Luigi Di Gregorio, politologo e studioso dei processi comunicativi, ma anche consulente politico e stratega delle principali campagne elettorali del centrodestra dal 2006 a oggi. Con “War Room. Attori, strutture e processi della politica in campagna permanente” (Rubbettino, 2024) apre una finestra sulle strategie che guidano le campagne elettorali moderne, mostrando come dati, narrativa e gestione
dell’immagine costruiscano il consenso. Un libro che combina rigore analitico e chiarezza divulgativa, manuale di marketing politico e riflessione sulla politica nell’epoca della permanent campaign offrendo al lettore una guida efficace per comprendere i meccanismi del potere comunicativo contemporaneo.
-Partiamo dal suo ultimo libro: perché “War Room”? E cosa racconta sulle nuove cabine di regia della comunicazione politica?
Si tratta di un testo che avevo in cantiere da tempo anche alla luce delle mia attività accademiche e professionali. Da oltre vent’anni seguo infatti un doppio percorso: sono un docente che ha seguito la
comunicazione politica dal punto di vista accademico, ma allo stesso tempo anche uno studioso che la ha seguita sul campo come consulente politico. Alla luce di ciò ritengo che queste due dimensioni debbano necessariamente dialogare: chi studia politica dovrebbe anche praticarla, e chi la pratica dovrebbe continuare a studiarla, altrimenti perde importanti pezzi di realtà. “War Room” è pensato come un testo divulgativo che segue questo approccio ma che guarda anche alla dimensione scientifica e tecnica: è quindi sia una ricognizione teorica che un manuale operativo. Parla al cittadino, agli studenti, ai
professionisti della comunicazione e ai politici. Tramite un approccio, a mio avviso, necessario per affrontare il clima da “campagna elettorale permanente” in cui viviamo oggi e che si svolge su media,
arene e livelli diversi. Serve, quindi, maggiore attenzione per capire come stanno cambiando linguaggi, strategie e percezioni. Il mio testo cerca quindi di affrontare queste ultime evoluzioni.
-In concreto, come dovrebbe funzionare una war room moderna in questo contesto di permanent campaign?
Servirebbero oggi dei comitati elettorali permanenti per poter seguire i partiti e i candidati anche dopo le elezioni. Mentre oggi ciò esiste solo nel mondo statunitense. Delle war room permanenti invece sono
vitali per affrontare questo clima ricco di incognite e rapide evoluzioni. Anche se nel libro le definisco control room. L’idea è che le competenze e le energie che si attivano durante le elezioni non vadano disperse il giorno dopo il voto. Una control room significa monitoraggio
costante dell’opinione pubblica, definizione di strategie di medio periodo, gestione delle crisi e capacità di anticipare tendenze sociali e culturali. Serve anche a migliorare la comunicazione istituzionale che
deve parlare il linguaggio del tempo: video, social, formati brevi e riconoscibili. In un ambiente digitale saturo di contenuti, dove competi con influencer, sportivi e persino con l’intelligenza artificiale, chi
resta fermo solo ai comunicati stampa (che sono certamente importanti, ma non l’unico strumento a disposizione) semplicemente scompare dal radar. Per capire, anticipare e affrontare queste tendenze è, a mio avviso, necessaria una control room. Specie una control room di governo. Una cosa che manca in Italia purtroppo…
-Perché in Italia questo modello fatica ad attecchire, soprattutto a livello locale?
Per ragioni culturali e storiche soprattutto. Siamo il Paese dei grandi partiti di massa, che per decenni hanno svolto questo ruolo in maniera autonoma tramite le proprie strutture interne. Negli Stati Uniti, dove i partiti sono sempre stati deboli, la politica si è affidata subito a professionisti esterni. Da noi l’apertura verso l’esterno è più recente e perciò guardata con sospetto: rimane l’idea che la politica
sia talento, intuito, “fiuto” personale. In America il rapporto con l’opinione pubblica è, invece, una scienza applicata: anche la comunicazione brutale di Trump nasce da analisi e test: tutto è studiato nulla è casuale. In Italia invece, si crede che la comunicazione sia importante, ma che sia qualcosa di più istintivo e marginale. Come conferma il fatto che se un ente deve tagliare, taglia spesso proprio la comunicazione, pur dichiarandola “essenziale”. È un paradosso che racconta bene la nostra difficoltà ad accettare che
servano competenze specialistiche e un maggiore approccio scientifico.
