Al supermercato, reparto alcolici, scaffale degli scioglibudella, ripiano whisky a buon mercato, anzi whiskey, visto che afferriamo una bottiglia irlandese da 70cl.
JAMESON c’è scritto a grandi lettere nere sull’etichetta. C’è anche scritto, sotto lo stemma rosso-oro con vascello, ancore e stella, il motto della casa: sine metu – senza paura. Ma la paura invece è presente in questa storia, per chi l’ha scoperta, per chi la sta scrivendo, e per chi la leggerà.
Whiskey Jameson, articolo liquido di 40° della verde Irlanda, per vedere i folletti leprechaun danzare mattacchioni attorno alla pentola d’oro dove nasce l’arcobaleno. Degustiamolo anche noi, proprio qua, al supermercato. Guardiamoci attorno, passa una vecchia che trascina curva il carrello pieno di pelati e cibo per gatti; poi non c’è più nessuno. In sottofondo musichetta commerciale e una voce di donna che offre grandi vantaggi surgelati al banco frigo. Guardinghi, decapitiamo il tappo della bottiglia e tiriamo giù sine metu un assaggio generoso. Ah, che sete. Un sorso di magma consuma l’esofago, una vampa di calore, lo stomaco sbuffa in bocca un ritorno di fiamma. Note di vaniglia e retrogusto di stellette ninja. Dai, non siamo troppo pretenziosi e cattivi, questo “tripla distillazione”, affinato in botti già usate per il bourbon e lo sherry, scende giù nel gargarozzo non così velenoso, ma addirittura morbido, senza lode né infamia, da prodotto industriale di largo consumo qual è. Sempre guardinghi, degustiamo una seconda volta per essere certi del nostro giudizio, riponiamo la bottiglia tra le altre sue sorelle ancora vergini e congediamoci dal barista-scaffale ringraziandolo con un cenno del capo.
La John Jameson and Son Irish Whiskey company è in attività dal lontano 1780, quando è fondata a Dublino da John Jameson senior assieme a suo figlio John Jameson junior. Grazie alle innovazioni introdotte, a fortunate scelte nella materia prima, e alla discreta qualità del whiskey, la ditta diventa una delle più importanti distillerie d’Irlanda, fino a coprire il 10% del mercato mondiale dei distillati. L’azienda è però gravemente colpita dal famigerato, bigotto, assetante The Noble Experiment del 1919: quando gli Stati Uniti, piazza principale per le botti dublinesi, si svegliano astemi scegliendo un pio, timorato, ipocrita proibizionismo. E per la Jameson inizia un declino che si riesce ad arrestare solo fondendosi con le altri grandi case produttrici dell’isola. Nel 1998 è comprata dal gigante multinazionale Pernod Ricard, uno dei grandi regni del bicchiere assieme a Diageo, Anheuser-Busch InBev, Suntory Holdings Limited di Osaka, Bacardi: colossi del settore alcool che si contengono predomini di bar e corsie di supermercati con i loro eserciti di bottiglie colorate e invitanti. Oggi, i litri bevuti di whiskey Jameson sono sopra i 30 milioni all’anno. Il distillato irlandese più trincato al mondo. Glu glu glu.
Questo preambolo alcolico ha lo scopo di introdurre la macabra storia di un membro della ricca famiglia di industriali-distillatori Jameson – famiglia che vanta tra gli altri la Signora Anna Fenwick Jameson Marconi, nipote del fondatore della casa e mamma dell’illustrissimo connazionale marchese Nobel Guglielmo Marconi, scienziato inventore d’Italia che qua scomodiamo solo per curiosità, non di certo per insozzarne il nome con gli orribili fatti di seguito narrati.
