Subito dopo la seconda guerra mondiale, con un’ordinanza datata 2 novembre 1945, il governo De Gaulle affronta il problema della carenza di uomini nel paese martoriato dal Secondo Conflitto mondiale, ed affida il progetto ad un apposito comitato, diretto da Georges Mauco. Questi era un propugnatore della necessità di selezionare accuratamente gli immigrati a cui concedere la cittadinanza francese sulla base di interessi nazionali e salvaguardando l’identità etnica del paese. Per questo De Gaulle stesso chiederà apertamente di favorire l’immigrazione dai paesi nordeuropei- preferendo contestualmente criteri quali la giovane età e la professione operaia. Negli anni seguenti, la logica dell’immigrazione controllata di Mauco verrà messa all’angolo dal riaprirsi dei collegamenti navali tra l’Algeria e la Francia. Tra il 1949 e il 1955 quasi 180mil lavoratori che entrano nel paese transalpino sono di origine algerina. Nonostante la guerra e i tentativi della politica francese di selezionare gli ingressi, nel 1973 ben 50mila lavoratori immigrati verranno regolarizzati. A parte una breve parentesi nei primi anni Ottanta, in cui si discuterà seriamente intorno a piani di rimpatrio forzati per le masse-principalmente algerine- di immigrati irregolari, l’opzionalità in termini di immigrazione era destinata a tramontare.
L’attuale politica migratoria della Francia è figlia diretta della congiuntura macro politica mondiale. Gli Stati Europei hanno delegato molto potere alla neonata UE, e gli spazi di rappresentanza -moltiplicatisi con l’avvento della televisione prima e con la rivoluzione digitale poi- hanno permesso a diverse voci di creare obiezioni e contronarrazioni, che hanno in parte tenuto ferma la mano dell’apparato statale. Inoltre non si arresta l’onda lunga del “bisogno di immigrazione” vero e proprio mantra del nostro secolo. Nonostante, quindi, lo stato francese riconosca la necessità di regolarizzare i fenomeni migratori, sembra evidente che la situazione sia -per così dire- sfuggita di mano. Il sovrapporsi di ondate migratorie irregolari, che sono andate a riempire le banlieue o i progetti abitativi à la De Coubertin ha creato uno strato sociale nuovo: Francesi di schrödinger, contemporaneamente cittadini e stranieri, europei ed africani. Rivendicando con forza la loro identità altra, le seconde generazioni rischiano di confermare i timori di una incompatibilità atavica su base etnica o culturale, quella stessa idea di incompatibilità che aveva portato la Francia -e gli altri paesi europei- a improntare una politica migratoria selezionata -come amava dire Sarkozy-.
I recenti disordini francesi hanno portato un vigoroso botta e risposta -nei luoghi predisposti all’odierna querelle politica, cioè i social media- intorno a questo enorme elefante che passeggia amorevolmente nella stanza da tempo immemore, e che sporadicamente fa capolino per ricordare della sua esistenza. A stuzzicare le fantasie di analisti e opinionisti nel nostro paese è stata senza dubbio la paura che la situazione in Italia si “scaldasse” sull’onda lunga del vicino. Fermo restando che le due situazioni sono molto diverse, sia in termini di numeri (la Francia è il paese che ospita più immigrati di seconda generazione in Europa, più del 30%; l’Italia ne ospita “solo” il 5%), sia in termini di cultura. Il concetto di métissage, di società multiculturale è così vivo -e per la verità anche così criticato- in Francia da essere diventata una vera e propria cifra caratteristica del paese transalpino. Certo, è anche vero che proprio dalla Francia arrivano le proposte di più radicale e organizzato rifiuto del métissage stesso, ma l’esistenza di un dibattito così serrato e così vivo sono indici che in Italia non trovano un riscontro.
Lasciando perdere le melensaggini-anche spassose- à la Pennac, con la sua Belleville che si configura come un’utopia métis di buoni sentimenti e rapporti fluidi, la Francia è il paese di La Haine, vero e proprio manifesto generazionale delle seconde generazioni delle banlieue, che si ritrovano a volersi prendere il mondo -l’iconica scena de Le monde est à nous– senza capire davvero quali siano le regole del gioco. Pur con alcune ingenuità, il film di Kassovitz è un termometro che ben sonda la profonda frattura fra le diverse società che si ritrovano in Francia. La stessa polizia -la forza che, nelle narrazioni di questo genere, viene spesso costruita per demoniaca opposizione alle masse di immigrati- è ritratta nel film come un gruppo di individui soli, legati da uno spirito di corpo e da una solidarietà l’uno a l’altro che è l’unica cosa che gli rimane in un ambiente ostile. Seconde generazioni e poliziotti sono nazioni di individui in lotta, che molto spesso non sanno neanche perché continuano a lottare. I poliziotti di La Haine sono più simili ai protagonisti di quanto i protagonisti lo siano fra di loro,e in questa morale non c’è ingenuità. In Italia non si trovano film del genere perché -appunto- evidentemente manca l’urgenza di farlo.
Gli interrogativi sull’incompatibilità culturale, l’emergenza di problemi strutturali di gestione sociale è ora in Italia ai livelli della Francia cinquant’anni fa anche perché la configurazione di un mondo multiculturale e meticcio è figlio di dibattiti francesi nelle università francesi. Si pensi al dibattito sullo ius soli. In Italia è materia relativamente recente, in Francia -dal 1998- ogni bambino nato in Francia da genitori stranieri può accedere alla cittadinanza francese.
La Haine riesce paradossalmente a inquadrare con abilità le criticità di questo modello -e le voci critiche in Francia sono state molte in tal senso, e molto rumorose-. Si pensi ai circoli culturali tradizionalisti, la scuola della Nouvelle Droite, l’Institute Iliade. Circoli che fanno del dibattito intorno all’identità nazionale una priorità e una raison d’être. Lo stesso dibattito che in Italia non raggiunge -anche se negli anni ’70/80 ci avevano provato diversi pensatori, questi sì, ispirati dalle esperienze francesi- simili livelli di importanza. Dopo le dovute rassicurazioni su come la rivoluzione non arriverà in Italia, bisogna fare un po’ d’ordine sui fatti che hanno portato alle rivolte. A quanto pare, la polizia francese ha ucciso, con un colpo di pistola mal indirizzato, un giovane algerino che aveva appena forzato un posto di blocco. Il dibattito su quanto legittime-o quanto misurate- siano le risposte della forza di polizia di fronte a situazioni di grande pericolosità non attiene direttamente a ciò che sto scrivendo. La narrazione dell’evento si è, inevitabilmente, scissa intorno all’asse della propria convinzione politica. C’è chi ha applaudito i manifestanti perché ci ha rivisto le masse-meticce- che sovvertono il potere-bianco-, c’è chi ci ha letto come un’ulteriore conferma dell’incompatibilità culturale tra le diverse etnie che compongono la Francia. Tutti, o quasi, sono concordi su una cosa: il modello assimilazionista francese non funziona, e, a meno di violente manomissioni politiche, non funzionerà mai. Da una parte chi chiede maggior controllo, dall’altra chi invoca più meticciato le voci dei politici, dei giornalisti e dei mitomani di quartiere rimbombano intorno al corpo di un ragazzo-un disperato- in un’altra di quelle orrende storie in cui non c’è alcuna morale politica da trarre. La tragedia di Nahel cade a pennello nell’uno o nell’altro campo narrativo, a seconda delle proprie simpatie politiche, eppure, come ne La Haine, non ci sono vincitori o vinti, giusti o sbagliati. Anche se, sia per una parte che dall’altra, sarebbe estremamente confortante il contrario.