-Una sorta di illusione italiana secondo cui “un buon prodotto si vende da solo”…
È un riflesso tipicamente nazionale. Crediamo che se una politica pubblica o un prodotto privato funzionano, verranno notati da sé. Non è così, e oggi meno che mai, in un mondo iper-competitivo. Per far arrivare un messaggio serve una narrazione efficace, continua e coerente. E ciò non vale solo per la politica. Basti pensare all’espresso, simbolo italiano per eccellenza, ma dominato da marchi stranieri; alla pizza, di cui il colosso globale è Pizza Hut; o al gelato, che esportiamo meno della Germania. Abbiamo una cultura straordinaria del “saper fare”, ma non sempre del “saper comunicare”. Si tratta di un deficit allo stesso tempo culturale e strutturale.
-Nel libro lei analizza anche l’evoluzione della leadership politica dagli anni Novanta a oggi. Cosa è cambiato?
La vera cesura è avvenuta negli anni 80-90 con il passaggio dalle leadership novecentesche a quelle orizzontali e personalistiche per rispondere alla crisi delle democrazie. Nelle democrazie post-ideologiche il leader è diventato il principale collante tra elettori e partiti. È la figura che personalizza e dà identità. I partiti di oggi ruotano intorno al carisma individuale: pensiamo a Renzi o a Salvini. Ma è cambiato anche lo stile. I leader degli anni Sessanta apparivano “più in alto” dei cittadini, parlavano un linguaggio sofisticato e formale, trasmettevano distanza e autorevolezza. Oggi, dopo decenni, il messaggio non è più “fidati perché sono migliore di te”, ma “fidati perché sono come te”. L’orizzontalità diventa un valore comunicativo. Pensiamo alla comunicazione social di Salvini. Pensiamo soprattutto a Giorgia Meloni, con il suo “chiamatemi Giorgia”, che rappresenta bene questo
passaggio: la vicinanza, il tono diretto, l’assenza di formalità. Anche se il presidente del Consiglio coltiva parallelamente anche la sua dimensione istituzionale ovviamente. Draghi è l’eccezione: non aveva bisogno del consenso popolare, ma di quello dei partiti.
-Lei distingue anche fra partiti “orientati al prodotto” e “orientati al mercato”. Cosa significa?
Riprendo una distinzione di Philip Kotler. Il partito “product oriented”, tipico della Prima Repubblica, parte da un prodotto ideologico forte e chiede all’elettore di adattarsi. Quando gli elettori erano fedeli e votavano per identità, questo modello funzionava. Oggi l’elettorato è fluido e mobile: i partiti devono orientarsi al mercato, partire dai bisogni, dalle fluttuazioni degli umori e dalle percezioni dei cittadini. È il passaggio da “far desiderare ciò che produco” a “produrre ciò che le persone desiderano”. Salvini, ereditando una Lega in crisi, riposizionò in quest’ottica la bussola del suo partito. Con lui il nemico non era più Roma ma Bruxelles, spostò la narrazione su “prima gli italiani” e trasformò un partito regionale in un soggetto nazionale. È un esempio perfetto di partito orientato al mercato. Ma questo meccanismo, ovviamente, vale sia a destra che a sinistra ovviamente.
-In “Demopatia” lei descrive un Paese dominato da una sondocrazia permanente e insieme da un forte astensionismo. Come si spiegano queste due tendenze?
