La storia è maestra, ma non ha scolari. Se pure ci fossero, verrebbe comunque insegnata male: come un palinsesto di eventi, senza sufficiente attenzione alla longue durée, il legame fra le cose e la struttura che le genera, la distante genealogia delle azioni umane. A questa miopia didattica si deve, forse, la pressoché universale reductio ad Hitlerum della crisi ucraina. Al di là dello sfortunato foglietto di Neville Chamberlain sventolato come ammonimento anti-pacifista – strana parrocchia ideologica, ma sovraffollata di questi tempi – il paragone non regge. Sbilenca anche la sovrapposizione fra Putin e Hitler – non perché ci importi della reputazione di Putin, ma perché sono figure molto diverse. Il piano di Hitler stava, nero su bianco, nel Mein Kampf.
Tutto annunciato: un delirio monumentale di genocidio e colonialismo ad Oriente, sconvolgimento della geografia etnica d’Europa, rispetto al quale la campagna di Francia e il fronte occidentale rappresentano un corollario imposto dalle circostanze. Molotov-Ribbentrop non sarebbe potuto durare perché una sorta di spirito crociato bruciava Hitler da dentro: il dittatore nazista, davvero, lottava per rendere il mondo un posto peggiore. Era un ragazzo con un incubo. Putin è tutt’altro: un mafioso, se vogliamo, comunque uno a cui importa del potere molto più che delle origini e dei fini del potere. Ciò a cui assistiamo è un tentativo, già mezzo fallito, di rinegoziare i rapporti di forza fra Russia e Nato, dopo una stagione di estrema debolezza della prima ed espansione della seconda – poco a che fare con le paranoie di chi già vede i cavalli dei cosacchi abbeverarsi nel Tevere e nella Senna, se l’Ucraina cade.
E pensare che basterebbe scorrere un po’ indietro le pagine del sussidiario per trovare un paragone migliore: la prima guerra mondiale, che poi è la ragione della seconda, certo molto più dei tentativi di appeasement del povero Chamberlain. Tenendo a mente che, se la storia si ripete, le repliche non sono comunque fedeli all’originale, qualche elemento comune c’è. Sul piano geopolitico, a catalizzare la Grande Guerra è stato soprattutto l’attrito fra una potenza in cerca di un ruolo, la Germania, ed altre, Francia e Regno Unito, già consolidate sul piano globale. Allo stesso modo – leggendo in filigrana la posizione della Cina, dell’India e la distribuzione dei voti nelle iniziative anti-russe delle Nazioni Unite, si può credere che sia iniziato così, con una guerra di confine, quel tempo gramsciano dei mostri fra la fine del vecchio ordine unipolare e l’ascesa di colossi non occidentali, ben oltre una Russia che, al netto delle atomiche, non ha gli attributi per giocare al gioco dei giganti.
Comunque sia, la prima guerra mondiale è una guerra fra potenze che parlano la stessa lingua ideologica, animate dalla realpolitik molto più che da una certa idea del mondo. E così è adesso: al netto della propaganda, Russia e Ucraina si assomigliano. Rispettivamente, la prima e la seconda fra le nazioni più corrotte d’Europa, separate solo da due punti su una scala di dieci nell’indice di democrazia che l’Economist calcola ogni anno. Russia e Ucraina sono due cleptocrazie oligarchiche attraversate da inquietanti correnti nazionalistiche. Per giunta: senza le correnti nazionalistiche e con maggiore eleganza, le democrazie occidentali sono comunque cleptocrazie – solo che i nostri oligarchi trafficano in finanza e nuove tecnologie, più che in materie prime, e il meccanismo del furto si chiama, alla maniera dei Chicago boys, libero mercato. Senza religione e senza ideologia, il mondo non è mai stato tanto piccolo e simile: peggio che mai, perché adesso abbiamo sia la globalizzazione che la guerra, per tacere del disonore.
Gli ultimi giorni dell’umanità è l’opera, lo diceva Elias Canetti, che si porta dentro tutto intera la prima guerra mondiale. Ecco, nella tragicommedia di Karl Kraus c’è una scena che spiega perfettamente il momento in cui si trovava il mondo, e che continua a tornare: l’ottimista dice che, nonostante tutto, la guerra unisce, purifica, rende gli uomini solidali, e l’altro ribatte che no, la pace «si porta il suo marciume in guerra», e il mondo ne esce ancora peggiore. Dell’intuizione di Kraus abbiamo bisogno, adesso che ci restano una scialba, generica volontà di pace senza programmi di pace e, all’opposto, l’esaltazione bellicista di chi pensa, alla maniera della guerra fiorita azteca, di ritardare col sangue il collasso di un ordine senza più fondamenta. Vale tanto la massima di Clausewitz che la sua versione invertita, quella di Foucault: guerra e politica si inseguono in cerchio, e nell’occhio del ciclone rimane la storia:
Forse il militarismo è una condizione dalla quale il popolo europeo viene sconfitto dopo che grazie allo stesso militarismo ha ottenuto la vittoria.
