OGGETTO: Mattarella e Machiavelli
DATA: 16 Gennaio 2023
SEZIONE: Politica
AREA: Italia
Nel suo discorso di fine anno il Presidente della Repubblica ha accusato gli italiani del loro solito male atavico: quello di essere un popolo senza una morale.
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Nel consueto discorso di fine anno, il Presidente della Repubblica ha evocato un richiamo al senso civico degli italiani rispetto all’importanza del pagare le tasse: «La Repubblica è nel senso civico di chi paga le imposte perché questo serve a far funzionare l’Italia e quindi al bene comune». Il 2 gennaio nella pagine del Corriere della Sera, il quirinalista Marzio Breda ha sottolineato che il richiamo al pagamento delle tasse è stato un passaggio politico, che ha inteso fare Mattarella, rivolto alla maggioranza parlamentare e al governo stesso, che ha trovato il suo bacino di voti proprio in quell’elettorato avulso al pagamento delle tasse e che proprio l’attuale governo ha ottenuto il suo consenso tramite i vari provvedimenti, di carattere corporativo, del taglio delle tasse e nei condoni. Sempre Breda, ha posto l’accento sull’utilizzo del linguaggio retorico fatto dal Presidente della Repubblica, in cui si è posto sullo stesso piano, a livello linguistico, degli esponenti del governo. Prendendo per buona l’analisi dell’autorevole giornalista del Corriere della Sera, si può sostenere che Mattarella abbia messo sullo stesso piano morale il Governo e i suoi elettori.

Questo riporta alla mente, la definizione di «machiavellismo sociale», termine coniato da Giacomo Leopardi per definire quella cattiva condotta morale che accomunava la classe politica e la società pro italiana negli anni Trenta dell’Ottocento. Con questo termine, Leopardi rifletteva sulla concezione della politica analizzata da Machiavelli, ma raggiungendo una visione più ampia, che andava oltre la classe politica e sconfinava fino ai costumi della società coeva. Leopardi, nell’affrontare l’opera di Machiavelli, tramite l’analisi degli scritti di carattere politico quali: Il Principe, i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, ma anche quelli letterari come la novella Belfagor e la Mandragola, trasformava la sua analisi in un microscopio per capire i comportamenti umani, per cui classe politica ed educazione morale erano legate indissolubilmente. Come ha scritto Luigi Blasucci nel saggio Leopardi e il personaggio “Machiavello”, che fa parte dell’opera I titoli dei “Canti” e altri studi leopardiani, edita da Marsilio nel 2011, il confronto tra Machiavelli e Leopardi era ben presente sia nella novella di Senofonte e Machiavello che all’interno dei vari passi dello Zibaldone, in parte confluiti nei Pensieri.

Per Leopardi il confronto con Machiavelli, in particolare con la politica realista della verità effettuale teorizzata dal Segretario fiorentino, andava ad avvalorare la sua tesi sulla visione disillusa dell’attività politica e della natura umana. Sempre Blasucci tende a sottolineare che, proprio in questo paragone di concezione della realtà, Leopardi inseriva anche gli scritti di Francesco Guicciardini, altro autore molto amato dal poeta recanatese. Nello Zibaldone del 5-6 ottobre del 1820 Leopardi scriveva: «Machiavelli fu il fondatore della politica moderna e profonda». Dal breve periodo scritto, si evince chiaramente che Leopardi aveva un concetto della politica negativa e che, come Machiavelli, guardava alle virtù civili degli antichi come esempi di impegno patriottico.

Nelle due redazioni della novella Senofonte e Niccolò Machiavello, la cui prima risale all’ottobre del 1820, il poeta narrava che Plutone e Proserpina, nel cercare un istitutore per il loro figlio, un diavolo che in futuro avrebbe regnato sulla terra sotto le sembianze umane, decisero di selezionare uno tra Senofonte e Machiavelli. Machiavelli, nella sua prolusione, contrappose la sua opera maggiore, Il Principe, come archetipo dei valori morali, all’opera di Senofonte. A quel punto, Leopardi faceva entrare in scena Baldassarre Castiglione, in qualità di antagonista di Machiavelli, e maestro dei cortigiani del diavolo, che con la sua opera, Il Cortegiano, avrebbe educato i giovani amici del diavolo, ovvero la futura classe dirigente. Nella seconda versione della novella, Leopardi inserì quasi esclusivamente il solo discorso diretto di Machiavelli, in cui il Segretario fiorentino incarnava il pensiero di Leopardi, in cui inconsciamente affermò la locuzione: «La virtù è il patrimonio dei coglioni». Machiavelli si presentava come l’antropologo, colui che nella «realtà effettuale delle cose indagava la società e non cercava la scappatoia in falsi miti o utopie»: «Dico nudamente quelle cose che sono vere, che si fanno, che si fanno sempre… il mio libro è e sarà sempre il codice del vero e unico e infallibile e universale sul modo di vivere, e perciò sempre celebratissimo».

