Dopo una lunga pausa, David Fincher torna dietro la macchina da presa per filmare un grande affresco della vecchia Hollywood, quella per intenderci dello Studio System – dove attori, registi, autori e maestranze erano semplici dipendenti sotto contratto. Una “nostalgia” che pare essere contagiosa di questi tempi – come, per l’appunto, dimostra anche l’omonima e recentissima serie Hollywood – prodotta proprio da quella stessa internet-tv che è il più esiziale competitor del Cinema, o meglio, dei cinema. Non è certo una sorpresa che Netflix investa in “pellicole da festival” – il Leone d’oro a Roma di Cuarón sta a dimostrarlo – e non è neppure la prima volta che il regista statunitense collabori con l’azienda californiana; anzi in tal senso, è stato un vero e proprio neofita, fungendo letteralmente da apripista quando, nel febbraio del 2013, girò i primi due episodi di House of Cards, contribuendo a sconvolgere per sempre le regole della fruizione dell’entertainment seriale. Sembra passato un secolo da allora, quando bisognava pazientemente attendere l’episodio settimanale, mentre i torbidi intrighi della Casa Bianca erano, invece, immediatamente fruibili nella loro intera prima stagione.
Mank – amichevole riduzione di Herman J. Mankiewicz – narra, in un filologico bianco e nero, la vicenda della travagliata scrittura di Quarto Potere di Orson Welles. Un film radicalmente diverso dal pur ottimo Rko 281. La vera storia di Quarto Potere con Liev Schreiber e John Malkovich. La pellicola si presenta subito come una raffinata matrioska, marchio di fabbrica fincheriano, che fraziona e moltiplica la storia in una miriade di avvenimenti apparentemente divergenti quanto inevitabilmente conflagranti, mentre l’ingombrante carattere del radiofonico enfant prodige viene appena accennato, perché l’attenzione è tutta rivolta verso il brillante alcolizzato sceneggiatore sul viale del tramonto.
Il film manifesta fin da subito il suo aspetto metatestuale, presentandosi come una “sceneggiatura nella sceneggiatura” – con la precisa intestazione di ogni scena in sovraimpressione – ma, anche, nel “sincero” discorso del boss della MGM Louis B. Mayer per chiedere ai dipendenti un cospicuo taglio degli stipendi, salvo poi domandarsi in privato “come sono andato?”; oppure, quando le scene si spostano nei backstage di set pronti all’uso che, però, sono contemporaneamente anche quelli in cui si sta svolgendo l’azione di questo film. Sembra quasi che il regista di Denver voglia rimarcare in ogni inquadratura come Hollywood stessa non sia altro che un’unica grande finzione e anima stessa della giovane Los Angeles, nuova capitale del business frivolo; in antitesi con l’austera e lontana New York.
L’intreccio di Mank si fonda sulla giustapposizione di due archi narrativi – il primo ambientato nel 1940 durante la stesura della sceneggiatura; mentre il secondo è di fatto un lunghissimo flashback che si svolge a inizio anni ’30 -; rimarcato dall’evidente contrapposizione tra l’immobilità forzata del protagonista (interpretato da uno straordinario Gary Oldman) rispetto alla sua frenetica vita di un lustro prima. David Fincher riesce così a mettere in scena sia la “risacca alcolica” dei ruggenti anni ’20 in quella California diventata un miraggio per le masse di disoccupati, in marcia per raggiungere lo “Stato degli aranceti” e del Cinema – unica industria che con l’avvento del sonoro pareva avere ancora slancio durante la Grande Depressione – e, contemporaneamente, l’America che si prepara ad entrare in guerra.
Il film, con un perfetto gioco d’incastri, non si limita certo a raccontare gli screzi tra Mankiewicz e Welles e, tantomeno, a descrivere il suo devastante alcolismo – grande piaga tra gli autori americani del periodo -; ma, anzi, riesce a spiegare la loro unità d’intenti nel volere a ogni costo realizzare un “capolavoro” che sveli al grande pubblico chi è davvero William Randolph Hearst. Come attraverso i suoi giornali il potente magnate dell’editoria metteva alla berlina e ricattava i suoi avversari, influenzando l’opinione pubblica, così Mank e Orson vogliono metterlo a nudo sullo schermo. Una sfida potenzialmente fatale per le loro carriere, che nella vecchia Hollywood erano necessariamente legate a blindatissimi contratti con le cinque major dell’epoca (Warner, MGM, Paramount, Fox e la RKO che, nonostante tutti i tentativi di boicottaggio, produrrà Quarto Potere). Un’offesa irricevibile non solo per Hearst, abituato a essere ritenuto “intoccabile”, ma anche per l’intera élite dei cosiddetti robber baron e i loro intrecci con la politica; come svela la feroce campagna diffamatoria nei cinegiornali, mirata a far perdere le elezioni californiane del ’34 al candidato democratico troppo “socialisteggiante”. La reazione furiosa del miliardario è aggravata in un certo senso dal fatto che lo stesso Mankiewicz a suo tempo era stato un gradito ospite della sua reggia-castello; almeno fino a quando era riuscito a trattenere i suoi strali contro l’immoralità della “casta” ai vertici della California. L’intollerabile “tradimento” della fiducia dell’ospite, che arriva perfino a rivelarne i segreti più intimi della vita – tra cui la celebre parola “rosebud”, che solo pochi intimi sapevano essere il nomignolo con cui Hearst amava chiamare le parti intime della giovane compagna Marion Davis – è il fulcro del film.
Sarebbe, però, forviante scorgere nella decisione di Mankiewicz una “vendetta” per essere stato allontanato dalla “Corte” e, tantomeno, come frutto di una scelta emotiva dettata dalla morte di un caro amico; perché il soggetto che ha in mente parla soprattutto della resistenza della società dei proprietari contro le istanze ridistributive del New Deal, dell’Antitrust e della fiscalità progressiva, che miravano a ridurre le eccessive concentrazioni di Capitale. L’anonimato che l’avrebbe protetto dalla vendetta del magnate diventa intollerabile appena si rende conto di aver scritto l’opera migliore della sua vita. Non importano più le conseguenze e, anzi, in un certo senso Quarto Potere diventa il culmine di un processo di “redenzione” e, soprattutto, la realizzazione di un beruf, fino ad allora inespresso come autore di filmetti per la Warner Brothers.
Mank, quindi, mostrandoci la combattuta genesi del primo lungometraggio di Orson Welles ci racconta anche gli insormontabili ostacoli contro cui un autore si schiantava nel far valere la propria “autorialità” nella vecchia Hollywood e, più generalmente, la scomoda posizione in cui si ritrovano i “creativi” quando, ridotti a meri esecutori, non possono più a esprimere idee proprie ma devono sottostare alle decisioni dei committenti. Singolare allora che, proprio oggi, mentre il Cinema in crisi deve necessariamente affidarsi alle piattaforme streaming per essere distribuito (e guardato), si torni insistentemente a rinvangare lo Studio System. Una sinistra celebrazione; ennesimo segnale dello strapotere dei broadcaster digitali.