La politica non è fatta per gli assoluti; arte dell’oggettività e – gioia populista – dell’effimera fascinazione relativista, spesso non si cura del sostrato storico, invisibile ai più, ma humus fertilissimo in prospettiva. Weberianamente, la comprensione di ciò che la storia è, non elude spiegazioni riconducibili sia all’idealtipo sia alle causalità relative a ciò che sarebbe potuto accadere; avalutativamente la scienza storica non confonde il piano del giudizio di valore con quello dei giudizi di fatto, conducendo alle diverse forme di potere politico aggettivanti i soggetti.
Storicamente la Turchia appartiene all’esclusivo club dei giovani eredi di imperi il cui ricordo non è ancora coperto dalla polvere del tempo; il 2023, oltre a stigmatizzare una politica estera autonoma e nazionalista caratterizzata da repentini mutamenti di narrazione, ha celebrato il sofferto Trattato di Losanna ed il centenario repubblicano, parva cosa rispetto alle temporalità sultanali, condizionato dal terremoto di febbraio e dal conflitto israelo-palestinese; una ricorrenza tuttavia da non sottovalutare in termini di continuità politica, storicamente prima riformista-laico-progressista-kemalista e poi conservatrice, peculiare dell’AKP erdoganiano, vincolato ad alleanze e trasformismi elettorali.
Tramite fisiologico tra Oriente ed Occidente, la Turchia è al bivio tra itineres di politica estera e politica economica quest’ultima strumento necessario al ritorno dell’impopolare ortodossia dei tassid’interesse; Turchia, ferma ad un incrocio attraversato da sensazioni contrastanti circa l’anelata prossimità all’ovest ora difficoltosa per le interazioni tra politica interna – centralizzata e premiante la fedeltà partitica – e relazioni internazionali indirizzate ad implementare un’autonomia strategica che guarda al passato islamico-ottomano.
La transizione ha visto scorrere sfide securitarie esiziali: le proteste di Gezi Park del 2013 ed i presunti golpe tra 2008 e 2016, elementi chimico-politici di sintesi destinati a limitare dissenso e libertà espressive proprie delle generazioni più giovani. La politica economica, inefficace per i bassi tassi di interesse, falsi amici anti-inflattivi e depressiva per le riserve in valuta estera, esercita un’azione convergente purché elusiva della trappola del reddito medio, incombente per la carenza di riforme strutturali. Un collasso economico turco sarebbe deprecabile anche per la UE, troppo pericolosamente vicina. Il sincretismo di geografia, sviluppo economico, incomprensioni con l’Ovest, hanno fatto volgere la Turchia verso il Rising South secondo una tendenza che vede il secondo secolo repubblicano connotato da un possibile isolamento con poche alternative, a meno che non si concretizzi un new deal con l’Occidente.
La politica estera ancirana non solo non è tout court neo-ottomana, riduttiva definizione occidentale, ma è l’estratto di diverse e differenti ideologie che riportano narrativamente alla valle di Ergenekon, mitico topos tra i Monti Altai, denominazione poi attribuita all’organizzazione, comparabile alla Gladio italiana, ispiratrice dell’ennesimo presunto attentato allo Stato, ed alla presenza dei lupi, ferinità fondativa dell’èpos nazionale, capaci di produrre un impatto culturale e politico a cui si ispira la controversa fazione dei Bozkurtlar. Le condanne emesse contro Ergenekon, epifania del deep state turco, ridimensionate da una successiva sentenza che ha demolito le tesi accusatorie, pongono artatamente un sigillo all’era kemalista ed all’establishment militare, custode di un nazionalismo laico inteso a sottomettere la religione allo Stato. Erdoğan tenta la mission impossible di sussumere kemalismo statalista ed islam politico, propugnatore di idee economiche liberiste. Di fatto, è la sostituzione dei militari con l’elettorato provinciale sostenitore dell’AKP.
Nelle relazioni internazionali è la politica dottrinaria a tenere banco con Ahmet Davutoğlu, demiurgo di una profondità strategica auspicata artefice di un nuovo, visionario quanto imperfetto ordine politico che alimenta dalle piane anatoliche la spinta verso il mare dell’ammiraglio Gürdeniz, epigono del pensiero navalista di Atatürk e vicino alla sinistra kemalista ed al Partito Vatan di Doğu Perinçek; un ufficiale che esalta la marittimità della Mavi Vatan e volge la proraverso l’Eurasia russo-cinese percepita come idonea alla promozione degli interessi nazionali, un baluardo contro il destabilizzante imperialismo occidentale e washingtoniano che appoggia, con Parigi, l’ancestrale antagonista ellenico.
