Uno dei pilastri della civiltà odierna è la sovversione dei significati. L’abulia esistenziale, la cultura consacrata nelle accademie, troiaio di esegesi esasperata, il polpo dell’informazione, declinano un’ode al subdolo, si dice pane per intendere acqua, e ci beviamo la viltà verbale, il bene – d’altronde, che è? – si volta in male, il giusto nell’opposto. Un amico mi blocca mentre sono in bici, torno dalla piscina per dare messa al corpo, e attacca un pippone profetico: i preti hanno tramutato il tempio di Dio in una comune, il prete dovrebbe delirare, la notte, pregare in mezzo alle strade, in estasi, invece porta i fedeli in campeggio, catechizza a compiere le buone opere obliando il miracolo, relegato tra le anticaglie, è lì per bonificare i cuori e tranquillizzare gli animi, utile mercenario del sistema sociale, ma Gesù non è venuto forse a portare il fuoco e la spada… etc etc. Ovviamente, ha ragione – ma siamo qui a parlare, nel tiepido settembre, deboli, ossificati nella chiacchiera, mentre in mare spopolano, pazzesche, le meduse, simili a tamburi sciamanici, e l’uomo sciama nell’insipienza.
Il capovolgimento capitale – roveto di traditori – è riassunto nella parola persuasione: applicata al disastro del Covid è semplicemente una cretinata, arnia di idiozie. Di per sé, persuadere fa incazzare: significa convincere con le armi della dolcezza, essere suadenti, consigliare con lusinghe, insomma, indorare la pillola, metterti un lecca lecca nel didietro. Da mesi, tuttavia, politici, patentati, giornali insistono sulla parola persuadere: l’ultima è l’intervista all’immunologo Le Foche che, interpellato dal “Corrierone”, ha detto – ci basta il titolo – “Con chi esita non serve l’obbligo vaccinale ma la persuasione”. Labirinto di specchi per allodole & allocchi: che ti persuada o ti obblighi, il risultato è uguale: devi vaccinarti.
Rimbambiti di anglicismi, deviati dall’immaginario oltreoceanico, abbiamo dimenticato che la persuasione è altro dalla moral suasion, che la persuasione è stata codificata dal più eccentrico tra i – rari – pensatori italiani, Carlo Michelstaedter. Leggendo La persuasione e la rettorica – libro d’obbligo per chiunque voglia fare politica: occorre farlo trovare sul banco dei parlamentari nostri – il paradosso è sgargiante. L’uomo che percorre la “via della persuasione”, infatti, è l’uomo vivo, totale, solo, temerario, che “mantiene in ogni punto l’equilibrio della sua persona; non si dibatte, non ha incertezze, stanchezze, se non teme mai il dolore ma ne ha preso onestamente la persona… Dove per gli altri è oscurità per lui è luce, poiché il cerchio del suo orizzonte è più vasto – dove per gli altri è mistero e impotenza – egli ha la potenza e vede chiaro”. Gode della solitudine – “Egli deve aver il coraggio di sentirsi ancora solo, di guardar ancora in faccia il proprio dolore, di sopportarne tutto il peso” –, nulla si attende perché tutto ha, non accumula distanza tra desiderio e atto, non imita: è. Riconosce le sirene della falsa persuasione, quella che – guarda un po’ – parla il linguaggio del ricatto, della coercizione al terrore, che sbandiera la paura della morte, in grado di incatenare gli uomini alla grigia acquiescenza. Leggete qua:
“Gli uomini vivono per vivere: per non morire. La loro persuasione è la paura della morte, esser nati non è che temere la morte. Così che se si fa loro certa la morte in un certo futuro – si manifestano già morti nel presente. Tutto ciò che fanno e che dicono con ferma persuasione, per un certo fine, con evidente ragione – non è che paura della morte… Ogni presente della loro vita ha in sé la morte. La loro vita non è che paura della morte… Quello che è dato loro non è che la paura della morte, e questa vogliono salvare come vita sufficiente da ciò che nello stesso punto è dato loro: la sicurezza di morire. In questa stretta, e per la cura di un futuro che non può che ripetere (finché lo ripeta) il presente, essi contaminano questo, che ogni volta è in loro mano. E dov’è la vita se non nel presente? se questo non ha valore niente ha valore. Chi teme la morte è già morto”.
Conservare la vita morendo – al posto di vivere – che vita di merda. La falsa persuasione agisce per istituzioni sociali – chiesa, famiglia, partito, ordine professionale, club in cerca di diritti, banca… – di cui si discute la liceità soltanto per sostituirle con altre, più coercitive istituzioni. Eppure, “ognuno è il primo e l’ultimo, e non trova niente che sia fatto prima di lui, né gli giova confidar che sarà fatto dopo di lui”, scrive Michelstaedter, con una prosa che non persuade ma violenta, da santo rabbioso, che s’incunea come una torma di cani nell’appagato giardino del giorno. Vivere davvero è inaccettabile perché significa essere stiliti dell’istante, non accampare scuse, non campare per assoluzioni, esistere in vista del niente – dunque, nel tutto.
“Che v’importa di vivere se rinunciate alla vita in ogni presente per la cura del possibile. Se siete nel mondo e non siete nel mondo – prendete le cose e non le avete, mangiate e siete affamati, dormite e siete stanchi, amate e vi fate violenza, se siete voi e noi siete voi”.
Anche intorno all’idolatria della scienza, Michelstaedter, ideologo della persuasione, aveva detto tutto, dei codici per ‘normalizzare’, di nomi dati alle forze oscure, della statistica manovrata per azzoppare l’individuo, del delirio della conoscenza (dimostrata, dimostrabile da tutti) rispetto al capriccio della rivelazione.
“La vera funzione organica della società è l’officina dei valori assoluti, la fornitrice dei ‘luoghi speciali’ e ‘comuni’: la scienza. Con l’‘oggettività’ che implica la rinuncia totale dell’individualità, prende i valori dei sensi, o i dati statistici dei bisogni materiali come ultimi valori, e fornisce alla società col suggello della saggezza assoluta ciò che per la sua vita le è utile: macchine, e teorie d’ogni genere e per ogni uso”.
Ma cosa lo diciamo a fare… Si blatera di persuasione senza imboccare la via della persuasione, e Michelstaedter, ovviamente, entra nel piano di studi delle università, nelle antologie. Purché ogni verbo sia innocuo, domestico, esaurito, esangue, ogni chiosa è lecita – potrebbero dirci che la libertà è nella prigione e… saremmo disposti a crederci pur di non rovinare il nostro aspetto sociale, il nostro rispettabile status, non arginare al rogo le nostre spurie certezze.
Il ragazzo aveva occhi da fauno, labbra carnose, la mascella angolare di chi è uso all’assalto. Pensare arma il disastro. Aveva 23 anni. Capì che il gioco della retorica sta nel disordinare i termini, nel dilettare col delittuoso, nell’annacquare in chiacchiera il rischio. Si diceva “povero pedone” incapace di stare “in alcuna delle categorie stabilite”. Si spara, a metà ottobre, era il 1910 – tre anni dopo, l’editore Formiggini stamperà La persuasione e la rettorica.