
Editoriale
Quei giorni in cui stava per saltare la catena di comando
Sebastiano Caputo
07 Febbraio 2022




Il tempismo prima di tutto. In particolare se gli “scoop”, se così possiamo definirli, provengono dall’estero. È accaduto con la questione del presunto finanziamento del Cremlino alla Lega di Matteo Salvini, quando era al governo, accade oggi con il Movimento 5 Stelle, accusato di aver ricevuto nel 2010 una valigia contenente la somma di 3,5 milioni dal governo di Hugo Chávez tramite il consolato venezuelano di Milano. Chi in Italia sta rilanciando il documento esclusivo pubblicato su ABC, senza alcuna verifica preliminare, lo fa con un triplice obiettivo: arginare il ritorno sulla scena di Alessandro Di Battista, impedire una convergenza di intenti con il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, e delegittimare una Farnesina che si sta collocando neutralmente nella nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina.
A nessuno dunque importa se la notizia sia vera o falsa, l’importante era farla uscire in questo preciso momento. E cavalcarla. Soprattutto ora che il presunto destinatario, Gianroberto Casaleggio, non può più replicare. Nessuna condanna, nessuna assoluzione. Ma nell’immaginario collettivo, seguendo la traiettoria della narrazione mediatica, la scelta di non sostenere in passato l’auto-proclamazione di Juan Guaidò, diventa dettata da un vincolo di tipo economico e non da una posizione legittima, quella di non allinearsi a una decisione unilaterale presa a Washington prima ancora che a Caracas.
È chiaro però che la notizia è troppo ghiotta per chi teme un Movimento 5 Stelle che vuole slegarsi dal Partito Democratico, non farsi assorbire dall’establishment e tornare alle origini, dunque all’opposizione. Soprattutto adesso che si è aperta una resa dei conti interna, sempre più evidente, tra Davide Casaleggio e Alessandro Di Battista, depositari del pensiero di Gianroberto Casaleggio, e Beppe Grillo, intenzionato a portare avanti la linea governista di Giuseppe Conte (premier blindato, altro che accerchiato). Non a caso ha ricordato proprio all’ex parlamentare ospite di Lucia Annunziata che a dettare le regole interne è ancora lui. Di Battista, tornato a presenziare sui giornali e le televisioni, dopo un anno e mezzo di assenza, sembrava avere una strategia per riprendersi il M5S o almeno riportarlo sulla strada del movimentismo, in una road map che deve condurlo all’assemblea costituente come leader naturale di una comunità elettorale civica e nazional-populista. Ora questa notizia sui presunti fondi venezuelani servono anche a questo: recintare Alessandro Di Battista nel “chavismo”, etichetta pauperista da incollare sulla fronte a qualsiasi politico occidentale che esce dal teorema liberale-libertario. E di conseguenza non farlo parlare su altro. Proposte, auto-critica, idee per il futuro.
Allo stesso tempo, il Venezuela, nervo scoperto della Farnesina pentastellata, che non ha mai riconosciuto giustamente Guaidò, è un terreno fertile per mettere sotto pressione il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, alleato naturale di Di Battista (e non un rivale come scrivono invece i giornali) per l’emancipazione dal Partito Democratico, che quest’ultimo non ha mai realmente voluto e digerito. Come avevamo infatti scritto su queste colonne digitali, la decisione di occuparsi di affari internazionali, “prendendosi comunque la delega all’export italiano per onorare il lavoro iniziato al Ministero dello Sviluppo Economico, nel governo Conte I, deriva da un malcontento personale, dalla volontà di smarcarsi dalla politica interna di un compromesso al ribasso e impopolare con il Pd, ma soprattutto per accreditarsi all’estero e preparare un’eventuale uscita di scena”.
Oltre alle smentite sui presunti fondi venezuelani, questa notizia costringe in qualche modo Luigi Di Maio a dissociarsi dal “chavismo”, vale a dire da una cultura politica fondata sull’autodeterminazione dei popoli, la non ingerenza, il disallineamento all’americanocentrismo, e dunque “tradire” la formula sintetica di Alessandro Di Battista che non vuole un’Italia “suddita” bensì “alleata” degli Stati Uniti d’America. La verità è poi che questa Farnesina “pentastellata” che nella guerra fredda in divenire tra Usa e Cina sta elaborando una strategia italica simile a quella applicata dalle classi dirigenti della Prima Repubblica in quella precedente con l’Unione Sovietica, e nel Mediterraneo allargato, sempre più inserita nel processo di guerra e di pace russo-turco, non va giù a molti che ci vogliono invece appiattiti come i Paesi Baltici.