La Signora Anna Fenwick Jameson Marconi ha un fratello più piccolo che si chiama James Jameson, nato nel 1856 in una grande casa neogotica ad Alloa, nella contea di Clackmannanshire, Scozia. Il ragazzo è il rampollo della dinastia milionaria irlandese-scozzese di produttori di whiskey, e dopo gli studi si penserebbe per lui la carriera militare o un impiego nell’azienda di famiglia, ma James ha altre grilli per la testa. Sente un richiamo irresistibile provenire dal mare e dalle illustrazioni dei libri di geografia: vuole viaggiare ed esplorare il mondo. È la vocazione del viaggiatore, quel desiderio irrefrenabile che tanti giovani hanno provato e provano per soddisfare la propria curiosità, assetati di avventure esotiche. Parte pischello per l’Estremo Oriente, fa tappa a Ceylon lacrima dell’India, isola delle verdi piantagioni di tè e di bastioni bagnati dalle onde oceaniche, dove Adamo poggiò il suo piede sulla cima della montagna Siri Pada; naviga ad est per sbarcare a Singapore perla della corona britannica, preziosa colonia per i commerci di gomma dalle strade affollate di genti cinesi, thai, malesi, europee, indonesiane, indiane, arabe; prosegue per il vergine Borneo, eden di giungla e animali. Appassionato di ornitologia, qui James ha di che rifarsi gli occhi. Uccelli, a centinaia, l’uno diverso dall’altro: la natura è qui mosaico di mille colori. Il giovane esploratore si fregia persino della scoperta di un volatile mai visto prima, la Black Pern. Rientra in Scozia con un baule pieno di uccelli impagliati, farfalle incorniciate, coleotteri sotto vetro. Non sta fermo, e appena può riparte, questa volta facendo rotta per il Sud Africa, per camminare sulla terra rossa del deserto del Kalahari, e per poi raggiungere Potchefstroom nel Transvaal dei boeri che usa come base per una spedizione lungo il fiume Zambesi fino alle sue spettacolari cascate. Risale il Limpopo dalle colline del Rand entrando nei domini portoghesi del Moçambique. Viaggia nelle misteriose terre del popolo degli Ndebele, dove il rapace Cecil Rhodes, uomo d’affari e filibustiere britannico, sta architettando il saccheggio delle risorse minerarie. Viene accolto da Lobenguela, l’ultimo re degli Ndebele che verrà truffato da Rhodes e dai suoi emissari senza scrupoli. Assieme al cacciatore Frederick Selous, James s’immerge sempre più nelle profondità selvagge dell’Africa Nera all’inseguimento di leoni e rinoceronti per arricchire le proprie collezioni private di trofei di caccia e di aneddoti avventurosi, e disegnare nuove mappe geografiche di quei luoghi remoti. Nel 1881 torna a casa questa volta con tanti souvenir: teste di animali feroci prede di caccia grossa, esemplari di insetti, uccelli sconosciuti, piante mai viste nella vecchia Europa. Con il fratello s’avventura sulle Montagne Rocciose americane a impallinare i grizzly del Montana. Poi nel ’84 è in giro tra Spagna e Algeria, prima di quella maledetta spedizione che gli rovinerà la vita.
Corre l’anno 1886. Le colonie africane della Regina Vittoria sono in pericolo, agitate dalla rivolta del Mahdi che infiamma il Sudan. L’asceta predicatore Muḥammad Aḥmad, conosciuto come il Mahdi, dichiara il santo Jihād contro gli oppressori turco-egiziani e i loro protettori di Londra. Le tribù arabe e i guerrieri dervisci sono sul piede di guerra e per anni sbaragliano eserciti; arrivano persino ad assediare e conquistare Khartum, uccidendo Charles Gordon, il governatore inglese della città. Mentre la testa mozzata di Gordon Pascià è portata al cospetto del Mahdi infilata sulla punta di una lancia, le regge e le cancellerie europee sono scosse dalla paura: i loro vasti interessi predatori nel Continente Nero sono a rischio.
In queste pagine di storia coloniale, s’inserisce il capitolo dedicato al tedesco Doktor Isaak Eduard Schnitzer, ovvero Emin Pascià, bey di Costantinopoli e governatore delle terre di Equatoria, all’epoca una delle regioni meno esplorate e selvagge del pianeta, ai giorni nostri una zona stretta tra Sudan, Etiopia, Kenya, Uganda, Congo, Repubblica Centrafricana. Equatoria, umida malarica porzione della geografia coloniale del tardo XIX secolo, su cui gli inglesi hanno posato gli occhi e le mani, è uno dei centri del gioco africano dove i concorrenti europei affettano e si spartiscono il continente. Ad ovest francesi e belgi, ad est italiani, a sud i tedeschi, tutti a cercare il proprio spazio e prestigio accaparrandosi deserti e foreste prima che lo facciano gli ufficiali e i faccendieri della Regina Vittoria.