L’approccio dogmatico nei confronti della Patria Azzurra, non sempre in linea con una vision istituzionale, fumosa sul rapporto atlantico e di sovente incoerente con l’Islam politico criticato dalle sfere militari, induce a ritenere possibili ulteriori tensioni nel Mediterraneo orientale, ricco di giacimenti di gas al largo della contesa isola di Cipro, ambita dall’enosis ateniese, ovvero all’interno di una ZEE bramata da Ankara che non riconosce né la sovranità greco-cipriota, nè l’UNCLOS, trattato mai ratificato, ma che non ha impedito di negoziare con Tripoli le nuove ZEE turco-libiche nel 2019. Attenzione però: se da un lato l’atlantismo teorico del Rimland di Spykmane del contenimento di Kennan sono tacciati di obsolescenza, dall’altro l’Eurasia, elemento geopolitico persistente, è avvertita come retropensiero a tratti disagevole per la presidenza, cosa che giustificherebbe la rimozione dell’euroasianista ammiraglio Yayci dalla carica di capo di Stato Maggiore.
La questione energetica relativa all’East Mediterranean Gas Forum si connette alla geopolitica, per la quale Ankara, che ambisce al controllo delle vie marittime, a causa della mappa di Siviglia si avverte reclusa entro le acque territoriali egee, nel golfo di Antalya e di Iskenderun secondo principi percepiti punitivi come quelli del Trattato di Sevrés in versione marittima prima, e di Losanna poi; è la geopolitica che fa risaltare le direttrici della politica turca, che spazia dal Mediterraneo orientale all’Egeo, dal Mar Nero ai Balcani, al Caucaso, dall’Africa al Mar Rosso, al Mar Arabico fino alle coste atlantiche: la sovrapolitica Mavi Vatan, pur non globalmente, travalica il Mediterraneo quale simbolo della presenza turca, oltre che quale concetto giurisdizionale equale dottrina che definisce le modalità difensive dalla possibile unificazione di Cipro alla Grecia, di protezione, ed estensione di diritti ed interessi connessi alla rappresentanza dei turcofoni Stan dell’Asia centrale.
La Patria Azzurra, incastonata in un contesto strategico specifico, non può essere politicamente avvintaad un singolo partito; comparabile ad una ZEE più vasta, strategicamente non esclude l’uso proiettivo dello strumento navale. Alla luce delle resistenze palesate dalla Marina per la realizzazione del Kanal İstanbul, il nuovo passaggio tra Mar Nero e Mar di Marmara, Mavi Vatan evidenzia la mancanza di sinergie interne per le quali, nei suoi funambolismi dialettici, Erdoğan potrebbe ricorrere ad altre dottrine che privilegino flessibilità ed indipendenza strategica; rimane dunque da preservare un equilibrio con Occidente ed UE, tale però da non alterare la calibrazione dei rapporti con l’Orso russo ed il pervasivo Dragone cinese, utile per trasformarsi, oltre che in hubgasiero, in snodo di trasporto transcontinentale, al netto della trappola della diplomazia del debito, per cui potrebbero non bastare gli ingressi, per la NATO produttivi di inaffidabilità vista la querelle svedese, nella Shanghai Cooperation Organization e nella scatola dei BRICS, con il Patto Atlantico pronto a rivedere il programma di condivisione nucleare di Incirlik. Insomma, sentieri diplomatici impervi, su cui sono rimasti nei loro hangar gli F35, incompatibili con l’acquisto del sistema antiaereo russo S400 in luogo dell’americano Patriot.
Rimane il Mediterraneo Allargato italiano, splendido pensiero d’antan tuttavia privo della sacralità dottrinaria e nazionalista conferita al Mavi Vatan dalla Türk Deniz Kuvvetleri, un’idea che cattura lo spirito geopolitico del tempo suscitando una nuova visione globale. Al cospetto della rievocata immagine di Enrico Mattei, sarà fondamentale lanciare una rinnovata concettualità italiana nello stagno Mediterraneo, valutando traiettorie e conseguenze delle concentricità suscitate ed il conflitto generato da quelle prodotte dalle prore ottomane.