Diversi anni fa, in una delle sue proverbiali conferenze stampa, Jean-Luc Godard riferì di come in tenera età i suoi genitori gli rimproverassero di raccontare sempre storie, l’esatto opposto di ciò di cui lo accusavano i critici più ottusi: non raccontare appunto alcuna storia, fare film privi della convenzionale struttura narrativa. Raccontare storie, diceva lo scrittore Bernard Malamud, è un modo per trovare significato della vita. Per il presidente francese Macron sembra proprio il modo invece per trovare significato alla politica:
«Le nostre società postmoderne non sono secolarizzate ma sono uscite da una grande narrazione che era religiosa. Il XX secolo ha conosciuto altre narrazioni, dopo la grande narrazione dell’emancipazione, la grande narrazione dei totalitarismi e collettivamente abbiamo pensato che la fine dei totalitarismi passasse per la fine delle grandi narrazioni».
Le monde diplomatique, marzo 2022
Il presidente francese è molto preso nel suo tentativo di camminare sul fantomatico confine tra modernità e postmodernità. Lui che, già nel 2017, era andato al cuore del problema: «Abbiamo (urgentemente) bisogno di una grande narrazione» (Der Spiegel, 14 ottobre 2017).
Partorito da una certa cultura architettonica d’oltreoceano incline a rivisitare il passato con gusto ironico e popolare in reazione ai dogmi razionalisti, il termine “postmoderno” fece il suo ingresso nel mondo intellettuale negli anni Settanta, fino ad essere sistematizzato come vera e propria “condizione”, come categoria “post-narrativa” a tutti gli effetti, alla fine di quel decennio dal filosofo francese Jean-Francois Lyotard, abile a far tesoro di un saggio di Rorty del 1967 posto a introduzione di The Linguistic turn in cui si prospettava la fine della filosofia in un mondo in cui la comunicazione aveva preso il posto dell’espressione.
Ponendo i “racconti” del Moderno alla base dei dogmatismi e di tutte le derive politiche novecentesche (totalitarismi, guerre e altre varie nefandezze), Lyotard suggeriva un atteggiamento di distacco da termini filosofici iperabusati quali “verità”, “realtà” o “oggettività”, regolarmente “virgolettati”. Nacque da lì un dibattito, molto nostrano, tra pensiero “debole” e pensiero “forte” (in soldoni, relativismo e integralismo, o se si preferisce tra Nietzsche e Parmenide, con Heidegger a funzionare da ambiguo e ingombrante macigno) che ebbe in Gianni Vattimo e Emanuele Severino i testimonial di turno. Era il classico dibattito in bianco e nero, capace di produrre soprattutto fiumi e fiumi di inchiostro (solo quelli sulle pagine di Alfabeta costituirebbero una giungla a sé) dal quale si capì presto che c’era poco o nulla di cui far tesoro, ma che nel complesso – potere della comunicazione – finì per funzionare come alibi culturale a un certo yuppismo rampante, una sorta di incubatore del pop all’italiana oggi tanto in voga, epigono a bassa intensità del camp americano anni Sessanta.
Una specie di livella, non nel senso in cui la intendeva Totò, però. Tutto ha lo stesso valore, tutto può essere interpretato e va trattato nello stesso identico modo. Superata la verticalità dell’arte e della storia in nome di una nuova orizzontalità citazionista, saltata ogni gerarchia culturale, elevati i critici al rango di artisti, secondo la più canonica eterogenesi dei fini la “condizione postmoderna” trascese così di molto la dimensione critica di Lyotard, arrivando acomprendere l’allegra giustificazione del disimpegno: per dirla con Jameson, la filosofia della globalizzazione, capace di fare da sfondo all’epoca della produzione flessibile. Alla fine dei giochi, dall’universo postmodernista arrivarono montagne di equivoci sulle ceneri di una modernità che si voleva superata ma che, ideologie a parte, rimaneva a sua volta indefinita, prigioniera dei mille distinguo e delle mille interpretazioni di cui continua a essere tuttora oggetto. Un po’ come il quintet, il gioco misterioso del film più “notturno” di Robert Altman, quello che tutti praticano ma di cui nessuno conosce le regole.
A circa quarant’anni di distanza dal saggio di Lyotard, viene da chiedersi se sia ancora possibile incasellare la nostra condizione come “postmoderna”. Ora più che mai, segnati come siamo da emergenze economiche, pandemiche, belliche e diplomatiche il cui risultato, tanto per cambiare, non potrà che essere quello di esasperare processi già in atto, tra le difficoltà, gli imbarazzi e le ipocrisie di una classe politica culturalmente disarmata, colpevole di aver clamorosamente sottovalutato il rapporto tra democrazia e diffusione del sapere, alle prese in questi ultimi anni con una “società civile” rivelatasi spesso e volentieri ben poco civile, e incapace di regolamentare i giganti del digitale al punto da ritrovarsi nella spiacevole situazione della famosa rana bollita.
