Nei testi, editi e postumi, dell’austriaco Robert Musil (1880-1942) il nome di Dante Alighieri ricorre per ben 28 volte, e tuttavia nessuno è stato in grado di stabilire se l’austriaco (che è stato scrittore, ma anche militare, ingegnere, filosofo, studioso di psicologia e inventore) abbia mai letto il sommo italiano. E, se lettore della Commedia dantesca, di quale versione, eventualmente, viste le tante in lingua tedesca pubblicate nel corso della prima metà del Novecento, in particolare negli anni Venti? Purtroppo non è dato sapere. Dall’analisi dei suoi diari risulta che in alcuni passaggi, risalenti ad epoche diverse, il nome di Dante compare solo perché accostato ad altri grandi geni dell’arte, della letteratura e della musica. In questo senso alla ricorrenza del nome non è possibile attribuire un valore ben definito. Nei primi abbozzi su Clarisse (il personaggio del romanzo L’uomo senza qualità che richiama la nietzscheana “scimmia di Zarathustra”), risalenti agli anni Venti, Musil cita più volte Dante, richiamandone l’ammirazione verso la “devozione” di Francesco d’Assisi, cresciuta “tra di noi”, fa dire al poeta, “come un astro luminoso”. Significativo è che Dante ricorra in relazione alla “scimmia di Zarathustra” nella terza parte de L’uomo senza qualità. Il capitolo s’intitola “I pazzi salutano Clarisse” e la descrizione della sua visita al manicomio viene interrotta da una riflessione sull’inferno:
“L’inferno non è interessante, è spaventoso. Anche gli scrittori più forniti di fantasia, quando invece di renderlo umano – come ha fatto Dante, che l’ha popolato di letterati e di gran personaggi, distraendo così l’attenzione dalla tecnica del castigo – hanno tentato di darne un quadro esemplare, non son riusciti che a descrivere goffe torture e poco immaginose distorsioni di usanze terrene. Invece proprio il vuoto pensiero del castigo e del tormento, infiniti, inimmaginabili e perciò ineluttabili, il presupposto di un peggioramento inaccessibile ad ogni sforzo in contrario, ha l’attrazione dell’abisso. Così sono anche i manicomi. Sono case di poveri. Hanno un poco la mancanza di fantasia dell’inferno.”
R. Musil, USQ, p. 954
Alla ricerca dell‘”altro stato”
L’intera opera in prosa di Musil è una riflessione costante sulle dinamiche che danno forma al poetare. Fin dai primi tentativi e dalle note di diario s’incontrano paesaggi da “zona di confine”. La scrittura frammentaria intesa come luogo di permanenza nell’”altro stato” finirà per essere l’ossessione che lo porterà quotidianamente al tavolo di lavoro, fino all’ultimo istante di vita. Ogni genere letterario da lui scelto è stato espressione di questo. Lettere d’amore abbozzate e mai spedite, racconti, testi per il teatro, romanzo. L’intera opera in prosa di Musil esige che la lettura sia insieme contemplazione e trasformazione della realtà. Per tutto questo è utile approfondire il tentativo di permanenza nell'”altro stato”, in particolare nel secondo libro dell’USQ, tentativo che Musil affida ai personaggi Ulrich e Agathe, la “sorella gemella”. In uno dei capitoli, dedicato alle “conversazioni sacre”, Ulrich sfoglia un gran numero di libri, “biografie e scritti di mistici”, che aveva portato con sé prima di trasferirsi da Vienna nella piccola città di provincia dove aveva vissuto e dove era morto suo padre. Le citazioni che ne estrae e che legge alla sorella compaiono in diverse varianti del romanzo, talvolta volutamente nascoste, in altri casi brevemente introdotte come affermazioni dei santi. Citazioni che lo scrittore ha tratto quasiesclusivamente dalle Confessioni estatiche di Martin Buber (1909). Oltre a Buber, Musil cita occasionalmente Emanuel Swedenborg, il De visione Dei di Nicolo Cusano e il De imitatione Christi di Tommaso de Kempis. Non va dimenticato poi che l’austriaco si è spesso dedicato allo studio della tradizione mistica intesa anche nel suo significato storico. La stessa cosa potrebbe essere accaduta con l’Antico e con il Nuovo Testamento, forse influenzato dalla moglie Martha, di famiglia ebraica (nata Heimann) e attenta lettrice.
