OGGETTO: Machiavelli, un fiorentino
DATA: 06 Giugno 2022
SEZIONE: Ritratti
FORMATO: Copertine
Da due secoli il Segretario fiorentino viene erroneamente sbandierato come padre spirituale dello stato italiano,
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La cattiva esegesi del pensiero di Machiavelli si può far risalire a Rousseau, che definì il Principe un libello che aveva l’obiettivo di mettere in rilievo le nefandezze del tiranno assoluto e i suoi meccanismi di conquista e controllo del potere. Questa concezione travalicò le Alpi e venne ripresa di pari passo da Vittorio Alfieri nel Del principe e delle lettere. Nella nota a corredo del penultimo capitolo, intitolato Esortazione a liberar la Italia dai barbari, ripresa dall’ultimo capitolo del Principe, lo scrittore astigiano scriveva:

«Così intitolò il divino Machiavello il suo ultimo capitolo del Principe: e non per alto si è qui ripetuto, se non per mostrare che in diversi modi si può ottenere lo stesso effetto».

Dopo la Rivoluzione francese Machiavelli diventò un profeta dello Stato-nazione, soprattutto per quei giacobini italiani che volevano fondare lo Stato-nazione Italia. «Un pensatore della massa e della patria», come scrisse lo storico Federico Chabod, e precursore dell’unità d’Italia, soprattutto per quella élite di intellettuali del triennio rivoluzionario (1796-1799) e durante la Repubblica Cisalpina. Il Segretario fiorentino era di fatto assurto a vero e proprio emblema del genus italicum. È emblematico il celebre passo dei Sepolcri di Foscolo:

«…Io quando il monumento

vidi ove posa il corpo di quel grande (Machiavelli)

che, temprando lo scettro a’ regnatori,

gli allor ne sfronda, ed alle genti svela

di che lagrime grondi e di che sangue..»

Anche nella Napoli borbonica, dove si voleva fare rivoluzione giacobina, Machiavelli divenne un esempio di fermezza morale. Vincenzo Cuoco, nei Frammenti di storia della politica italiana, raffigurò Machiavelli come un demiurgo della coscienza patriottica dello stato unitario italiano, ancora in fieri: 

«…Osserva la corruzione d’ popli che divisi si poterono fradici prima di essere maturi, la decadenza di ogni virtù civile, di ogni arte, di ogni valor militare, i piccoli vizi della viltà più distruttivi di quella ferocia».

Questa lettura del Machiavelli come teorico della nazione sarà percorsa niente meno che da Hegel. Nelle Lezioni di Storia della filosofia presentò il Principe come un libello teorico per la formazione di uno Stato nel contesto politico dell’Italia del primo Cinquecento:

«Spesso si è rigettato con orrore questo libro, perché ridicolo delle massime della tirannia crudele; tuttavia, inedito nel senso elevato della formazione necessaria dello Stato, Machiavelli ha esposto i principi in base ai quali era giocoforza, in quelle circostanze, formare gli Stati».

Solamente nel 1848, quando la lotta per l’indipendenza italiana raggiunse il suo massimo acume, l’interpretazione del Machiavelli repubblicano e patriota raggiunse i livelli più alti. Il patriota “clericale” Gioberti, che non perdonò a Machiavelli di preferire la religione papagna come conduttrice di valori patri rispetto a quella cristiana, elogiò il segretario fiorentino paragonandolo al Galilei della politica che aveva prefigurato l’unità italiana. Ma gli elogi per Machiavelli non terminarono con Gioberti; Mazzini arrivò a metterlo addirittura nel pantheon dei profeti dell’Italia insieme a Dante e Petrarca, arrivando a definirlo come il fondatore morale del Partito d’Azione.

Ma a dare a Machiavelli lo scettro di padre dell’unità italiana fu senza ombra di dubbio Francesco De Sanctis. Nel suo famosissimo capitolo della Storia della Letteratura italiana, dedicato a Machiavelli, vergato a Roma nel momento in cui i bersaglieri capitanati da Cadorna stavano entrando a Porta Pia il 20 settembre del 1870, così scriveva:

«In questo momento che scrivo, le campane suonano a distesa, e ammiriamo l’entrata degli italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida all’unità d’Italia. sia gloria al Machiavelli».

Solamente con gli studi di Pasquale Villari la teoria della letteratura risorgimentale su Machiavelli come fondatore del nuovo Stato venne messa in discussione. Per lo storico, la morale in Machiavelli era completamente assente. Politica e uomo erano separati. Analisi teoretica che sarà l’anticipatrice della visione crociana sul segretario fiorentino: 

«…Se nell’azione politica l’uomo non scompare del tutto, non potrà mai scomparire del tutto il carattere, il valore morale di essa».