La nube minacciosa del Mahdi dalle dune di sabbia sudanesi si espande fino alle giungle equatoriali, Equatoria è tagliata fuori dal resto del mondo. Nel novembre del 1886 l’esploratore russo Vasilij Vasil’evič Junker, dopo un viaggio devastante, riesce a raggiungere l’isola di Zanzibar, paradiso di spiagge bianche e acque turchesi, meraviglioso incrocio tra mondo arabo, africano, indiano e crocevia oceanico di spezie e di schiavi. Con sé porta le lettere di Emin Pascià. Sono missive preoccupate, che raccontano una situazione di grave crisi. C’è il serio rischio di una discesa in armi del Mahdi nel cuore africano e che la rivolta islamica e anticolonialista infetti tutta l’area arrivando a colpire le coste orientali per buttare a mare gli europei e i loro commerci. Inoltre, l’opinione pubblica nel Vecchio Continente, già scioccata da quanto capitato a Gordon e alla sua testa in Sudan, non sopporterebbe un nuovo martirio di europei, e si s’appella alle istituzioni affinché si faccia qualcosa. E dal canto loro, le istituzioni non sono restie a promuovere un’iniziativa di soccorso, tutt’altro. Con il pretesto di andare a soccorre il medico tedesco-ottomano Emin Pascià, i gentiluomini londinesi intravedono concrete possibilità per avvicinarsi al sultano di Zanzibar Barghash bin Saʿīd, convincerlo a firmare “vantaggiosi” contratti e concessioni e portarlo sotto l’influenza dell’impero vittoriano, con buona pace del ministro Otto von Bismark e del Kaiser Guglielmo, anche loro molto interessati all’isola e alle sue rotte commerciali.
Si parte, dunque. A capo della Emin Pasha Relief Expedition viene nominato un personaggio d’eccellenza, famoso ieri, famoso ancora oggi. Il mercenario Sir Henry Morton Stanley incarna la figura dell’esploratore britannico ottocentesco, che scolpisce il proprio nome ad imperitura memoria grazie al salvataggio del collega David Livingston, che ossessionato dalla ricerca delle sorgenti del Nilo, era sprofondato nella malattia in un buco di villaggio sulle sponde del lago Tanganica, perdendo qualsiasi contatto con l’esterno, smarrito nel nero dell’Africa più nera. A trovarlo, dopo anni, Stanley:
“Dr. Livingstone, I presume?”
Sir Henry Stanley comanda un’imponente spedizione con centinaia di portatori, attrezzature all’avanguardia, armi modernissime. A lui si uniscono alcuni militari di carriera, giramondo, cacciatori, esploratori, tra cui James Jameson, che per partecipare all’impresa, sborsa di tasca sua 1.000 sterline. Il rampollo Jameson è un turista di lusso, paga ad un prezzo salato quel biglietto per un’avventura a cui non vuole rinunciare.
Dopo il viaggio Londra – Cairo – Zanzibar – Congo, gli uomini s’imbarcano sui battelli fluviali a Matadi. Il fiume è quello che prende il nome della grande riserva di caccia all’uomo di proprietà di Leopoldo II del Belgio, uno dei peggiori criminali della Storia, un avvoltoio ripugnante. Congo belga: un gigantesco campo di concentramento in cui regnano fame, schiavitù, miseria, malattia. Gli sgherri di Leopoldo, padrone assoluto di quella terra disgraziata, incatenano, mutilano, uccidono. È un genocidio d’Africa dettato dall’avidità del re dei belgi, un volgare assassino con la corona in testa, un oppressore che ammazza e schiavizza non per un qualche senso idealista o per crociate civilizzatrici, ma per denaro. Uno degli uomini di fiducia del tiranno di Bruxelles è proprio il prezzolato Stanley, complice ben pagato del delitto congolese; ed è anche per questo motivo che la missione ha proprio inizio in questa insanguinata parte di mondo.
