vaccino contro la poliomielite. E lì scattai quella famosa foto in cui Sabin è ritratto al fianco di Craxi, Pavarotti e tutti gli altri. Ritornando a Craxi, devo dire che con lui non ho mai avuto rapporti nonostante sono tutt’ora amico della moglie e della figlia.

Con Andreotti, invece?

Andreotti era uno che quando mi incontrava si fermava per diverso tempo a parlare della fotografia e come Onassis voleva sapere quanto si guadagnava e io, quando questi personaggi mi facevano queste domande li guardavo chiedendo loro: “Ma vi volete mette’ a fa’ i fotografi pure voi?”. Una volta per scattare delle foto proprio ad Onassis io e altri fotografi ci mettemmo su una barchetta che sembrava ‘na melanzana e lui, dal suo yacht, ci chiedeva quanto ci davano per il nostro lavoro.

-Oltre la foto raffigurante Berlinguer, ci sono altre di cui è così fiero? E ci sono delle foto di cui invece si è pentito?

Onestamente, sono fiero di tutte le foto che scattato. Le foto fanno parte di te stesso, della tua sensibilità, raccontano la tua coscienza e visione del mondo. Anche lo scatto della moglie di Almirante che mi voleva picchiare mi piace un sacco, poi posso giudicare in vari modi la persona ritratta ma non c’entra nulla con la foto. Quindi, a me piacciono tutte quelle che ho fatto.

Anche quelle alla Taylor?

Senz’altro.

Lei ha avuto un rapporto particolare con la Taylor…

Si. Guardate, io sono una persona molto gentile e tranquilla però non rinuncio per nulla al mondo alle foto ed infatti il mio rapporto fatto di simpatia ed amicizia con Liz Taylor è finito proprio a causa di una foto. Perché a Richard Burton era venuto un tremore alle mani e in quel periodo si trovava ospite nella villa romana della Loren dato che il produttore del film che stava girando, “Rappresaglia”, era Carlo Ponti. Un giorno Burton e la Taylor si sono incontrati di nascosto nel ristorante del Grand Hotel ed io, che gli stavo addosso sempre, li ho seguiti di nascosto. Nella mia auto aveva una macchinetta piccola e un impermeabile bianco che mi serviva per entrare con aria elegante. Appena entrato, venne il cameriere chiedendomi cosa desiderassi ed io risposi: “Vorrei mangiare giù” così mi hanno condotto proprio dove volevo, nella sala dove c’erano i due nascosti riservatamente e subito ho scattato le foto tanto incriminate. La sera mandai le foto in Inghilterra e la mattina seguente le pubblicarono e così la Taylor non mi volle più vedere. Da quel momento non ci siamo più parlati. Ricordo che mi chiamava “rubber face” perché diceva che a seconda della situazione cambiavo la fisionomia del volto. In questa foto vedete che tra la Taylor e Burton c’è una statuetta raffigurante un gatto? Sapete cos’è? È un portafortuna che viene messo al tavolo quando a sedere sono in tredici, così prende il quattordicesimo posto e combatte le sciagure. Guardate qui, com’è vestita bene lei, tutta elegante. Lui, un vero gentleman e devo ammettere che gli attori inglesi sono quelli che vestono meglio. Ragazzi, queste erano le vere stelle.

Ma Liz Taylor è stata la donna più bella che ha fotografato?

No. La Taylor non era così bella, era più un mito. Però era una che sapeva mandarti a fare in culo.

E chi è invece la donna più bella che ha fotografato?

Forse Grace Kelly, un’altra che mi voleva menare.

Ma qualcuno l’ha menata veramente? Se non ricordiamo male lei ha avuto qualche problema con Depardieu e con Polanski…

Polanski c’ha provato ma io l’ho alzato in un attimo, sapete, ero alto e robusto all’epoca. Ecco, lui era uno stronzo col botto. Pure Burton mi voleva menare, dentro il Grand Hotel, però l’hanno bloccato.

Secondo lei la Loren è una donna che fingeva quel suo animo popolare?

Si, credo proprio di si.

Lei ha ammesso varie volte di non essere mai stato colpito da Lady D., come mai?

Secondo me fingeva pure lei, infatti dico sempre che a lei preferisco molto di più il principe Carlo, ora re.

Per lei sono più false le feste dell’aristocrazia politica o le cene di beneficenza della ricca e indifferente borghesia?

Guardate, io ancora lo debbo scoprire perché qui il detto “Francia o Spagna, purché se magna” è all’ordine del giorno. La verità è che vogliono apparire tutti, desiderano tutti solamente i famosi quindici minuti di celebrità. Vogliono cercare la prova di esistere.