P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi, vol. I

Fu proprio Benedetto Croce, nel saggio Elementi di Politica, che diede la sua sentenza sul pensiero politico di Machiavelli, definendolo come l’inventore della moderna teoria politica, che separava la morale della coscienza politica:

«Ed è risaputo che il Machiavelli scopre la necessità e l’autonomia della politica che è do là, o piuttosto di qua, dal bene  e dal male morale, che alle sue leggi a cui è vano ribellarsi , che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta».

La banalizzazione del pensiero del fiorentino proseguì ineluttabile anche con il controllo della cultura sotto il ventennio fascista. Mussolini in persona scrisse ben due articoli su Machiavelli: il primo, intitolato Forza e consenso, dove veniva data una lettura del Principe utilizzando il classico stereotipo di Machiavelli del fine che giustifica i mezzi. La libertà politica doveva essere solamente il mezzo per arrivare al fine ultimo della formazione del nuovo stato fascista:

«La libertà non un fine, è un mezzo, e come mezzo deve essere controllato e deviato. Qui cade il discorso della “forma”. I signori liberali sono pregnanti di discese nella storia vi fu guerra che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e rinunciava qualsiasi impegno nella forza».

Il secondo, intitolato Preludio al Machiavelli, riprendeva il capitolo XVII del Principe, e teorizzava che, di fronte alla natura immutabile degli uomini, il creatore del nuovo Stato era autorizzato a eseguire qualsiasi forma di violenza per sradicare ogni illegalità morale che potesse mettere a repentaglio la sussistenza del nuovo Stato:

«Mentre gli individui tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atomismo sociale, lo Stato rappresenta un’organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a erodere continuamente. Tende a disobbedire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro, eroi o santi, che sacrificano il proprio sull’altare dello stato».

Oltre a Mussolini, anche Gramsci prese a modello il Principe come modello per teorizzare la creazione di un nuovo partito. Secondo Angelo D’Orsi, Machiavelli fu per Gramsci un autore fondamentale durante il periodo passato in carcere, più di Croce o, addirittura, di Marx:

«…Una trattazione sistematica, ma un libro vivente, in cui l’ideologia politica e la scienza politica si fondano nella forma drammatica del mito».

A. Gramsci, Noterelle sul Machiavelli-Quaderni dal carcere nr. 13

Seppure nel secondo dopoguerra si è sviluppata in Italia un’equipe di studiosi impegnati ad allestire alcune edizioni delle opere del Segretario il più adattabili possibile che focalizzassero le loro analisi sul pensiero politico-filosofico nel contesto sociale e storico. Ma anche in questo contesto emersero divisioni profonde sul delineare Machiavelli come personaggio intellettuale. Il filologo Mario Martelli, curatore dell’Edizione nazionale delle opere di Machiavelli, si rese conto che più si cercava di fare un’opera critica di Machiavelli più si creavano divergenze tra gli studiosi stessi, che andavano dall’esegesi delle opere alla biografia stessa del Segretario:

«Su niente c’è accordo: non nulla cronologia e sulla storia redazionale del Principe, non sulla storia redazionale e sulla cronologia dei Discorsi..non c’è accordo, soprattutto e per tutto questo, sulla identificazione stessa del personaggio Machiavelli. Per alcuni un filosofo, per altri un umanista, per questi un letterato, per quelli un teorico delle dottrine politiche; ma per colui che parla un uomo…».

M. Martelli, Machiavelli e Firenze dalla Repubblica al principato

Ad oggi, il Machiavelli personaggio storico e pensatore è assurto, ancora, o a teorico dell’ordinatore d’inganni e di frodi, vedere il famoso saggio di Leo Strauss Thoughts Machiavelli,  che ha definito il Segretario come il genio del male; oppure ad essere il profeta della patria italiana, come da tempo non smette di sottolinearlo in tutti i suoi saggi Maurizio Viroli:

«Il Principe si chiude con l’innovazione di un redentore che liberi l’Italia dai barbari e la sollevi a nuova vita».

M. Viroli, 1513, Machiavelli, il carcere e il Principe

Sulla stessa linea della definizione che ne dà Viroli si possono collocare, in ordine cronologico, gli ultimi due saggi sulla biografia intellettuale di Machiavelli, quello di Michele Ciliberto, Machiavelli. Ragione e Pazzia, e quello di Alberto Asor Rosa, Machiavelli e l’Italia, resoconto di una disfatta, entrambi pubblicati nel 2019 in occasione dei centocinquant’anni di Machiavelli. In maniera molto sintetica, si può affermare che entrambi i lavori vogliono attualizzare il contesto politico e culturale di inizio Cinquecento:

«Un mondo intero si sta disgregando , come ai  tempi di Machiavelli e Guicciardini , e neppure noi sappiamo dove andiamo . Ma questo non significa che si debba accettare ciò che accade o rassegnarsi all’esistente».