Ora cominciamo a capire che tipo di esseri umani sono questi della Emin Pasha Relief Expedition. Non ci troviamo più in avventure ideali di affascinanti viaggiatori salgariani alla scoperta di misteri esotici da romanzo. La dura realtà storica è fatta di tagliagole e di picchiatori dalla frusta facile. La dimensione del viaggio cambia, inizia un percorso che porta narratore e lettore verso la perfidia umana, e la follia che cattura l’uomo civilizzato quando si ritrova libero di dare sfogo ai propri istinti in quelle terre senza legge, lontano anni luce dalle regole e convenzioni del mondo occidentale. L’uomo civilizzato ritrova se stesso, riscopre l’istinto primordiale, rinasce bestia.
I vaporetti sbuffano lungo le acque scure del fiume Congo e il cielo s’accende di un tramonto bellissimo e violento; la spedizione s’addentra nel ventre umido e malato dell’Africa Nera, verso il centro della grande giungla che divora le anime come è descritto in Cuore di Tenebra, il capolavoro di Joseph Conrad che ci racconta del misterioso psicopatico Kurtz e del suo regno di follia nell’angolo più oscuro della Terra. Laggiù, dove l’ombra della fitta vegetazione impedisce a Dio di vedere cosa fanno i suoi figli.
I battelli risalgono il corso del fiume, superano le rapide delle cascate Livingstone, scivolano sulla superfice melmosa della palude Stanley; gli uomini si schiaffeggiano i colli per allontanare stormi di zanzare assetate; oltrepassano l’incrocio con il fiume Kasai che si perde nella foresta pluviale, superano l’arteria Ubangi che bagna l’ambizione coloniale di Parigi, fanno sosta alle capanne di Équateurville, villaggio che vuole diventare città di Leopoldo, fondata tre anni prima da Sir Stanley, s’addentrano tra le piante acquatiche della foresta inondata; sulle sponde tribù di nani pigmei guardano rapiti immobili quelle grandi barche possedute dagli spiriti dell’uomo bianco che sputano fumo puzzolente, dalla giungla arrivano le eco furiose delle grida dei gorilla, e i membri della spedizione tengono i fucili e i revolver carichi.
Prima delle rapide Wagenya, non navigabili, dove da secoli i pescatori usano impalcature e ceste di legno per prendere grossi pesci, l’esplorazione volta a sinistra, prendendo l’affluente Aruwimi con rotta nord-est verso il cuore verde del continente. Solo il vaporetto Henry Reed muove le pale sul Congo fino a quand’esso diviene Lualaba, per raggiungere Stanleyville presso le cascate Stanley (altri luoghi geografici ribattezzati dalla megalomane smania di gloria dell’esploratore), con lo scopo di procacciare rifornimenti e portatori freschi. Ma non ne trovano, ci sono difficoltà, l’imbarcazione Henry Reed inverte la rotta per ricongiungersi con il grosso dell’operazione di salvataggio. Stanley invece, addentrato nel bacino dell’Aruwini, decide di usare il villaggio indigeno di Yambuya come base avanzata. Ma gli abitanti non vogliono sloggiare così il comandante ordina di attaccarli e di scacciarli dalle loro case. Yambuya viene trasformato in un fortino.
A questo punto della storia, la Relief Expedition si divide in due colonne. La prima, di testa, capitanata direttamente da Stanley, lascia la base di Yambuya per navigare lungo l’Aruwini che diventa l’Ituri, setacciare i grovigli della foresta equatoriale fino al lago Alberto, dove il Nilo bambino cresce dopo essere nato dalle sorgenti del lago Vittoria, e mettersi alla ricerca di EminPascià negli anfratti più reconditi di Equatoria. La seconda colonna, di retroguardia, rimane a presidiare il fortino sul fiume. Tra loro, c’è James Jameson. Il comandante in seconda, maggiore Edmund Barttelot, è a capo di questo gruppo che attende aiuti dal mercante tanzaniano Tippu Tip. Che personaggi questi due, sembrano i cattivi di un romanzo d’avventura.
