Il caos post-moderno sta ammettendo la progressiva connessione tra le rivolte e le istanze di trasformazione totale della società. Nell’apparente contraddizione di una alleanza tra terzo-mondismo, post-colonialismo e manifestazioni progressiste, si incunea uno spazio di riflessione sul senso stesso della rivoluzione e delle rivoluzioni. Nei Commentari sulla società dello spettacolo, Guy Debord aveva delineato come, dal collasso e dalla fusione tra i sistemi politici e spettacolari del blocco sovietico e di quello euro-atlantico, si sia realizzata la perfezione fragile dello spettacolare integrato:
«È la prima volta nell’Europa contemporanea che nessun partito o frammento di partito tenta più anche solo di affermare che cercherà di cambiare qualcosa di importante. La merce non può più essere criticata da nessuno.»
Sbarazzandoci dell’inquietante concezione secondo la quale una società possa essere criticabile e trasformabile, riformata o rivoluzionata, non vediamo altro che increspature di un oceano in subbuglio; eppure una violenza purissima sembra ribollire nelle viscere di tale oceano e si offre come unica soluzione possibile. Difficilmente inquadrabile, la società liquida non è in grado di costruire nuove connessioni sul collasso delle precedenti, ma aspira alla distruzione totale. L’Occidente odia sé stesso, come un anziano pieno di rimorsi. Si contorce. Detesta un passato di cui si è reso consapevole protagonista, sulla cui onda lunga continua a farsi oppressore. Un mondo contro, che nei BRICS, nel Terzo Mondo, in Pechino e Mosca trova i propri fulcri imprescindibili, lavora per spartirsi la carcassa. Zeno Goggi ha parlato, dalle colonne di Domino di “impasse ontologica”, descrivendo una società in piena nevrosi, incapace di rinunciare al surplus di potenza economica e materiale accumulata nei secoli, stritolata dal senso di colpa che emerge costante nei suoi discorsi.
Connesso ad un più generale movimento di destabilizzazione “dall’interno” dell’Occidente, sono le legittime istanze anti-imperialiste, connesse con il desiderio di recidere i legami con il passato. Lo sono, ancora, le battaglie contemporaneamente anti-tradizionaliste ed anti-capitaliste, nella speranza di una assunzione da parte delle classi dirigenti euro-occidentali delle proprie responsabilità per i crimini presenti e passati connessi al proprio status di potenza, in simbiosi con la rivolta ambientalista dai toni estremisti di Ultima generazione. Si auspica un sovvertimento totale: pena la morte.
Nel V secolo, accolti talvolta come liberatori, i barbari si insinuarono nel cadavere in avanzato stato di decomposizione dell’Impero romano d’Occidente; un mondo in cui nessuno, specialmente nelle province, sarebbe morto volentieri. Piuttosto, il sacco di Roma fu salutato come naturale tramonto della città degli uomini, dei mortali, dei peccatori. La città del Dio cristiano, di agostiniana memoria, sarebbe sopravvissuta, senza troppi rimpianti, alla Roma pagana in fiamme.
Dell’Occidente, anche oggi, nessuno vuol preservare nulla, se non l’utopia progressista, la liberazione dell’uomo, la fine dell’oppressione in quanto tale. Eppure, nella visione lineare di un futuro di emancipazione, sussiste solamente la connessione necessaria tra l’escatologia cristiana, il progressismo illuminista e la risoluzione dei problemi dell’umanità in forza di maggiori diritti e dell’avanzamento tecnico. Scrisse Michelstaedter nel Discorso al popolo:
«Sarà il mondo dove regnerà l’uomo, l’uomo del lavoro, l’uomo sano nel corpo e nella mente, l’uomo che non avrà bisogno di leggi ingiuste, e perché ingiuste complicate, per esser sicuro del suo fratello, non di milizie e d’armi faticosamente congegnate per esser sicuro dai suoi nemici: ma la sua fede, il lavoro comune e la compagni stretta dall’amore fraterno.»