La guerra in Ucraina è la nostra guerra, molto prima che i nostri governi scegliessero da che parte stare. Grattando la patina di patriottismi fuori tempo massimo si scopre, come ricordava giustamente Lucio Caracciolo, una curvatura della geopolitica che risale almeno all’aprile del 1917, quando gli Stati Uniti decisero che non potevano permettersi una grande potenza eurasiatica, e l’eventuale, grande potenza eurasiatica che l’Europa sarà una fortezza antiamericana oppure una minaccia perenne ai confini. Eccoci, dunque, alla continuazione di questo sistema con altri mezzi, e fra i mezzi, tristemente, ci sono le vite ucraine:
L’arma che uccide, da quando è diventata un prodotto industriale, si è rivoltata contro l’umanità, e il soldato di professione non sa più di quali aspirazioni egli sia lo strumento.
Sul fronte della Somme c’era anche J.R.R. Tolkien: alla ricerca di significato fra le trincee e gli amici morti, lì ha cominciato a plasmare la sua grande mitologia. Perché la Terra di Mezzo possiede tutto il significato che la modernità ha perso. Capita di sentir descrivere i russi come orchi, e a questa guerra dobbiamo, fra le altre catastrofi, anche il trionfo della categoria del nemico – c’erano, è vero, i no-vax, i gilet gialli, per qualcuno i migranti, ma il linguaggio mostrificante di questi tempi ha raggiunto altri livelli. Ecco, Tolkien sta proprio all’opposto. Lo scrittore inglese cambia idea diverse volte quanto alla natura degli orchi, ma l’ultima ipotesi è anche la più sensata: gli orchi sono elfi rapiti e torturati da Morgoth, trasformati in mostri dal dolore. Il senso si trova nel fatto che, nella Terra di Mezzo come nella teologia cristiana, il male non può creare – solo distorcere ciò che già esiste. Le creature malvagie – gli orchi, i Nazgul, i Balrog – sono state altro prima. Così il paragone è corretto: gli assassini di Bucha sono noi al cambiare delle circostanze. Potremmo essere loro e forse lo siamo già stati: in Serbia, in Afghanistan, in Libia, in Iraq. «Ogni caduto somiglia a chi resta», scriveva Pavese. E gliene chiede ragione: eppure siamo tutti così poveri di ragioni per i morti. Noi, i russi, gli ucraini: nessuno ne ha. Dunque resta l’equidistanza, questa parola fraintesa. Perché è tutt’altro che distanza, innanzitutto: piuttosto, un tentativo disperato di avvicinamento.
Toni Capuozzo mostrava, qualche giorno fa, un video atroce: c’è un soldato ucraino che prende il cellulare di un soldato russo ucciso, chiama la madre e le annuncia la morte del figlio. Nei dettagli, racconta di come è stato fatto a pezzi e dove sono i pezzi. Ride, si vanta. Facilmente, addetti alla mostrificazione come Gramellini e Parenzo ne avrebbero fatto, a parti invertite, strumento di propaganda interventista. Ma quello è, appunto, un canone delle proibizioni, la lezione su come non fare giornalismo in tempo di guerra. Invece, intorno a microstorie come questa bisogna costruire un santuario: qui stiamo accanto alla madre, completamente dalla sua parte. A Mariupol stiamo sotto le bombe. A Berlino, nel 1945, insieme alle donne tedesche stuprate dall’Armata Rossa. Non a prescindere da chi ha ragione e chi ha torto, perché sarebbe una via di fuga: piuttosto riconoscendo quando smette di importare. Eccola l’equidistanza, ecco che sorge dal basso, dal brulicare dell’orrore sulla superficie di tutte le ragioni. «Come un fungo», avrebbe detto Hannah Arendt.
Nelle vicende degli elfi diventati orchi, dei ragazzi diventati criminali di guerra, c’è l’antica spina nelle carni del cristianesimo: come può corrompersi ciò che era buono, che era grazia? La risposta non esiste, c’è solo il miracolo speculare, ugualmente inspiegabile: da dove viene la redenzione, da dove il perdono? C’è molta speranza, annuncia Kafka, ma nessuna per noi. Con l’impotenza dei malati terminali guardiamo questa guerra che è nostra e sulla quale non abbiamo potere, il cristallino processo di mosse e contromosse attraverso cui potremmo arrivare alla fine di tutto. Eppure, Kafka si può leggere al contrario: anche senza di noi, al mondo c’è ancora speranza. In un poemetto di Eleanor Wilner, Reading the Bible backwards, compare l’immagine delle balene che, dopo un nuovo diluvio, nuotano «come angeli pesanti» fra i palazzi, mentre sprofondano nell’oceano i vecchi incubi della terra. Adesso che la guerra atomica, partita da distanze astronomiche di improbabilità, appare ogni minuto un poco più vicina, se pure sbagliassimo tutto qualcuno, balene o umani, prima o poi tornerà innocente dei nostri errori.
(originariamente pubblicato il 19 aprile 2022)