Una volta capito quanto il digital divide abbia contribuito ad aumentare il divario tra ricchi e poveri, tra chi sa e chi non sa, ad accrescere processi di atomizzazione e spaventose moltiplicazioni del sé, l’obiettivo dei governanti non sembra però essere quello di catturare e diffondere il sapere ma contenere e gestire il consenso. Perché a entrare in crisi, con la dittatura degli algoritmi e la logica rudimentale del mi piace-non mi piace, è stata paradossalmente proprio la “sfera pubblica”, ridotta ormai a micronarrazioni consumate a colpi di selfie e di post in un presente che a farsi storia non ci pensa nemmeno. Diversamente da quanto speravano non solo alcuni pionieri americani degli anni Settanta come Stewart Brand, ma anche di tanti irriducibili tecnottimisti come la rivista Wired, che ancora nel maggio 2009 dedicava la sua copertina al “Nuovo socialismo”, internet non ha portato né a una maggiore diffusione di cultura, né alla crescita di una pubblica opinione intesa come riflessione di una comunità politica sopra se stessa che, come ha osservato da Martin Gurri in The Revolt of the Public non esiste più, sostituita da una serie di pubblici tribalizzati e l’un contro l’altro armati.
E se il patto tacito tra aziende bigtech e utenti è app gratis in cambio informazioni di carattere privato, assai più inquietante per il futuro delle nostre democrazie rischia di essere quello in atto tra grandi piattaforme e governi, celebrato con la concentrazione nelle mani di Zuckerberg di Instagram, Facebook e WhatsApp: io ti lascio prosperare e tu in cambio controlli di quella cosa che una volta era definita “maggioranza silenziosa” e che oggi è sempre più maggioranza ma assai meno silenziosa. Una sorta di patto confermato dai documenti divulgati da Snowden nel 2013 che rivelavano la partecipazione delle grandi piattaforme ai programmi di sorveglianza e intelligence statunitensi e che mi pare aiuti anche a capire il perché dell’ostilità mostrata da gran parte dell’informazione nei confronti del neoproprietario di Twitter Elon Musk, il grande appassionato di Tolkien che ha subito denunciato la predilezione del social media più politico tra quelli in circolazione a mostrare i post più popolari rispetto a quelli più recenti a favore di una narrazione dominante, denotando così una “irregolarità” giudicata da molti politicamente inaffidabile.
Nasce da qui l’auspicio insistente di nuove “grandi narrazioni” espresso a più riprese da Macron; il quale Macron, Ricoeur o non Ricoeur, è laureato in filosofia e dopo aver sconfitto la Le Pen, nonostante i tre milioni di voti in più da lei presi rispetto al 2017, si è imposto come il front man più autorevole del pensiero liberal del mondo occidentale e assurto automaticamente – un po’ come il Prodi vincitore illo tempore di Berlusconi – a fin troppo facile modello di tanti politici “progressisti” nostrani, in una variegata gamma che va dal re autodetronizzato dello story telling Renzi all’ex filo gilet gialli Di Maio, fedelissimi seguaci ora del premier Draghi. E’ un Macron che, prima e più di altri, ha compreso che il problema per le democrazie occidentali è quello reperire criteri di giudizio e di legittimazione che abbiano valore locale e insieme universale; un Macron lucidamente “postmoderno”, consapevole dell’irreversibilità del processo culturale, dell’affermarsi di una molteplicità di linguaggi tra loro incommensurabili, di quanto la frantumazione delle metanarrazioni abbia moltiplicato pluralità e forme di un sapere che non riesce più a presentarsi come punto di vista universale del mondo.
Ma è allo stesso tempo un Macron “moderno” che, a differenza di Rorty e Lyotard, rimpiange l’unità e la totalità perdute, nostalgico di quella grande narrazione novecentesca che aveva dato forma a una modernità monumento inattaccabile del progresso, restio come molti governi europei a misurarsi con tutto ciò che è molteplice, frammentato e instabile, fortemente motivato a offrire un’interpretazione del passato in grado di dar senso all’avvenire, giacché “moderne” sono solo le società che ancorano i discorsi di verità e giustizia su meta-narrazioni onnicomprensive (culturali, storiche, scientifiche) comprendenti in un unico quadro di riferimento l’intera storia umana; un Macron che, di fronte alla crescita diffusa dei processi di atomizzazione, a una spaventosa moltiplicazione del sé, è pronto squalificare come “reazionario”, “populista”, “sovranista” o “euroscettico” chiunque provi a contestare una narrazione liberal-progressista capace di annullare le differenze tra verità storica e seduzione retorica. Un terreno sul quale sembra essersi sintonizzato il segretario del Pd Letta col suo programma per “un nuovo ordine europeo”, proteso ora verso una Confederazione che funzioni come sorta di anello ancora più largo che tenga insieme i 27 paesi membri dell’Ue con quelli candidati. Partendo da presupposti critici postmoderni le democrazie europee sembrano puntare così a instaurare una normalizzazione “moderna”.