La distruzione totale è una fiamma inarrestabile, ma sta bruciando un cadavere. L’auspicio di Michelstaedter resta titanico. La rivoluzione totale libererebbe dalle fatiche del lento tramonto le residue forze materiche e spirituali del gigante. Tuttavia, allo sciopero totale soreliano o alla rivoluzione mondiale socialista, per arrivare al tentativo di compattare in un unico fronte le diverse istanze liberatorie globali, si oppone il progressivo svuotamento, la frammentazione e infine la liquidazione delle stesse rivolte. La distruzione totale richiede legami che non esistono più. Il mondo post-moderno è mondo di connessioni e di immagini. Di spettacolo e di passiva ricezione. Le piazze possono riempirsi e svuotarsi. Una rivolta può nascere, diventare travolgente e spegnersi nell’etereo universo della rete. Oppure, può essere semplicemente ignorata: la società dello spettacolo può decidere chi far sparire. Può capitalizzare gli elementi utili al sistema, ignorando gli altri. Sacerdoti dello spettacolo, anche nostrani – dai Maneskin alla Ferragni – possono indignarsi per l’aggressione russa all’Ucraina, per tacere dei crimini di guerra sionisti. Amazon può produrre pubblicità inclusive e rendersi protagonista della più imponente manifestazione moderna dello sfruttamento indiscriminato dell’uomo sull’uomo. La società dello spettacolo può rendere un problema atavico un fatto irrilevante di cronaca nera o ridurlo a macchietta commercializzabile. Può trasformare un aggressore in aggredito. Il resto diviene magicamente disinformazione, non conforme alla narrazione e al racconto da demenza senile dell’Occidente in stato terminale. Così in Debord:
«Ciò di cui lo spettacolo può smettere di parlare per tre giorni è uguale a ciò che non esiste. Perché allora parla di qualcos’altro e quindi è quella la cosa che, a partire da quel momento, in definitiva esiste. Appare chiaro che le conseguenze pratiche sono immense.»
In un simile mondo, in cui l’unica coerenza possibile è divenuta il paradosso – citando Santo Mazzarino – il collasso non è soltanto prevedibile, ma è anche sinceramente auspicabile. Le condizioni attuali preparano però una ulteriore via di fuga e di coerente sopravvivenza: quella dell’isolamento. Distruzione e allontanamento volontario si ritrovano coagulate nel personaggio complesso di Tito, protagonista della trilogia di Gormenghast di Mervyn Peake.
Il castello di Gormenghast è una signoria in disfacimento, nei cui decomposti corridoi e nelle cui stanze labirintiche si muovono come automi gli esponenti dinoccolati di una tradizione secolare. Riti collettivi ed individuali si susseguono, ormai vuoti di significato. Il giovane conte prova ribrezzo per le oppressive mura di Gormenghast: reclama una libertà che è di là dall’orizzonte, che è lontano dalla madre gigantesca e dalle deformità umane del castello.
Il fuoco ha già decimato il patrimonio librario di Gormenghast, la biblioteca del padre, poi impazzito; le acque travolgeranno lo scheletro vuoto. Ecco che la distruzione integrale trascina tutto con sè, ma lascia intatta la struttura: d’altra parte nessun barbaro ebbe bisogno di uccidere una Roma già morta dall’interno e furono scambiate le convulsioni per segni di una vitalità inesistente:
«La prua della nave emerge un’ultima volta prima di inabissarsi nelle acque placide, al tramonto.»
Scrive Di Dario. Alla distruzione si potrebbe preferire così l’altra soluzione. Tito fugge lontano. Verso luoghi distopici. Diviene un Unico alla Stirner. Un anarca, lontano da ogni sistema, in grado di essere esso stesso la fonte della propria indistruttibile libertà, al di là del bene e del male; la libertà pretende di fondersi con la mistica del fuggiasco e dell’eremita. Sopravvissuti al tramonto della civiltà romana, devoti a Dio e ad un Bene superiore, monaci ed eremiti sono l’emblema di ciò che potrebbe diventare una sopravvivenza davvero umana all’estremo sviluppo di un Occidente sorto dalle ceneri della classicità e divenuto civiltà globale. Profetiche sono tuttavia le parole della madre del giovane conte, dinanzi alla sua fuga. Si finisce per girare a vuoto in cerca di un senso perduto e si finisce per ritrovarsi sempre nello stesso mare in tempesta, pronti per esserne inghiottiti:
«Non esiste un altrove. Non farai che girare in tondo, Tito de’ Lamenti. Non esiste strada, non esiste sentiero che alla fine non ti riporterà a casa. Tutto conduce a Gormenghast.»