Per Leopardi, i giovani virtuosi, che credevano nel prossimo e nella giustezza della società, venivano subito soverchiati e messi all’angolo dal comportamento sociale, che aveva i suoi principi fondanti fondati sull’ipocrisia e sull’egoismo. Questi imparavano, per un gioco di reazione, ad adeguarsi ed a diventare arroganti con il prossimo. Nel prosieguo del discorso, Leopardi fece dire a Machiavelli che egli di natura aveva sempre indagato quale fosse la vera virtù e che egli stesso aveva cercato di essere sempre onesto, ma quella sua condotta non aveva fatto altro che procurargli innumerevoli divergenze nella sua attività di uomo politico e finì per procurargli l’ostracismo nella classe dirigente fiorentina. L’ex Segretario capì che non c’era altra soluzione che «far guerra agli uomini senza né tregua né quartiere».

Si può dire che Machiavelli sia stato per Leopardi un vero e proprio Virgilio dantesco, che lo guidava a scandagliare l’essenza antropologica all’interno della società e della classe politica. Proprio per Leopardi quella società proto-italiana, che lui aveva avuto modo di conoscere, sia quella campagnola di Recanati, che quella più aristocratica e intellettualmente avanzata di Bologna, Milano, Firenze e Napoli, aveva un difetto ab origine, ossia che non aveva nessuna cognizione di quello che serviva per fondare una giusta società, ovvero perseguire il bene comune. Leopardi capì benissimo la contraddizione insita all’interno dell’uomo, il cui unico obiettivo era ricercare il proprio interesse esclusivo. Proprio quel comportamento egoistico causava, a detta del poeta, una competizione sfrenata all’interno della stessa società:

«La società, essendo diretta al comun bene e piacere, non sussiste veramente, se l’individuo non accomuna più o meno cogli altri la sua stima, i suoi interessi, i suoi fini, pensieri, opinioni, sentimenti e affetti, inclinazione e azioni; e se tutto questo non è diretto se non a se stesso. Quanto più si trova nell’individuo il se stesso, tanto meno esiste veramente la società. Così se l’egoismo è intero, la società non esiste se non di nome».

Giacomo Leopardi, Zibaldone di Pensieri, 17 febbraio 1821

Ma l’egoismo come disvalore, che in una società doveva provocare una sorta di rigetto, invece era fonte di produzione di equilibrio tra gli stessi componenti della società proto italiana:

«Oggi l’uomo è nella società quello che una colonna d’aria è rispetto tutte le altre e a ciascuna di loro. S’ella cede, o per rarefazione o per qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, e queste premendo né più né meno in tutti i lati, tutte accorrono a occupare e riempire il suo posto».

Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, 1 aprile 1821

Le metafore delle colonne d’aria erano i pilastri della convivenza tra gli uomini, che assicuravano proprio agli uomini la loro vita ipocrita. Quello di prevalere sul prossimo era il principe cardine del «machiavellismo sociale», in cui l’ipocrisia e la dissimulazione erano i pilasti fondamentali della società attuale. Questi caratteri contraddistinguevano la cultura moderna italiana. Un’analisi sprezzante che fece Leopardi sull’ontologia dell’uomo, in cui lo stesso avvento della tecnica aveva causato l’abbandono dell’uomo della ricerca di quelle antiche virtù che in età classica avevano avuto il merito di instillare in lui una dolce illusione. La realtà, desolante, spingeva Leopardi mettere in dubbio la validità pedagogica dello stesso «machiavellismo sociale», ovvero la nullità dei precetti insegnati all’uomo per soggiogare il prossimo, enunciati nella Novella di Senofonte e Niccolò Machiavello:

«Che superiorità ne riceve l’uno ora l’altro? Non sarebbe per ambedue lo stesso che ambedue fossero ignoranti di scherma, o che tutti e due combattessero alla naturale. Il simile dico della politica del machiavellismo e di tutte le arti per combattere e superare i nostri simili».

Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri,10 settembre 1826

L’interpretazione del pensiero machiavelliano, nella sfera prettamente morale, apriva un campo letteralmente nuovo nella fortuna di Machiavelli. In quegli anni l’esegesi sul Segretario fiorentino si era focalizzata «sull’interpretazione obliqua» fatta dagli illuministi del Settecento, in primis da Rousseau e poi ribadita nella voce “Machiavélisme” nell’Encyclopedie per mano di Diderot, in cui Machiavelli veniva dipinto come il teorizzatore delle repubbliche. Stessa lettura esegetica era stata ripresa anche in Italia da Foscolo. Ma Leopardi andò oltre, trascese la semplice analisi politica dell’opera machiavelliana. Il Machiavelli come scienziato politico venne consustanziato con lo scrittore sociale, una sorta di studioso dell’antropologia. Leopardi lesse il Machiavelli della Novella di Belfagor, in cui veniva sovvertita la prospettiva tra il mondo degli inferi e la terra. Quando il diavolo, Roderigo, venne inviato sulla terra e si sposò con una donna, poté vedere con i propri occhi che la vita coniugale terrestre era peggiore di quella dell’inferno; oppure l’opera teatrale della Mandragola, in cui l’ex Segretario, con una satira pungente, si scagliava contro l’ipocrita società fiorentina del primo ventennio del Cinquecento. Quella stessa società proto italiana tanto deplorata da Leopardi come sembra fare oggi, in modo più sobrio, il Presidente della Repubblica italiana.

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