Una volta, in risposta ad Enrico Lucci, ha detto che la Festa del Cinema di Roma è diventata “una fiera di paese”, cosa verissima tra l’altro. Ecco, secondo lei quale momento sta vivendo il cinema italiano e ancor di più quello romano?

Eh… sinceramente non so dirvi in che stato si trovi adesso.

Cosa ne pensa invece degli odierni attori, politici, industriali nostrani? Per lei la legge marxiana del passaggio dal dramma alla farsa è una solida realtà?

Dovete sapere che noi negli anni sessanta e settanta facevamo il miglior cinema al mondo e i nostri registi erano guardati con invidia e ammirazione. All’epoca anche i meno noti erano dei grandi, stessa cosa vale per gli attori meno noti. Poi però i produttori che volevano soltanto guadagnare cominciarono a produrre film per “pipparoli”, come li chiamo io. Adesso non mi sembra che si facciano più film, al massimo si fanno dei racconti e magari saranno fatti anche bene… ma il cinema è un’altra cosa. La notte mi diverto a guardare il canale Cine34 e mi è capitato di vedere il film di Ettore Scola “Brutti, sporchi e cattivi” e mi sono reso conto che le mie foto erano lì dentro, in quelle immagini c’erano proprio i personaggi che io fotografavo ma resi ancora più grotteschi… forse. Quando riguardo questi vecchi film vedo il cinema, vedo qualcosa che un po’ credo si sia perso. Penso ad esempio che un Totò non ci sarà più. Da quando sono arrivati i “pipparoli”, il trash, la volgarità, nel periodo del benessere italiano, non c’è stato più bisogno di un Mastroianni, anche perché questi che vanno con la panza piena al cinema se si trovano davanti ad un film vero, un’opera che racconta la realtà, che sia elegante come quelle degli anni Sessanta o grottesca come “Brutti, sporchi e cattivi”, questi dicono: “Ma che cazzo de robba è?”.

Le sue foto sono come un’incursione nella decadenza. Si sente un Petronio dell’Italia dei vip?

Il fatto è che quando cominciai volevo essere come quello che aveva la botte e girava per cercare l’uomo, Diogene Sinope, questo perché ero spinto dal pensiero marxista. Volevo cercare l’uomo. Adesso invece mi sono ritrovato ad essere, come avete detto, un Petronio. Alle feste dove vado ci sono tutti quei personaggi che sono identici a quelli del Satyricon. Ci trovate il magnone, quello che paga, il femminone. Ho percorso un lungo periodo, sessant’anni di lavoro, in cui ho assistito ad un crollo. La decadenza ha invaso il mondo che avevo conosciuto. Ora tutto è diverso…

Da non credente ha sempre avuti un interesse per i culti e la chiesa, cosa la colpiva in particolare del mondo cattolico?

Io sono affascinato da ogni forma di religione, il mio sogno è sempre stato quello di concludere la mia carriera con un libro fotografico legato interamente ai “volti della religione”. Provo un profondo rispetto per i culti, se vado in una moschea mi tolgo le scarpe, se vado in una sinagoga metto la kippà o se entro in chiesa mi faccio il segno della croce. Ma ciò che mi affascina della religione sono i religiosi, i santoni, i fedeli, insomma tutte le maschere che ne vengono fuori. Non sono attratto dalla ritualità ma come si comporta la gente difronte ad essa. Credo che la religione sia un po’ legata ai sogni, infatti ho notato che la nascita di tutti questi culti ha una matrice comune. Poi, devo dire che i cardinali mi divertono e ammetto anche che questo papa mi piace.

E Ratzinger?

No, non mi piaceva. E neanche Woytila. Bergoglio invece mi sa tanto di un sudamericano peronista descamisado e infatti mi piace. Credo che sia una persona che dia qualcosa ai fedeli.

Questa è una confessione, vuole rivelarci qualcosa che non ha mai detto in pubblico?

Beh, i miei segreti preferirei tenerli per me.

Data la sua vicinanza al potere, ne ha mai subito il fascino?

Il fascino del potere? Mai, così come non ho mai subito quello del denaro. Io ho sempre cercato una sola cosa… stare bene e lavorare nel mio settore facendo quello che ho sempre fatto. Adesso sto lavorando insieme a mia nipote al mio archivio fotografico. Credo che lì dentro ci sia molto materiale che servirà a capire davvero chi siamo e chi eravamo.

Chi sono le figure da lei ritratte nelle serate romane e chi sono le maschere del teatro grottesco che affollano i suoi libri con Dagospia?

