Destinata forse a non avere chissà quale eco mediatica, la notizia della risoluzione parlamentare australiana che impone a Google e Facebook di accordarsi con i grandi (e piccoli) gruppi editoriali e pagarli per poterne diffondere i contenuti, è non solo destinata a essere seguita da molti altri Paesi occidentali – è anche una svolta cruciale nella dinamica di uno tra i fenomeni più caratteristici dell’epoca presente: l’infodemia.
Caratteristica essenziale dell’infodemia è non solo, come dice il termine, una certa qual “fame bulimica” di informazione che porta con sé un’inevitabile traccia di malattia, finanche di sindrome e dunque di insalubrità – è anche, e forse soprattutto, la sua capacità di spandersi in ogni dove, in ogni come, e (non da ultimo) ad ogni costo. La sua cifra paradossale sta nella rarefazione estrema dell’informazione (e del lavoro d’informazione), a fronte di una ipertrofia assoluta, cioè sciolta da ogni vincolo e legame spaziale, della chiacchiera informativa – dove la chiacchiera edifica definitivamente il luogo del linguaggio, e sbaraglia l’informazione come consapevolezza civile, come pensiero, come critica. Ed ecco che, nel momento in cui il Governo australiano impone il fondersi di editoria e web, dove quest’ultimo ha già da anni fatto terra bruciata all’editoria, assorbendone e diffondendone pressoché tutti i contenuti (oltre il 60% dell’informazione viene fruita dalla popolazione tra Google e Facebook) – ecco che tra i due, tra canale editoriale e canale diffusivo infodemico, la differenza viene a cadere: la coincidenza (co-incidere vuol dire anche cadere insieme nello stesso luogo) si annuncia totale.
Dopo una prima fase “contendente”, dove i giganti infodemici hanno opposto resistenza agli avvertimenti australiani, che intimavano dure condizioni di contrattazione e di arbitrato tra gruppi editoriali e diffusione web delle notizie, com’era ovvio si è infine giunti ad una soluzione di mediazione – altrimenti detto, ad una integrale e serena fusione tra i due fronti. Di modo che, come hanno già annunciato, in maniera pacata e pacifica Google e Facebook si impegnano, in tre anni, a versare oltre un miliardo di dollari ciascuna ai gruppi editoriali australiani (dai più grandi, ivi incluse le murdochiane News Corp e Nine Entertainment, ai minori), così da suggellare il sodalizio infodemico. Inoltre, se Google lancerà nel corso dell’anno il nuovo “Showcase”, Facebook introdurrà la sezione “News”, dove tutto ciò che proviene dall’editoria verrà presentato, attentamente ordinato, oculatamente allestito in pronta consegna all’utente – entrambi contenitori e vetrine editoriali: entrambi veri e propri simboli dell’avvenuta fusione infodemica tra editoria e web.
Se, come specchietto per le allodole, il Governo ha giustificato questa manovra di legge con la necessità che “i gruppi editoriali siano equamente remunerati per il contenuto che generano, aiutando a sostenere il giornalismo di interesse pubblico in Australia”, è chiaro che l’obiettivo è, in fondo, quello di rispondere alle esigenze infodemiche sempre più pressanti e ormai globalmente ineludibili, tanto più in un periodo, quello pandemico, che ha prestato il fianco all’ingigantirsi oltre misura del fenomeno – persino in un Paese così apparentemente ieratico e perfettamente equilibrato come l’Australia, che, sin dall’inizio, pare vivere l’emergenza sanitaria come una carezza appena accennata, insieme agli altri membri del sesto continente. In pratica: l’Australia si è mossa per prima in direzione del suggello editoriale dell’infodemia, proprio perché la più insospettabile, quindi la più pronta a farlo in totale acquiescenza. E il “giornalismo di interesse pubblico” è niente più che la pubblicità paradossalmente incarnata, assorbita, fattasi senza riserve digitale – fattasi senza riserve infodemia.
Sta di fatto che, come detto, l’iniziativa di Canberra non è affatto sbalorditiva – era anzi obbligata. E così sarà, naturalmente, per le altre strapotenze occidentali – a partire dalle anglofone, e in particolare dagli Stati Uniti (probabilmente nel momento in cui, a fine estate, tutta l’America settentrionale sarà vaccinata – e allora, anche lì, in apparenza appena attenuata la palese bulimia da social, troppo evidente in epoca pandemica, si potrà giustificare l’azione di fusione infodemica come niente più che una “tutela dell’editoria e del giornalismo”). Un’iniziativa obbligata, perché la domanda urgente e improcrastinabile che ne istituisce il movente è: come potevano, senza un qualche tipo di fusione, continuare a convivere i colossi editoriali di Murdoch con i colossi digitali infodemici? Altro che tutela dell’editoria: questo è il segnato e ben preannunciato consolidamento dell’infodemia – l’elevazione dell’infodemia a rango e a sistema di legge.
Se è vero, del resto, che Murdoch, questo “Berlusconi globale ante litteram”, ha da decenni a sua totale disposizione l’editoria e l’informazione mondiali (in particolare anglofone), è altrettanto ovvio che una soluzione d’incontro, una fusione si doveva pur attuare; e anzi, a rigore stupisce quanto tardi essa sia arrivata. È comunque questione di mesi: Murdoch, che ha patrocinato e appoggiato la risoluzione parlamentare in Australia, non esiterà certo a replicarla negli altri Paesi satelliti. Google e Facebook, dunque, pagheranno per legge l’editoria. Ma attenzione: è, per loro, tutto fuorché una perdita. Poiché qui non si è tanto davanti a due parti, una delle quali paga (perde) in funzione di un acquisto (acquisizione, investimento). Né, tantomeno, si è davanti a due parti una delle quali riceve un servizio di tutela (Murdoch, il sistema editoriale). No: la parte è una sola, quella della dinamica infodemica, in cui tanto i colossi del web quanto Murdoch stanno dalla e costituiscono la stessa parte, venendo così a porsi come fronte unico dell’informazione. Quello che cambia, e che rileva, è appunto il sodalizio avvenuto in forza e in materia di legge: la ceralacca del Diritto sulla lettera dell’infodemia.
La regolamentazione ex lege è così sancita, avvenuta, definita. E nel momento in cui, dal fronte cinese, TikTok, simbolo perfetto della geopolitica della Seta, solleva con cogenza in Occidente tutti i problemi che inevitabilmente avrebbe portato con sé (regolamentazione, anarchia giuridica sull’utilizzo, sui limiti d’età, ecc.), problemi di enorme portata che solo il più ingenuo tra i finti ingenui non si sarebbe aspettato – questo stesso Occidente non esita a sancire in termini di Diritto la pubblicità dell’informazione (l’informazione stessa) come infodemia, e questa come informazione. Se, in Italia ma non solo, ci si affretta a realizzare stupidi spot pubblicitari ministeriali in tempi record sulla necessità di controllare che i bambini sotto i 13 anni non usino TikTok, intanto l’infodemia ex lege bolle tranquillamente e silenziosamente in pentola, in attesa di essere adottata in tutto l’Occidente – con buona pace, come sempre, non tanto di tale o tal’altro colosso, ma di chi “colosso” non lo è, né forse ha mai desiderato esserlo. Perché informazione e colossi, com’è noto (almeno sino ad ora), non vanno esattamente d’accordo.