A Renzi piace giocare in politica. Sarebbe difficile immaginarselo a fare altro nella vita. Questo si pensa quando lo si vede parlare, che sia durante un’intervista, un’audizione in commissione, un intervento in Parlamento o una conferenza stampa i cui passaggi centrali si sarà ripetuto in testa decine di volte, sogghignando ogni tanto magari. Renzi è antipatico a molti, si sa, e gode di una fama “mostruosa” per uno che di mestiere fa il politico. Opportunista, doppiogiochista, e tanti altri “ista” completano un ritratto poco adatto a chi vuole far breccia nel cuore del grande elettorato. Oggi è preferito il politico coerente, che sa quello che vuole e non ha paura di dirlo, ma che di “politico”, in senso stretto, ha poco veramente. Renzi è un personaggio criptico, poco capito, uno di quelli che ad un certo punto della propria carriera ha catalizzato il 40% di voti nel segno di una mancata rivoluzione a cui forse neanche lui ha mai creduto veramente. Tutto si può dire tranne che non segua una propria logica interna. Sbaglia chi lo dipinge come l’uomo che farebbe di tutto pur di sedere su una qualsiasi poltrona, che si lascia guidare dal momento, che in un certo senso vive per cogliere l’attimo. Non è così. Perché occasioni per farlo, dal 2016 a oggi, ne ha avute svariate.
La verità, di nuovo, è che Renzi vive di politica. Non ne può fare a meno. Quella politica che porta a investire tutto in nomi e nomine, fatta di scommesse e strategie, giocata nei palazzi e recitata nelle piazze. Renzi è come il marito che sente il desiderio di tradire pur avendo una vita familiare invidiabile. Se fosse stato un classico politico da Seconda Repubblica avrebbe amministrato quel 40% – ammesso che lo avrebbe raggiunto mai – andandolo piano piano a perdere in favore di qualche altro enfant prodige che continuando nel suo solco lo avrebbe reso obsoleto dopo qualche anno. Proprio come succede con i telefoni di nuova generazione. Invece Renzi ha vissuto una carriera fulminante, una di quelle tanto veloci che rimane difficile credere che un tempo l’Italia fosse innamorata di lui. Ma non rimarrà negli annali come un Mariano Rumor qualsiasi, è certo. Il Renzi del 40% ha solamente aperto la strada al Renzi del 2% in un’evoluzione verso il ruolo che gli si confà maggiormente. Quello di giocatore, non di pedina.
Così eccolo nella Sala rinominata in memoria dei Caduti di Nassiriya a presentare un’edizione riveduta de “Il Mostro”, un libro da lui scritto e già uscito a maggio di quest’anno, ripubblicato a distanza di sei mesi con qualche aggiunta. Già da questa operazione dovrebbe essere chiara che la logica renziana non segue le normali traiettorie. Perché ripubblicare un libro (con la scusa di volerlo vendere in edizione economica) andando ad aggiungere capitoli incentrati sugli ultimi eventi politici italiani, all’interno di un volume che aveva tutt’altro tema, ovvero la mala condotta della Magistratura? La risposta viene da sola: il gusto della polemica, del far parlare. Ma in maniera differente rispetto a chi lo ha preceduto. Non come amava fare Silvio Berlusconi – tante volte a lui paragonato. Il Cavaliere voleva parlare di sé, il leader di Italia Viva vuole parlare e basta. Nel libro si fanno un sacco di nomi: magistrati, amici di magistrati, sindaci, presidenti di associazioni, consiglieri di presidenti di associazioni, amici dei consiglieri, e così via. Renzi vuole che tutti vedano la scacchiera e che di conseguenza associno la sua figura a quella del giocatore capace di muovere tutte le pedine. Berlusconi al contrario voleva essere visto come la Regina, il pezzo più forte. Che pur sempre pezzo rimaneva.
Ogni uscita di Renzi è mossa dunque da questo: l’amore della discussione politica. Ed ecco che sui giornali non si parla d’altro da una settimana, in una guerra fra caporedattori su retroscena e anticipazioni. Un florilegio di polemiche nate dalle sue sfilettate contro i magistrati (ma solo contro la minoranza che “delegittima” tutti gli altri), o dal segreto di Stato apposto sul caso dell’incontro in autogrill con l’ex spia Marco Mancini, che sembra tratta più da un film che non da una vicenda di casa nostra. Fino al 2037 non se ne saprà nulla della questione, per volontà della stessa Elisabetta Belloni contro cui Renzi aveva posto le maggiori riserve durante l’ultima elezione quirinalizia: «Chiunque potrà farsi delle domande», dice a tal proposito. Quello di oggi sembra un Renzi paradossalmente più forte di quello che vantava il supporto di quasi un elettore su due. A briglia sciolta è libero di giocare senza più le catene della responsabilità istituzionale portata dalla carica di Segretario o Premier. Il 2% lascia Matteo libero di speculare pubblicamente su vicende delicatissime che ancora bisogna lasciarsi definitivamente alle spalle: «Sulla pandemia sono girati soldi, tanti soldi» – e ancora – «Non ho le prove ma ho elementi numerosi che mi portano a dire che ciò che è accaduto in quei mesi va chiarito». Il punto non è che Renzi scelga di attaccare Giuseppe Conte, uno dei suoi “nemici” preferiti, ma che lo faccia così duramente e adoperando tecniche che sarebbe lecito attendersi da Paragone o dal Grillo dei primi anni.
Il giocatore Renzi dunque può ora fare sul serio. Sulla tenuta delle sue capacità politiche non ci sono mai stati dubbi. Basta pensare a come si è seduto nel Parlamento di questa Legislatura. Puntando sul nuovo arrivato, Carlo Calenda, il pedone partito per cercare la promozione a Kingmaker, inevitabilmente andato a sbattere contro il muro di un’alleanza con il Pd morta ancora prima di nascere. Matteo l’aveva letta con tre mosse in anticipo, riuscendo ad attivare il suo giglio magico ancora prima che vi fosse la possibilità d’inserirsi. E quando i tempi sono finalmente diventati maturi non restava solo che mettere la firma sull’alleanza. Renzi è uno di quelli che ottiene sempre quello che vuole, a costo di grossi sacrifici. Ancora meglio quando il sacrificio lo fanno gli altri. Sua è infatti anche la firma sulla caduta del Governo Conte II, operazione ordita con l’aiuto di Giancarlo Giorgetti, che ha portato all’arrivo di Mario Draghi. «I politici amano mettere il cappello sopra gli eventi», dichiara dalla Sala del Senato: e lui non è da meno, come ammette senza troppi giri di parole. Perché alla fine che sia rimarcare pubblicamente che uno dei suoi avversari in magistratura è stato accusato di molestie sessuali ai danni di una collega, oppure che si tratti di andare contro niente meno che la Capo del DIS, non fa differenza. Per lui, che alla fine dei conti, non è che un Parlamentare. Che dal Parlamento, un luogo che tanti vedono alla stregua di un passacarte, inspiegabilmente riesce a trarre la sua forza.