Scaffali vuoti, carburante oltre i due euro per litro, inflazione schizzata alle stelle: complice l’effetto annuncio di Vladimir Putin, che rimarca il verificarsi di gravi conseguenze per coloro che impongono sanzioni economiche alla Russia a seguito dell’intervento militare in Ucraina, ma anche, inevitabilmente, per gli effetti negativi di un’economia globalizzata. Dunque, in queste settimane si sta verificando una guerra parallela a quella dell’hard power militare ed economico, che si combatte sul terreno della reperibilità delle commodities, le materie prime, generando enormi problemi lungo la filiera di tutti i settori economici, dalla fornitura, alla trasformazione, fino alla distribuzione dei beni, specialmente quelli primari, ma non solo. Questo genera inevitabilmente un dibattito su questioni riguardanti la sicurezza alimentare globale, da anni imprescindibile punto degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite ma, banalmente, condizione essenziale di sopravvivenza dei popoli.
Il livello di tensione e preoccupazione per la questione è inevitabilmente alto, ma ciò deve sicuramente attivare degli allarmi silenti rispetto a politiche di lungo periodo che mal si adattano ad una condizione di esasperazione geografica e politica come quella attuale. Non si deve tuttavia incorrere nell’errore di correre nei supermercati per accaparrarsi le razioni da stipare nei bunker, ma sarà più opportuno, a livello istituzionale, nazionale e sovranazionale, ripensare le politiche economiche in un assetto che ha il sapore dell’economia di guerra in senso lato. È bene precisare il senso di questa definizione, perché la guerra intesa nel senso moderno non è emergenza dell’ultimo mese. Sono decenni che il mondo è in guerra, ma oggi, fortemente colpiti dall’infodemia del Covid e da ragioni di prossimità territoriale allo scenario bellico, avvertiamo con maggiore sensibilità il pericolo della miseria e la paura per il futuro. Possony e Lanzillo, due imponenti economisti novecenteschi, a ridosso dell’escalation militare del 1939 definirono l’economia di guerra come la necessità di adattare le politiche economiche al riarmo, non necessariamente per far fronte ad un intervento militare attivo, ma alla necessità di incrementare la spesa domestica per rafforzare l’hard power, ma non con la conseguenza estrema di dover dirottare risorse destinate ai civili verso l’apparato bellico.
Un altro fattore che aumenta il livello di allerta è legato proprio all’interdipendenza economica che abbiamo avuto fino ad ora con la Russia e l’Ucraina, che per vincoli di prossimità geografica sono stati importanti partner commerciali dell’Europa, e da cui dipendiamo in maniera considerevole per il mais, gli olii vegetali e alcuni metalli, come il nichel e il ferro, essenziali per l’industria pesante e per il processo di decarbonizzazione. L’Italia, contrariamente a quanto si possa pensare, non dipende in maniera imprescindibile da questi due Paesi per quanto riguarda il grano tenero, il grano duro e i cereali, che provengono in buona parte dal mercato autoctono e da altri Paesi. Ad oggi, quindi, anche per la natura della tipica dieta nostrana, non ci saranno conseguenze estremamente destabilizzanti, se non per il comparto dell’allevamento e zootecnia, che dipende molto dal mais per il nutrimento degli animali. Il problema, tuttavia, riguarda in maniera preponderante la prospettiva di lungo periodo e la necessità di ripensare la sicurezza alimentare globale nella chiave del riarmo che è stato programmato da tutte le potenze occidentali (e che sicuramente riguarderà altre regioni del Pianeta).
Il governo italiano ha programmato investimenti pubblici per spesa militare pari a 60 miliardi di euro per i prossimi 15 anni, che in un calcolo spannometrico corrispondono a circa il 2,4% del Pil a prezzi correnti. Sostanzialmente, si adempierà a quelli che sono i parametri Nato. Questo significa che il cosiddetto debito buono del Pnrr, che necessiterà di essere riprogrammato in funzione delle esigenze attuali e del prossimo futuro, servirà per costruire una politica economica che tenga conto del nuovo legame tra economia di pace ed economia di guerra come sopra definita. Questo perché, al netto della speranza di avere sul tavolo dei negoziati una soluzione diplomatica del conflitto quanto più rapida possibile, la straordinaria portata delle sanzioni economiche imposte a Mosca sia a livello istituzionale che a livello di imprese private – che hanno apparentemente chiuso al mercato russo senza una ragione di carattere economico -, avrà l’inevitabile conseguenza di ripensare ad una globalizzazione per sfere di influenza, nella quale i rapporti commerciali tra Occidente e Russia saranno più rarefatti.
