L’analisi dell’opera principe di Augè non può non partire da una riflessione sulla sua struttura: un libricino dalla consistenza di una lunga lettera -centodieci pagine nell’edizione italiana, più o meno quante Il rituale del serpente-, che condensa una riflessione a tutto tondo intorno al concetto di luogo. È diviso in tre parti, ognuna delle quali è una tappa evolutiva del ragionamento di Augè: la prima parte (Il Vicino e l’Altrove) – di cui abbiamo parlato qualche settimana fa – risulta essere una composizione in cui si ragione sul concetto di prossimità e sul rapporto che l’individuo ha con la sua stessa identità – in relazione cioè al suo essere socialmente e localmente connotato. Nella pagina dedicata alla scarna bibliografia di Nonluoghi risalta Michel de Certeau, vero e proprio arbiter sociologico del nostro tempo. Ed è al poliedrico gesuita, e al suo L’invenzione del quotidiano, che Augè si ispira nella sua analisi dell’individuo: se studiare una società significa analizzare le traiettorie dell’individuo tipico bisogna soffermarsi necessariamente ad analizzare le tattiche che questo esercita nella sua quotidianità, per vivere la sua rete ed abitare i suoi spazi.
La seconda parte (Il luogo antropologico) inizia dall’analisi complementare: ora che abbiamo analizzato l’individuo – e come le sue traiettorie si siano evolute per fronteggiare le sfide della surmodernità – ora bisogna analizzare con attenzione i luoghi in cui queste traiettorie vedono la luce, quei luoghi che, come scrive Pierre Nora, costituiscono un accumulo di memorie in grado di «[…]decifrare ciò che noi siamo in base a cosa non siamo più[…]». Augè inizia questa seconda parte evidenziando come gli antropologi si interroghino a lungo proprio sul concetto di luogo. È costitutivo della disciplina, scrive Augè, postulare un luogo indigeno ben definito e abitato dalla cultura altra, che vale da solido aiuto analitico:
«L’etnologo […] si vanta di poter decrittare attraverso l’organizzazione del luogo […] un ordine così vincolante, e comunque evidente, che la sua trascrizione nello spazio si presenta come una seconda natura. L’etnologo si vede come il più attento e il più sapiente degli indigeni».
In questo senso, riferisce ancora Augè, l’etnologo inventa uno spazio (una semi-illusione per usare le sue parole), ma anche gli autoctoni, gli abitanti di quello spazio lo hanno, in un certo senso, inventato. Utilizzando l’esempio degli Alladiani, popolazione da lui studiata in gioventù, Augè riferisce tracce delll’interconnessione luogo-identità anche nella dimensione rituale:
«Non si potrebbe dire con maggiore chiarezza che l’identità del gruppo etnico […] passa attraverso un costante riesame del buono stato delle proprie frontiere interne ed esterne, che significativamente sono, o sono state, ridette, ribadite, riaffermate in ogni occasione […]».
Due parole su Balandier e alla teoria delle due dinamiche. Per Augè è evidente agli stessi studiosi come lo sguardo esterno dell’antropologo (viziato da un pregiudizio sistemico nell’analisi dei fatti sociali) essenzializzi il complesso sociale studiato, ed è per questo che parla di semi-illusione. Allo stesso modo gli autoctoni, pur considerando le proprie frontiere come sacre ed invalicabili, e il proprio luogo come inscindibile da sé, non possono ignorare l’esistenza dello spazio altro, ed in questo senso non si possono ignorare le dinamiche esterne. Essendo chiaramente imperfetta l’equivalenza tra luogo/identità e immutabilità, ma altrettanto chiaramente funzionale socialmente, Augè scrive che gli individui devono pensare e simbolizzare la propria appartenenza in termini, apparentemente ossimorici, di identità e di relazione:
«Il modo di trattare lo spazio è uno dei mezzi di questa operazione.»
Ciò comporta fatalmente alla costruzione di una simbologia spaziale:
«Riserveremo l’espressione luogo antropologico a questa costruzione concreta e simbolica dello spazio.»