Edmund Barttelot: ufficiale dei fucilieri, presta servizio in India prima d’imbarcarsi nell’avventura africana. È il ritratto della brutalità. Odia con fervore qualunque essere umano che non abbia la pelle bianca. Gli altri ufficiali lo ritengono un indemoniato. Tormenta i sottoposti, picchia senza pietà i portatori, molla calci a destra e sinistra, scarnifica schiene con la frusta. Usa un bastone con la punta d’acciaio per massacrare quei poveretti che lui considera sotto i cani nella sua concezione di gerarchia razziale. Inoltre è un incapace, non riesce a tenere la disciplina, perde il controllo. Pare che Conrad si sia ispirato a lui per il ritratto di Kurtz nel suo Cuore di Tenebra. Il maggiore Barttelot ha la rabbia, l’Africa lo ha avvelenato, i germi della follia violenta si sono diffusi nella sua testa, c’è un pazzo assassino al comando della base di Yambuya.
Tippu Tip: tunica araba thawb bianca splendente, turbante anch’esso bianco immacolato, pelle nera, barba come un groviglio di fil di ferro, sguardo mellifluo, falso. Proviene da una potente famiglia swahili imparentata con l’aristocrazia del ricco Oman. Intraprende una brillante carriera di mercante. Avorio in grandi quantità, ma soprattutto uomini. L’immensa fortuna di Tippu Tip la si deve al commercio degli schiavi. Sguinzaglia i suoi mercenari negrieri a caccia in tutta l’Africa centrale. Mette la catena al collo a migliaia di uomini e donne che vende nell’importante piazza di Zanzibar. Accumula una ricchezza impressionante che reinveste a Zanzibar in piantagioni di chiodi di garofano per incrementare il suo tesoro. Possiede 10.000 schiavi di sua proprietà e a Stone Town ha un harem invidiato in tutto l’Oceano Indiano. È prezioso collaboratore per gli emissari europei che aiuta nelle loro esplorazioni e con cui conduce affari vantaggiosi. In cambio del sostegno e nella fornitura di schiavi nella Emin Pasha Relief Expedition Stanley gli affida il governo di vaste zone congolesi, dove Tippu Tip diventa il padrone assoluto. Ma di Tippu Tip, cacciatore di uomini ingordo d’oro, non ci si può fidare.
James Jameson è con il maggiore Barttelot nel fortino. Dopo la partenza di Stanley, la situazione degenera presto. Il maggiore è impazzito. Gli africani dell’accampamento sono malnutriti, sono alla fame. Caldo fradicio insalubre senza tregua. La malaria ronza sul campo. Le mosche sono a migliaia, infestano le capanne, s’ingrassano sulle carcasse di animali e di uomini. Avvengono punizioni corporali. Seguono esecuzioni sommarie a titolo d’esempio per i disertori e per chi si ribella a Barttelot, il signore malvagio di Yambuya. L’aria puzza di morte. I bianchi dell’avamposto, l’élite depressa di quel micromondo in decomposizione, si dividono in fazioni che si odiano tra loro e s’abbandonano al torpore dell’ignavia aspettando notizie e ordini che non arrivano. È un deserto dei tartari africano, marcio. Giorni, settimane, mesi: l’infezione sul fiume Aruwimi s’incancrenisce, è una piaga purulenta che consuma gli uomini.