Anche se le letture dall’antologia di Buber conferiscono ai protagonisti del romanzo il fascino di una più profonda suggestione interiore, la principale, memorabile esperienza delle loro riflessioni va ricondotta alla dottrina teologica e filosofica di Meister Eckhart. La stessa musiliana concezione di una vita “senza qualità” può essere fatta risalire ad una riflessione di Eckhart. Nel capitolo “Incomincia una serie di meravigliose vicende” dell’USQ il chiaro di luna diventa l’espressione più compiuta di un’immaginaria unione tra sentimento econoscenza:
“La notte chiude tutte le contraddizioni nelle sue fulgide braccia materne, e nel suo petto nessuna parola è vera e nessuna è falsa, ciascuna è quella nascita incomparabile dello spirito dall’oscurità che l’uomo sperimenta in ogni nuovo pensiero. Così tutto ciò che accade nelle notti di luna ha la natura dell’irrepetibile, la natura dell’intensità, la natura della munificenza e della spoliazione altruista. Ogni comunicazione è una spartizione senza insidia. Ogni dono donato è un dono ricevuto. Ogni concezione è intrecciata in mille modi si intreccia in vari modi con la commozione della notte.”
R. Musil, USQ, p. 1046
La nuova percezione nella notte di luna piena è simile all’effetto misterioso che producono i dipinti di nature morte, cui i fratelli, all’apice della loro esperienza, si relazionano, come se avessero trovato lì la spiegazione dei loro turbamenti e delle loro azioni. Gli oggetti dei quadri di nature morte, “pietrificati dalla magia dell’arte” non rappresentano se stessi, non sono un frammento o una realtà; in questa natura morta pietrificata c’è una sorta di “tentazione diabolica” che evoca un’eco toccante, infinita, irriconoscibile. Alla fine del capitolo “Raggi di luna in pieno giorno”, per esempio, Agathe sembra tornare alla sua esistenza terrena dopo aver raggiunto il confine di quell’infondato sentimento che le aveva causato la lettura di Meister Eckhart. Il tentativo di indulgere in un sentimento di bene assoluto e di emotività illimitata si ripete nel progetto di conclusione del romanzo: il già citato capitolo “Raggi di luna in pieno giorno” lega il vertice dell’amore terreno provato da Ulrich e Agathe nella notte di luna piena agli strani eventi meravigliosi che li avrebbe portati a sperimentare un amore più elevato, nel quale “sentire forse perfino Dio donarsi”. Ulrich e Agathe devono quindi riconoscere che esiste una sola realtà. Questa totalità dell’essere può, tuttavia, essere percepita nella sua unicità in due modi opposti. L’unica realtà è un sentimento smodato che non si riduce a una rappresentazione ostinata, essa racchiude in sé un divenire irrappresentabile diretto verso un’altra verità. Secondo Musil è compito dell’arte e della letteratura rappresentare il mondo così che da quello scaturisca la luce di una possibile trasformazione in una realtà superiore.
Un viaggio in paradiso, ovvero echi dall’inferno dantesco
Il percorso fatto, teso a definire i tratti di quella condizione che Musil ha indicato come anderer Zustand (altro stato), va completato con una sottolineatura che ci permette di tornare a Dante e alla sua Commedia. Per l’austriaco è sempre stata fondamentale la riflessione sul “vedere”. Già nei diari, nel 1902, annotava: “Stilizzare significa vedere e insegnare a vedere”. Successivamente Musil elaborò la teoria del cannocchiale prismatico applicata alla scrittura narrativa e, studioso di psicologia sperimentale a Berlino, realizzò il cromatografo, uno strumento che doveva servire appunto per studi di psicologia, fisiologia e fisica. Musil scienziato, è bene ricordarlo, era un tutt’uno con il Musil scrittore e nella sua opera narrativa più volte i personaggi sperimentano incroci di sguardi o particolari esperienze. E questo in ragione della costante aspirazione musiliana di fare della scrittura il luogo di una realtà “altra”. Di seguito un passaggio riguardante ancora i “fratelli gemelli” Ulrich e Agathe e sempre dal capitolo “Raggi di luna in pieno giorno”:
“Tenendo gli occhi chiusi per qualche attimo e riaprendoli così che il giardino appariva intatto al suo sguardo, come appena creato, ella osservava, chiaro e incorporeo come una visione, che la linea d’unione fra lei e il fratello si distingueva fra tutte le altre: il giardino era sospeso intorno a quella linea, e sebbene gli alberi, i viottoli e le altre parti del luogo reale non fossero mutati, come ella ben vedeva, quella linea era l’asse intorno a cui tutto si volgeva, e per cui tutto si era invisibilmente mutato, in modo visibile. Sembrava una contraddizione: ella avrebbe anche potuto dire che il mondo lì era più dolce, forse anche più doloroso; ma lo strano era che pareva di vederlo con gli occhi.”