Il luogo antropologico, che è «[…]simultaneamente principio di senso per chi lo abita e principio di intellegibilità per chi lo osserva», detiene tre caratteristiche: identità, relazione e storia. Le due dimensioni di identità e di relazione sono osservabili perché, nel momento stesso in cui definiscono un individuo lo collocano in un gruppo afferente al luogo –si pensi ad una comitiva di amici che frequenta un quartiere: ognuno di loro è sia individualmente che relativamente legato e connotato dal quartiere stesso. La dimensione storica, infine, si evidenzia nella trasmissibilità di forme specifiche –sagre, eventi- e nel peso della nostalgia degli abitanti. Grazie a questo terzo punto si mostra tutta la raffinatezza della proposta di Augè: il luogo antropologico non è il luogo in sé, ma è l’autorappresentazione del luogo nella mente di chi lo vive. Nonluoghi non è solo una riflessione sulla confusione dell’uomo occidentale moderno, o sullo spazio, ma è una delle prime e più complete opere intorno all’abitabilità del nostro tempo, un tentativo di dare voce a quel senso di spaesamento – e insieme di confortevole tranquillità – che si prova nei confronti dei grandi spazi contemporanei.
La terza parte è infatti dedicata alla presentazione dei nonluoghi (Dai luoghi ai non luoghi) iniziando da una definizione in negativo: il nonluogo è non-identitario, non-relazionale e astorico. Non è definito da forme di affettività, ma da una complessa funzionalità che ne astrae gli utenti: «Se i luoghi antropologici creano un sociale organico, i nonluoghi creano una contrattualità solitaria», scrive Augè. L’individuo si rapporta con una serie di informazioni asettiche – gira a destra, vietato fumare – e di ideogrammi codificati – cartelli stradali – senza conoscerne gli enunciatori. Si potrebbe osservare che gli individui che vengono abituati a performare secondo le disposizioni prive di enunciatario, non faranno fatica ad uniformarsi all’obbedienza, ma probabilmente non era questo l’intento di Augè. L’individuo:
«Assalito dalle immagini diffuse in sovrabbondanza dalle istituzioni legate al commercio, ai trasporti, alle vendite […] sperimenta simultaneamente il presente perpetuo e l’incontro col sé».
Si può notare in conclusione come il testo di Augè – preso nel suo complesso – parta dalla presupposta urgenza di raccontare una trasformazione radicale, un nuovo modo di vivere che avrebbe, negli anni a lui posteriori, prese decisamente il sopravvento. Ma Augè sembra avere più di un intento in mente: da un lato, infatti, cerca di guardare il suo orticello – vale a dire che si interroga su questioni metodologiche relative alla sua disciplina con l’avvento del nonluogo. C’è tuttavia un’altra parte dell’opera, che è quella più innovativa e raffinata, da cui si trae un ritratto a tinte fosche dell’individuo contemporaneo. Una sorta di prigioniero nell’eterno presente, costretto a barattare la sua identità per l’accesso a servizi anonimi e rigorosamente individuali, in grandi costrutti artificiali anonimi e freddi.
Noi, vivi, trent’anni dopo Augè potremmo correggere quest’ultima parte, asserendo che ormai l’uomo occidentale ha preso possesso dei nonluoghi, che è possibile affezionarvici, umanizzarli, viverli – si pensi alle forme di lavoratori, con tutte le loro tattiche, che affollano un aeroporto – persino idealizzarli – si pensi al film The Terminal. Di più, potremmo dire che ormai esiste persino un’estetica dei nonluoghi – il cosidetto liminal space – decisamente seguita. Si potrebbe notare che internet è ormai il perfetto nonluogo: contrattualità solitaria, astrazione dell’enunciatario del messaggio, rinegoziazione dell’identità del fruitore, e che, al suo interno, i social network creano orizzonti di attesa di puro consumo estetico decisamente maggiori rispetto a quanto facevano i messaggi pubblicitari in un aeroporto francese di fine anni Novanta. Ma si tratta di postille ovvie e palesi che non fanno altro che corroborare ciò che di buono viene dalle riflessioni di Augè.