Nel frattempo, a centinaia di chilometri di distanza, la colonna di Stanley arranca madida di sudore coi machete nella fitta selva della foresta dell’Ituri dove la vegetazione copre la luce del sole, attaccata dalle frecce avvelenate dei pigmei Mbuti. Con enormi difficoltà e perdite, riescono ad arrivare al lago Alberto. Di Emin Pascià non c’è traccia. Riescono a stabilire un contatto solo nella primavera del 1888, un anno dopo l’inizio della spedizione. Stanley stringe la mano a Emin Pascià sulle sponde del lago: il minuscolo esercito ottomano di Equatoria è schierato sotto la bandiera con la mezzaluna e saltano i tappi di tre surreali bottiglie di champagne portate da Brazzaville e conservate per l’occasione. Ma è un fallimento. Emin Pascià, il tedesco con il fez rosso, pare ben più in forma e tranquillo dei soccorritori ridotti a brandelli e non ha nessuna intenzione di ritirarsi verso la costa. Quella spedizione è stata un’inutile impresa propagandistica, una lunga processione dolorosa senza redenzione. Stanley ordina di ritornare a Yambuya, per ricongiungersi con Barttelote gli altri. Il 17 agosto 1888 incontra sulla strada i resti cenciosi della retrovia: un unico ufficiale bianco alla testa di un gruppetto di portatori scheletrici. Sono gli stracci della colonna di Barttelot. Quello che è successo durante l’anno di assenza di Stanley è terribile. I rapporti dell’europeo sopravvissuto dipingono un incubo. Di seguito, i fatti.
Il maggior Barttelot, comandante di un base allo sbando più totale, senza più notizie e rifornimenti da Tippu Tip, decide di prendere l’iniziativa e parte a capo di una missione per ritrovare Stanley. Ma la spedizione del maggiore sbanda subito nel caos, con lutti, diserzioni e ammutinamenti tra gli schiavi della tribù dei Manyema, i “mangiatori di carne”, sempre più ostili. L’ufficiale britannico, vinto dalla paranoia, vede nemici e congiure ovunque, crede di essere stato avvelenato. Un giorno, prima che il sole sia sorto, Barttelot si sveglia con le occhi fuori dalle orbite ed esce dalla sua tenda revolver in pugno. I portatori Manyema sono intenti a svolgere una cerimonia sacra, con danze e tamburi. Il maggiore commette un sacrilegio, interrompe la funzione, sbraita di riprendere immediatamente il cammino in mezzo a quegli uomini che non ne possono più di angherie e miseria. Picchia una donna con la pistola davanti a tutti. Il marito della donna reagisce, gli strappa l’arma e ammazza l’aguzzino senza esitazione.
Ma c’è di peggio. Mister James Jameson si spinge ancora più oltre in quella discesa negli inferi. Anche lui si è mosso dal fortino maledetto di Yambuya per andare alla cittadina di Kasongo per rifornirsi di manodopera. Qua s’incontra con Tippu Tip, il grande negriero sorridente. Lo schiavista gli fornisce 400 uomini e assieme riprendono la strada del ritorno. Fanno tappa a Riba-Riba, villaggio di gente Manyema. In una capanna siedono il capo tribù e quello dei portatori, James, Tippu Tip, gli interpreti e alcuni servi. La pioggia tropicale scroscia incessante sulle felci dell’immensa foresta, labirinto verde dove non soffia il vento, non penetra la luce, e gli uomini scompaiono. Parlano rilassati, discutono scherzosi sulle barbare pratiche del cannibalismo. Sorrisi, anche risate. Jameson dice:
“Sono molto ansioso di vedere un uomo ucciso e mangiato. Perché vedete amici, in Inghilterra noi ci raccontiamo tante storie sul cannibalismo in Africa, ma ora che sono qui, beh, mi piacerebbe vedere con i miei occhi se queste cose sono vere.”