M. Ciliberto, Niccolò Machiavelli. Ragione e pazzia

Asor Rosa colloca Machiavelli in una linea meta-letteraria che parte da Dante e Petrarca, riprendendo la linea di De Sanctis, come fondatrice di una stirpe culturale che ha il fine ultimo di creare uno Stato. Già dal titolo, Machiavelli e l’Italia, in cui la congiunzione coordinante e mette allo stesso livello logico i due sostantivi Machiavelli e l’Italia, il risultato è che, ancora oggi, nell’immaginario collettivo comune, Machiavelli è interpretato come il proto-fondatore del concetto di nazione italiana.

Si può tranquillamente congetturare che la causa di questa continua ed errata interpretazione esegetica sia dovuta all’ultimo capitolo del Principe: L’Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam, in cui la proposizione incriminata Ad Capessendam Italiam è ripresa dal IV libro dell’Eneide:

«Sed nunc/ italiam magnam grynaeus Apollo/ Italiam lyciae iussere capessere sortes/ Hic amor, hic patria est».

Da ciò si può sostenere che Machiavelli, richiamandosi a Virgilio, intendeva semplicemente sottolineare la forza intellettuale e militare del Principe come un uomo nuovo, per qualità intellettuali e militari, che in quella data contingenza storica, e parliamo probabilmente del biennio 1513-1514, avrebbe dovuto saper prendere in mano le redini di un lega militare composta da molteplici staterelli italiani per opporsi alle truppe imperiali che, ormai de facto, detenevano l’egemonia militare nella nella penisola italiana.

Ma per dare ancora più valore a questa linea interpretativa bisogna contestualizzare il periodo storico, politico e culturale in Italia del primo Cinquecento, ed inserirci Machiavelli stesso. Ad esempio, la concezione semantica del termine patria in Machiavelli serviva a individuare l’entità geografica di uno Stato, i confini politici della città alla quale apparteneva un cittadino, che può essere riconducibile al concetto che si ha oggi di nazione. Per Machiavelli lo Stato equivaleva a Firenze e al suo contado. Questo termine lo si può estrapolare da un passo delle Istorie fiorentine, unica opera storica del Segretario nella quale descrive l’accoglienza dei fiorentini riservata a Cosimo Dei Medici in occasione del suo ritorno a Firenze dopo l’esilio:

«Cosimo, dall’altra parte, avendo notizia della sua restituzione tornò in Firenze, e rade volse occorse che un cittadino, trovato trionfante da una vittoria, fusse ricevuto dalla sua patria con tanto concorso di popolo e con tanta dimostrazione di benevolenza».

N. Machiavelli, Istorie fiorentine

Sullo stesso tono è  la famosa lettera che Machiavelli scrisse a Guicciardini nel 1527, quando si trovava a Forlì, incaricato dalla Repubblica di Firenze di organizzare una coalizione per la difesa di Firenze contro i Lanzichenecchi, che di lì a qualche giorno avrebbero compiuto il Sacco di Roma:

«Costoro regno costa senza artiglierie, in un paese difficile, in modo che, se noi quella poca vita che ci resta raccogliessimo con le forze della Lega che sono in punto, o eglino si partiano di cotesta provincia convenga, o è si ridussero a termini più ragionevoli. Io amo messer Francesco Guicciardini , amo la patria più dell’anima».

Machiavelli a Guicciardini, 16 aprile 1527

Anche il sostantivo Italia era considerato puramente un’espressione geografica, lontanissimo dal  concetto metastorico di una comunità linguistica, culturale e di razza. Un esempio è il passo, sempre nelle Istorie fiorentine, in cui il Segretario descrive la pessima gestione politica e militare degli stati italiani, e in modo particolare del papato, da parte dei vari principi durante il 1494, anno dell’invasione delle truppe francesi in Italia:

«Pertanto nel descrivere le cose seguite da questi tempi ei nostri, non si dimostrerà più la rovina dell’impero , che è tutto in terra , ma l’argumento dei pontefici , e di quelli altri principati che di poi l’Italia infino alla venuta di Carlo VIII governano».

N.Machiavelli, Istorie Fiorentine

Machiavelli, uomo scaltro, radicato nel suo tempo, sapeva cogliere la realtà effettuale del contesto. Certamente fu un patriota, ma un patriota fiorentino, non un profeta della nazione italiana.

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