Sepolto sotto una pioggia di propaganda filo-israeliana sta un vecchietto arzillo e tenace di bianco vestito che, da buon gesuita avvezzo alla realpolitik, ha compiuto una mossa che gli è valsa il silenzio-stampa generalizzato: il Vaticano vuole riconoscere lo “Stato di Palestina”. C’è un solo problema: che non esiste nessuno Stato di Palestina. Esistono invece i palestinesi ostaggi in Territori Occupati dallo Stato d’Israele che invece c’è eccome, e che da ottant’anni li tiene sotto il suo tallone, previo via libera di un’Organizzazione Mondiale delle Nazioni Unite.
Non c’è bisogno di professarsi cristiani per constatare che il capo dello Stato della Chiesa sito a Roma questa volta ha agito anche, e forse soprattutto, in linea con il principio-base della fede in quel Cristo di cui è vicario in terra: schierarsi dalla parte del più debole. E il più debole, in un conflitto che gli stessi velinari filo-israeliani devono ammettere essere “asimmetrico”, è il popolo palestinese. Che sì, d’accordo, sarà diviso in fazioni, con il presidente della paralitica Autorità locale, Abu Mazen, che ha approfittato dell’attacco per rinviare elezioni notoriamente già vinte, e magari con qualche ragione, da quei fondamentalisti di Hamas, i quali sbagliano nel fornire alibi al nemico ricorrendo al terrore missilistico, pur di reagire alle angherie di un’occupante dotato di uno dei più formidabili eserciti al mondo, oltre che dell’atomica; ma che tuttavia è, e resta, quello palestinese, un popolo appestato il cui diritto all’autodeterminazione è schiacciato e vilipeso come se fosse un ceppo umano di serie B. Pur agendo e sapendo agire sullo scacchiere internazionale come sempre ha fatto la Santa Romana Ditta, e cioè districandosi in quella cosa sporca e crudele che è il Potere, il Papa ha fatto anzitutto il Papa. E difatti si è beccato l’oscuramento della disinformazia occidentale, tutta allineata al fianco del più forte. Meglio tacitarlo, far finta di niente, se no, in linea puramente teorica, avrebbe potuto incorrere pure lui nell’automatica bolla d’infamia con cui il partito preso pro-Tel Aviv in genere criminalizza i pochissimi insubordinati (ciò che resta delle kefiah a sinistra e a destra, sparute voci giornalistiche come Alberto Negri, Alessandro Di Battista e Moni Ovadia) non plaudenti alle stragi di bambini: l’accusa di antisemitismo. Diffamatoria doppiamente, per una Cristianità cattolica che Pio XI definì già nel 1938 “spiritualmente semita” (per non parlare di quella protestante, molto più “veterotestamentaria”, quindi vicina, anche teologicamente, all’ebraismo, specialmente negli Stati Uniti) e che nel 2000 Giovanni Paolo II fece idealmente curvare a richiedere il perdono, presso il Muro del Pianto, ai “fratelli maggiori” vittime di un paio di migliaia d’anni di anti-giudaismo.
Ma diffamatoria comunque, nonché ormai così trita da risultare imbarazzante. È pazzesco sentire sparati insulti quali “nazista” o, che so, “quinta colonna filo-iraniana”, anche soltanto qualora si osasse sostenere che il collegamento Usa-Israele è storicamente annodato da interessi anche economici con un peso enorme (tra l’altro, come potrebbe essere diversamente?). Il vero razzista è semmai chi parteggia per gli Ebrei, o per gli Ebrei d’Israele, a priori e con supinità canina, prescindendo dalle responsabilità contingenti, mai tutte ascrivibili a un solo lato della barricata. Sicuramente, però, dopo decenni di giogo e vessazioni che hanno chiarito la responsabilità storica dei carcerieri, il lato giusto verso cui propendere – senza ricadere, sottolineiamo, in fanatismi al contrario – sventola la bandiera di un popolo senza Stato, di una Palestina che, Bergoglio benedicente, al momento si deve sperare possa sorgere libera e sovrana.