Ridono tutti. Tippu Tip sghignazza sdraiato suoi cuscini arabi di seta imbottita, con gli occhi semichiusi e agita lo scacciamosche di criniera e manico in avorio e oro. Sibila qualcosa nell’orecchio del capo tribù; i due confabulano. Tippu Tip si rivolge con un gran sorriso a James e gli dice che se davvero vuol vedere una cosa del genere, dovrebbe comprare una schiava da offrire ai cannibali. James ride. Anche gli altri nella capanna ridono di nuovo. L’ospite bianco chiede a Tippu Tip quanto gli costerebbe una giovane schiava da usare come colazione. Gli viene risposto che gli sarebbe costata sei fazzoletti. Non sappiamo se James creda di agire per scherzo o se sia pervaso da una premeditata curiosità morbosa, sta di fatto che paga. Sei fazzoletti di stoffa di fattura europea. Gli portano la merce: una bambina di dieci anni. La pioggia cessa. Jameson, Tippu Tip e gli altri lasciano la capanna seguendo l’uomo che ha portato la bambina e che accompagna per mano verso un angolo defilato di Riba-Riba dove sono accampati alcuni nativi. Tippu Tip afferra per il braccio la ragazzina, docile, che non piange, e spiega a quegli uomini che lei è un dono dell’uomo bianco che sarebbe lieto di rimanere a guardare il banchetto. Legano la vittima ad un albero. Cinque selvaggi affilano i coltelli. Uno di loro affonda la sua lama due volte nella pancia della bimba. Lei, la vittima sacrificale, non urla, né versa una lacrima, innocente coraggiosa stoica che sarebbe d’esempio a tutti i condannati a morte ben più vecchi e colpevoli di lei. Sembra rassegnata al suo destino, accettando in silenzio quella sentenza tribale, ancestrale, primitiva, atroce. Il martirio di quella bambina, in quel buco oscuro circondato dal verde soffocante di una natura ancora dominatrice sull’uomo, è qualcosa di santo. Invece l’operato degli adulti, carnefici e spettatori è qualcosa di demoniaco. La fanno a pezzi per dividersi la carne. C’è a chi tocca le gambe, chi le braccia, chi il petto, chi le interiora dello stomaco. Dopo la macellazione, i cannibali portano i loro tagli al fiume, per lavarli, e si ritirano per cucinarli e mangiarseli con le loro famiglie. Se possiamo trovare qualche parola di assoluzione per quei mostri infanticidi mangiatori di carne umana perché usciti direttamente dal paleolitico senza tappe intermedie, facciamo ben più fatica a trovarne per James Jameson, ricco ereditiero britannico della casata degli industriali del whiskey Jameson, istruito, educato, colto, curioso esploratore. Troppo curioso, certamente. Durante il sacrificio rimane seduto sull’erba con il suo quaderno aperto sulle ginocchia e disegna. Fa degli schizzi dell’orrendo spettacolo a cui assiste volontario e di cui è il diretto responsabile. Ritrae la bambina legata, il suo omicidio, la mutilazione del suo corpicino, i cannibali che si spartiscono le porzioni di carne. Mostra i disegni a Tippu Tip. Al grande negriero sorridente piacciono molto.
Ma la fame della foresta non è placata. James Jameson s’ammala, viene divorato dalla febbre. Muore nell’agosto del 1888 e seppellito su un’isola del fiume Congo. Questa sua brutta storia non sarebbe mai venuta fuori se il suo interprete, il siriano Assad Faran, non l’avesse rivelata nell’autunno del 1890 al New York Times, spinto da Sir Henry Stanley, inorridito e furioso con i suoi subalterni che così male si sono comportati, che hanno mandato all’aria la sua spedizione e che hanno macchiato la sua carriera di esploratore. La vedova Jameson tenta di salvare la reputazione di James, inviando al New York Times una lettera del marito scritta poco prima di tirar le cuoia per la malaria. Il moribondo afferma di essersi ritrovato in balia degli eventi, e che stupidamente pensava, fino a quando effettivamente quella povera bambina fu fatta a pezzi, di essere solo in una finzione, in uno scherzo. Ma i dettagli descritti nella lettera non fanno che dare maggior peso alle accuse del siriano Assad Faran.
Jameson, Barttelot, Tippu Tip e poi i loro padroni delle compagnie coloniali, affaristi senza scrupoli soci di prestigiosi gentlemen’s club e monarchi ingordi, sono i personaggi storici che si muovono razziatori nell’Africa Nera, territorio di caccia dove i nativi sono considerati bestie da soma o cavie per circhi horror. Conrad scrisse dell’orrore celato nell’uomo impazzito nei meandri dell’inferno verde, James Jameson ci ricorda che quest’orrore è reale.
Non berrò mai più whiskey di marca Jameson.