Per decenni l’Italia è stata il Paese con la più alta partecipazione elettorale dell’Occidente: con tassi di partecipazione elevatissimi, ed era un sintomo di una anomalia rispetto agli altri Paesi, tanto che si parlò di “febbre politica”. Oggi accade il contrario: l’astensione cresce e segnala una nuova anomalia italiana.
-Perchè ciò accade?
Le motivazioni sono diverse: culturali, sociali, storiche. Certamente una causa però è che la politica incide meno sulla vita quotidiana e ciò è percepito dai cittadini. Negli anni Ottanta lo Stato controllava la moneta, le tariffe e le grandi imprese pubbliche; ora gran parte di quel potere è svanito. Le persone lo percepiscono e reagiscono disinteressandosi. Allo stesso tempo, i sondaggi sono diventati centrali perché la politica vive in una campagna elettorale permanente, con elettori fluidi ed infedeli e deve muoversi in tempo reale seguendo un’opinione pubblica sempre più individualizzata. La polarizzazione porta, inoltre, ai seggi i “tifosi”, allontanando gli altri. C’è chi accusa il marketing politico di alimentare la crisi e chi sostiene che senza marketing sarebbe peggio perché la disaffezione sarebbe elevatissima. E probabilmente entrambe le tesi contengono una parte di verità.

-Lei ha seguito numerose campagne regionali in prima persona da quella di Polverini nel Lazio nel 2010 a quella di Acquaroli degli scorsi mesi. Come vede il risultato di questa ultima tornata?
In queste 6 regioni è apparso chiaro che solo una era apparentemente contendibile: le Marche. Mentre sulle altre i sondaggi avevano di molto anticipato un esito scontato. Il fatto poi che le elezioni nelle Marche si fossero svolte per prime ha poi smorzato i toni delle rispettive campagne elettorali che hanno confermato le attese. È stato premiato chi ha già governato (Giani in Toscana, Occhiuto in Calabria e Acquaroli nelle Marche) o chi proveniva da una coalizione che riproduceva la coalizione precedente pur con aperture ad altre forze (pensiamo a Fico e De Caro).
-L’astensionismo è stato molto elevato però…
Si questo certamente. L’apparenza di una vittoria scontata non ha favorito in molti casi la mobilitazione alle urne. Poi c’è un altro dato.
-Quale?
I cittadini mostrano una percezione molto bassa delle Regioni: 6 o 7 su 10 non “sentono” l’ente e 8 su 10 non sanno nemmeno quali ne siano le competenze.
-Quanto pesa tutto questo sulle dinamiche politiche?
Pesa moltissimo. Se un cittadino non percepisce l’ente, non gli attribuisce responsabilità politiche chiare. Questo influenza la capacità di giudicare il governo regionale e di orientare il voto. Si vota chi si conosce o chi appartiene ad una cultura che storicamente domina (come il centrosinistra in Toscana). Per esempio, nel quadro attuale, sfumata l’opzione della vittoria nelle Marche l’obiettivo del centrosinistra era un sostanziale equilibrio senza troppi appelli. Credo che anzi la narrazione del “ribaltone” costruita attorno a Cirielli abbia finito per essere un boomerang. Quando l’istituzione è poco percepito, infatti, l’effetto comunicativo domina più dei fatti.
-In diverse Regioni i presidenti uscenti vengono riconfermati nonostante valutazioni negative sulla gestione. È successo con Occhiuto, con Acquaroli, con De Caro, Fico. Perché?
Perché la Regione è l’istituzione meno percepita della filiera istituzionale. Un presidente regionale, a differenza di un premier o di un sindaco, è molto meno esposto mediaticamente. Se in cinque anni non fai troppa notizia, non accumuli ostilità o scandali alla fine il cittadino, dovendo scegliere, preferisce la continuità: “meglio uno che conosco”. La bassa percezione ed esposizione diventa quindi una protezione naturale per l’uscente. Poi certo essendoci le preferenze contano soprattutto i i partiti e questo è un fattore che pesa nelle riconferme.