Allora, io sono stato addosso molto alla nobiltà e posso dire che i nobili sono persone fuori dal tempo, si comportano anche in maniera differente e vivono un loro mondo tutto grottesco. Ci sono i cavalieri di Malta, la parte molto ricca della chiesa, che sono padroni di una quantità spropositata di terreni e proprio qui a Zagarolo c’è una parte di terreno che è data in balio a Urbano Barberini. Vi racconto un aneddoto sulla nobiltà. Mi ricordo una famiglia che aveva come regola di trasmissione dei propri poderi la loro regola per cui essi possono essere trasmessi soltanto con quegli eredi che hanno almeno un figlio. Allora ci sono due principi, bravi ragazzi, che sono omosessuali ma si sono sposati con due donne per ricevere questi terreni. Sono dei cicisbei. Questi sono i nobili… Ma voi pensate che nei palazzi dei nobili ci trovate persino i quadri di Caravaggio, una roba allucinante! Io dico, porca miseria fai godere il popolo di un’opera tanto bella e importante e invece no, perché amano possedere. Questi non spendono neanche una lira. Se penso al principe Giovannelli posso dire che non l’ho mai visto mettere la mano in tasca. La Dolce Vita l’hanno creata anche loro, si innamoravano di queste attrici e facevano le grandi cene nei ristoranti di lusso senza pagare nulla, dicendo: “Ti faccio pubblicità”. Sono dei parassiti. Una cosa vergognosa. Quello che più mi fece incavolare fu il safari park che vidi in una villa sull’Appia che era enorme, lussuosissima, di una famiglia molto importante italiana in cui addirittura hanno portato il leone, i serpenti, di tutto, e loro vestiti da esploratori. Quanto sperpero e che gusti grotteschi. Guardate queste foto, non vi fanno ridere? La cosa bella era che ogni tanto si affacciava il proprietario di casa che era vecchio e diceva: “Aooooh, quanno ve ne annate, avete rotto li coglioni!”.

Roma è come un grande safari. Quali sono le bestie e le fiere che l’hanno maggiormente colpita durante tutto il suo percorso professionale?

Ne sono state varie e non le ho trovate solo nella nobiltà, ma anche nella borghesia. Anche lì ci sono delle bestie interessanti. Sono molto interessanti gli imbucati, che non si capisce mai come cavolo fanno a sapere di queste feste e come riescono a parteciparvi. Hanno un loro stile per poter entrare, di solito uno fa casino all’entrata e gli altri passano inosservati da un altro angolo. Una volta venne organizzata una cena di mille persone ed ognuno doveva pagare la bella somma di mille euro, i tavoli erano da dodici. Ad un certo punto notai che c’era un tavolo occupato da dodici imbucati.

Invece i cardinali, per esempio? Che ruolo hanno in queste feste?

Ovviamente vengono invitati. Ce n’è uno vecchissimo che va dappertutto, io lo chiamo cardinal porchetta perché je piace la porchetta. Sarebbe quello che fotografai in una pappata a cui, in seguito, si ispirò Paolo Sorrentino per “La grande bellezza”. I cardinali sono molto addentrati in queste situazioni, ovviamente vanno dove sentono che c’è il soldo… Poi i cardinali li trovi in tante associazioni, sono politici con la tonaca.

-Parlando di uomini di sinistra, che ne pensa di Bertinotti?

Quando morì Berlinguer io fui uno di quelli che seguì Bertinotti, pensavo che sarebbe stato il futuro. In realtà è la mondanità che lo ha fregato, lui è una brava persona. Io l’ho massacrato, lo so, però non è colpa mia.

Con quale foto vorrebbe chiudere la sua carriera?

Non saprei rispondere a questa domanda. Non credo che sia possibile realizzare il libro di cui prima accennavo. Certo, andare a fotografare i kumbh mela in India non sarebbe mica male, per un fotografo come me è il massimo, oppure andare nei paesi arabi… fratelli cari, non so veramente cosa dirvi. Amo quei luoghi, non soltanto orientali, che mantengono un contatto con l’antico. Ad esempio New York non mi piace per niente.

-È in cerca, come Pasolini, del mondo dell’origine?

Si. Adesso che ci penso bene, credo che sarebbe bello concludere con un reportage che mostra il cambiamento della nostra società. Come eravamo e come siamo….

di Francesco Latilla e Francesco Subiaco

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"Mi spaventa sentirmi soggetto, personaggio, macchietta".

Riad val bene una messa

L’Arabia Saudita si prepara a strappare Expo 2030 a Roma. La logica è la stessa del Qatar coi mondiali: bene o male purché se ne parli.

Tutto si paga

Oggi, mentre tutto crolla, vogliamo iniziare a chiedere il conto ad una classe dirigente meschina e criminale.

L’anarchia al potere

Nel mondo sottosopra dell’informazione italiana gli unici formati che incidono sono quelli borderline che praticano l’arte della tragicommedia. Tre casi di studio: Striscia La Notizia, Dagospia e La Zanzara.

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