R. Musil, USQ, p. 1055
Gli sguardi che s’incontrano e la realtà che, attraverso quell’incontro, muta ci riconducono al poema dantesco, dove il termine “sguardo” è la parola più ricorrente. L’intera Commedia è costruita sull’atto del vedere, l’intero suo percorso è stato affidato da Dante a Lucia, la santa patrona della vista. Torniamo ora alla metà degli anni Venti, quando Musil scrisse il frammento Il viaggio in Paradiso, elaborato parallelamente a L’uomo senza qualità e di pari valore letterario. I personaggi sono già i “fratelli” Agathe e Anders (che significa “diverso”, “diversamente” o “in altro modo” e che in seguito diventerà Ulrich). Un nome, quellodel protagonista maschile evoca immediatamente il nodo della ricerca musiliana, l’”altro stato”, e ci richiama alla memoria il citato Discorso su Rilke, laddovel’austriaco, riferendosi al praghese, dice: er sah anders (egli vedeva diversamente). Sintesi mirabile, questa, di quanto importante fosse per Musil il “vedere” rispetto alla ricerca dell’”altro stato”. Ma torniamo a Il viaggio in Paradiso per rilevare quanto tra gli amanti/fratelli sia essenziale, lì come altrove, lo “sguardo”:
“Quando due paia d’occhi s’immergono a lungo gli uni negli altri, sul ponte dello sguardo le due creature s’incontrano e resta soltanto un sentimento che non ha più corpi. Quando due paia d’occhi, in un’ora misteriosa, guardano un oggetto e si uniscono in esso – ogni fluttua laggiù in un sentimento, e le cose stanno salde soltanto se quel suolo è duro – il mondo rigido incomincia a muoversi lentamente e incessantemente.”
R. Musil, USQ, p. 1105
Dopo aver ricordato come anche Il viaggio in Paradiso risalga alla metà degli anni Venti, accostiamoci finalmente alla Commedia, leggendo il Canto V dell’Inferno, soffermandoci in particolare su Paolo e Francesca. Siamo nel Cerchio II, tra i lussuriosi, “i peccator carnali, / che la ragione sommettono al talento”. I due amanti costruirono un rapporto d’amore irregolare, “perverso”, come dice Dante, ed è “l’amor che i mena”, “di qua, di là, di giù, di su”, inseparabili nel loro volo accoppiato. Così come Paolo e Francesca, anche Agathe e Anders ne Il viaggio in Paradiso, in quanto “fratelli gemelli”, sono protagonisti di un amore “perverso”. Anch’essi si sono allontanati dalla “retta via”:
“Era un paese qualunque dell’Istria, o sulla costa orientale d’Italia, o sul Tirreno. Loro stessi lo sapevano appena. Avevano preso tanti treni e viaggiato in tante direzioni. Da non sapere più come ritrovare il cammino.”
R. Musil, USQ, p. 1095
Anch’essi, come Paolo e Francesca, sperimentano l’inseparabilità:
“Perciò furono a un tratto vicini, l’uno nelle braccia dell’altro. La pelle s’incollò alla pelle; quel piccolo sentimento sbocciò timidamente nella grande solitudine come una pianta minuscola piena di linfa che cresce tutta sola fra i sassi, e li rassicurò. Piegarono l’arco dell’orizzonte come una ghirlanda attorno ai loro fianchi e guardarono il cielo. Erano ritti adesso come su un alto balcone, allacciati l’uno all’altro e all’inesprimibile come due amanti che stanno per precipitarsi nel vuoto. Precipitarono. E il vuoto li sorresse. L’attimo si arrestò, senza scendere né salire. Agathe e Anders provarono una felicità che non sapevano se fosse tristezza, e solo la certezza di essere eletti per vivere l’Eccezionale li trattenne dal piangere.”
R. Musil, USQ, p. 1098
“Nessuna visione. Una chiarezza smisurata”, aggiunge Musil, “come se una pietra tombale che li schiacciava fosse stata rimossa”. Eppure quell’inseparabilità si trasforma presto in dolore:
“In fondo era meravigliosamente semplice: con le forze limitatrici s’erano perduti tutti i limiti e poiché non percepivano più alcuna separazione, né in sé né nelle cose, erano diventati uno solo.
Si guardarono intorno con cautela. Era quasi una sofferenza. Erano del tutto sperduti, lontani da se stessi, situati in uno spazio dove si smarrivano. La loro anima era smisuratamente tesa, come una mano che perde tutta la sua forza, la loro lingua era come mozzata.”
R. Musil, USQ, p. 1099
Il tentativo di trovare l’ingresso in paradiso fallisce e l’immagine che sancisce la conclusione dell’esperimento amoroso, dunque la separazione di Agathe da Anders, è quella della tempesta:
“La tempesta scuoteva le porte.”
R. Musil, USQ, p. 1115
E anche in questo caso un ultimo significativo richiamo al dantesco vento che “mena” e “piega” le anime di Paolo e Francesca, e con loro di tutti i lussuriosi. Per concludere: nulla c’è che attesti esplicitamente la volontà musiliana di rifarsi alla Commedia. Solo semplici suggestioni. Echi, forse. E tuttavia meritevoli di essere lasciati risuonare.