La sicurezza alimentare occidentale, e dunque anche del nostro Paese, è stata messa sicuramente di fronte alla necessità di revisione di un paradigma essenziale che ha visto innalzare la bandiera della sostenibilità ambientale ad ogni costo, ma che oggi sembra avere un costo marginale che non abbiamo voglia e forza per sostenere. Studi sulla riduzione sistematica delle emissioni hanno sempre affermato che un comportamento ecologico delle aziende paga in termini di redditività economica, ma come tutte le strategie austere valgono solo in tempi di “pace”. In base alla Politica Agricola Comunitaria dell’Unione, ad oggi le aziende agricole devono sottostare a dei paletti stringenti circa la rotazione delle colture e limiti rispetto alle superfici destinate alla semina e al pascolo, rientrando nelle cosiddette Efa, le aree di interesse ecologico. In tal senso, la riduzione delle superfici destinate alla coltivazione e alla zootecnia, in virtù dell’obiettivo della riduzione delle emissioni derivanti dalle attività del settore agroalimentare, ci rendono spesso fortemente dipendenti dalle importazioni di materie prime da altri Paesi, alcuni dei quali non sono tenuti a sottostare ai medesimi criteri.
La Conferenza delle Regioni ha infatti richiesto la proroga dell’entrata in vigore del Piano Strategico Nazionale per lo sviluppo del sistema biologico 23-27 almeno al 1° gennaio 2024, giudicando insostenibile per il comparto agricolo il danno economico derivante dalle mancate importazioni conseguenza del conflitto in Ucraina. Si risente, dunque, la necessità di ripensare le politiche di sviluppo sostenibile in chiave di neutralità carbonica, o perlomeno, sarebbe il caso di pensare a come incentivare l’implementazione su larga scala di politiche che guardino all’economicità di questi interventi per l’imprenditoria agricola. La non competitività dei prezzi della produzione nazionale è una insormontabile barriera all’ingresso all’innovazione nel settore agroalimentare, dove i piccoli produttori con metodi tradizionali preferiscono abbandonare i terreni piuttosto che proseguire l’attività, generando inevitabilmente domanda di crescenti volumi di import da altri Paesi.
È possibile conciliare obiettivi di sviluppo sostenibile, sicurezza alimentare e fattori geopolitici dirompenti? La risposta potrebbe essere affermativa nella misura in cui il grado di innovazione e di efficienza raggiunto dal settore agroalimentare, soprattutto negli anelli della filiera che riguardano la produzione, sia tale da poter bilanciare la domanda di beni con gli obiettivi di neutralità carbonica e allocazione delle risorse, come l’acqua potabile, che costituisce il principale elemento di inefficienza del settore primario. A livello globale, infatti, l’agricoltura consuma tra il 70 e il 95% dell’acqua potabile disponibile. La Corte dei conti ritiene che la PAC non tenga di adeguati livelli di efficienza irrigua, tollerando eccessivi sprechi. Sarà dunque essenziale, nei prossimi anni, bilanciare questi elementi, in modo tale da restituire dignità al settore agroalimentare e creare una dimensione di resilienza alle crisi geopolitiche esattamente come si sta tentando di fare con la politica di sicurezza energetica. Nel breve periodo, ci si deve coscientemente arrendere ad un necessario stop delle politiche green e badare al pragmatismo. Nel medio-lungo periodo deve esserci spazio per ripensare il nostro sistema economico e identificare strategie di sviluppo che tengano conto dei nuovi scenari internazionali. Come giustamente sostiene Lanzillo – ed è nella ciclicità degli eventi storici – è bene pensare a come conciliare le necessità di un’economia di guerra, tenendo conto di una interdipendenza con un’economia di pace che non venga danneggiata dai fattori militari, e che sia conciliabile con l’elemento geografico e sociale in una “arte del possibile” realista e non utopica.