Che tale modernità, rompicapo per ogni pensatore degno di questo nome, di cui perfino il cardinal Ruini individuò qualche anno fa l’ineffabilità (“esistono molte modernità”, le sue parole), non possa prescindere dal web, è comunque fuori discussione. Da lì non può non passare il futuro delle nostre democrazie, da lì passa inevitabilmente la prospettiva macroniana, illustrata nel novembre del 2018 a un forum dell’ONU a Parigi sulla governance di internet. Una prospettiva “centrista” intenzionata a prendere le distanze sia dalla visione libertaria californiana, i cui protagonisti sono attori forti che rifiutano ogni controllo statale, che da quella “cinese”, interamente sorvegliata da uno stato autoritario. La soluzione delineata dal presidente francese è la canonica terza via, che in questo caso prende in causa attori privati, giornalisti, governi e la solita, immancabile, società civile.
Intendimento lodevole e mosso da una giusta preoccupazione per la perdita di centralizzazione nell’organizzazione dello Stato, ma pur sempre avvolto in una prospettiva prigioniera di quell’assolutismo miracoloso da terra promessa (il digitale come strumento di civilizzazione del mondo) proprio della Silicon Valley, sbandierato a suo tempo a più non posso dal Renzi obamiano. Un pensiero – una narrazione, per l’appunto – che sembra tenere sostanzialmente in ostaggio una politica mai parsa così prossima a soffocare nella logica dei miliardi e dell’algoritmo; un’idea alla quale sembra guardare senza timore perfino Sabino Cassese, persuaso che innesti come quello “tecnocratico” giovino alla democrazia (Sullo stato della democrazia, Il foglio, 24 maggio 2022).
Ciò che stupisce, nel complesso, tra tanti convinti sbandieratori della Democrazia con d maiuscola, è la rimozione “democratica” proprio di quel concetto sul quale il liberalismo è fiorito, ovvero il pluralismo. Le ragioni del consenso unite allo strapotere economico e a un preoccupante, irreversibile deficit culturale, impediscono alle nostre classi dirigenti di capire che i problemi sociali non sono nati col web e che nessun web potrà mai sanarli. Detto altrimenti, che i problemi del web che tanti scandali e clamori possono creare (valga per tutti Trump e l’assalto al Capitol) sono fuori del web. Non scordiamoci mai che la fake news più gravida di conseguenze e all’origine di una guerra che non ha esportato alcuna democrazia e ha fatto crescere il terrorismo è nata non sui social ma su un giornale come il New York Times (che poi almeno si è scusato, a differenza di tutti gli altri che lo avevano seguito come pecore). Il web ottunde, amplifica, nasconde o ingigantisce, magari, ma non sana, né tanto meno redime. Solo una politica arrendevole e ignorante può credere o far finta di credere che concetti come legittimità, stabilità, possano essere governati attraverso le piattaforme digitali.
Non è di nuove mitologie, di metanarrazioni idealistiche, che abbiamo bisogno, ma di una reale democratizzazione della cultura, di una politica che sappia fare la politica, che pensi alla democrazia come qualcosa dato per sempre, come il famoso diamante, ma come un bene da custodire e coltivare, inscindibile da una conoscenza che non può essere demandata al circuito dei social. Una politica che provi a dare risposta alla domanda: quali prospettiva ha la democrazia in una società che sotto i colpi di una concentrazione progressiva delle ricchezze ha perso l’idea originaria di comunità? Una politica che sappia andare oltre la quantomai generica «fiducia nelle istituzioni democratiche» ancora perorata nel suo ultimo libro (The liberalism and his Discontents) da un Fukuyama che del liberalismo ha dimostrato sempre di avere un concetto non solo idealistico, ma anche profondamente distorto, se è vero che attribuiva il successo del Giappone al suo liberismo economico senza capire che il modello nipponico era in realtà quello statalista di Hamilton, fondatore, nel primo Ottocento, del sistema bancario americano. La politica non può ridursi a trasformarsi in uno show degno di Oprah Winfrey, per la quale «è tutta una questione di immaginario». Senza una vera cultura della politica, la democrazia sarà sempre una creatura dalla vita tormentata. Per recuperarla non basta certo, come fanno Fukuyama, Cassese e soci, demonizzare tutti gli Orban, le Le Pen e i Bolsonaro del mondo…