-Il centrodestra fatica a vincere nei grandi centri urbani, pur essendo fortissimo nei piccoli e medi comuni. Una difficoltà che non riguarda solo l’Italia. Perché?
Da trent’anni in tutto l’Occidente si osserva una frattura costante tra voto urbano e voto periferico. Le grandi città sono più giovani, istruite, globalizzate e assimilano valori woke simili tra loro, indipendentemente dal Paese. Fuori dalle aree metropolitane questi valori vengono percepiti come “estranei”, se non “invasori”, generando una reazione culturale opposta. È un fenomeno noto, ben descritto in Cultural Backlash di Ronald Inglehart. In Italia, per il centrodestra, la difficoltà urbana è strutturale e si somma alla scelta, in alcune tornate, di candidati deboli.
-In vista delle prossime amministrative (Roma, Milano e Napoli) candidare figure civiche è davvero vantaggioso per il centrodestra?
Solo se il civico è già noto, credibile e capace di comunicare politicamente. Un candidato sconosciuto parte troppo indietro: l’elettore non vota per chi non conosce. Il civico deve saper parlare agli elettori identitari e comprendere la comunicazione politica. Un civico “puro”, inesperto, richiede un rodaggio lunghissimo. E ciò non favorisce il centrodestra certamente.
– Roma, con i nuovi poteri, è sempre più centrale. Per una città così è meglio un civico o un politico?
Il civico può funzionare se rispetta tre condizioni: essere già noto, non essere un neofita della politica e saper mobilitare gli elettori della coalizione. Altrimenti la sua candidatura rischia di essere un’operazione debole. L’identikit è quello di un civico capace di parlare sia ai moderati sia ai militanti. Pensiamo a Francesco Rocca nel Lazio ad esempio.
-L’“effetto Meloni” non ha pesato però in queste tornate (se non nel caso delle Marche). Perché?
Perché Acquaroli è di Fratelli d’Italia e beneficia direttamente della leadership di Meloni. In altre Regioni domina il fattore strettamente regionale: Zaia, De Luca, Emiliano, Occhiuto sono figure forti, radicate, che prevalgono sul brand nazionale.
-Tornando al suo libro lei parla di una esternalizzazione della comunicazione politica. Crede che i partiti torneranno ad internalizzare le funzioni di ricerca e analisi invece di affidarsi ad agenzie esterne?
Non credo anche perché non ritengo sia per loro così conveniente. Anzi. Le agenzie esterne hanno accesso a una quantità più ampia di dati, lavorano con clienti diversi e sono più rapide nel registrare i cambiamenti sociali. Una struttura interna rischia di burocratizzarsi, diventare autoreferenziale e restituire dati meno affidabili e più propagandistici. L’esternalizzazione, invece, garantisce un controllo di qualità e credibilità maggiore.
-Nel libro lei parla di leadership effimere e introduce la teoria della “saturazione dopaminica”. Cosa intende?
Significa che viviamo in una società abituata alla gratificazione immediata: ciò che piace tende a gratificare istantaneamente, ma anche a stancare rapidamente. Questo vale anche per i leader politici. Se un leader si sovraespone — come fecero Renzi e Salvini nei loro momenti d’oro — accelera il consumo della propria immagine. Subisce una saturazione che genera assuefazione nel pubblico. Meloni, ad esempio, ha compreso questo problema e sta dosando la sua esposizione: periodi di silenzio, comunicazione essenziale, alternanza tra istituzionale, politico e personale. Questo è l’unico modo per rallentare l’erosione della propria immagine.
-Era il metodo di Berlusconi…
Esattamente. Spariva per mesi e poi riappariva creando novità tramite nuovi paradigmi o piccoli rebranding. Era un modo efficace per evitare l’usura mediatica. La lezione è chiara: un leader deve sapere quando parlare, come parlare e soprattutto quanto mostrarsi. Meloni applica questa logica in modo sistematico, mantenendo il legame emotivo con il suo elettorato senza saturarlo. Altri non hanno saputo farlo e sono stati delle meteore nel panorama politico.