La casa eruttava di bambole. C’erano bambole ovunque: sul tavolo, sotto le sedie, incassate tra i mobili, negli armadi. Anche in cucina – dove la signora, ingobbita, si trascinava per caricare il caffè – c’erano bambole. Quelle entità fittizie, tra tenerezza e terrore, conferivano una teatralità grottesca all’appartamento. La signora, anziana, decorata ad hoc, doveva essere stata bella, da ragazza. Abitava con il fratello, gravemente malato, guidava, con spericolata saggezza, una Panda, nera, piena di adesivi. Rigurgitava anch’essa di bambole, quasi che quella finzione, statuaria e imbellettata, fosse più autentica della carne. Era fiera della bandiera italiana che aveva conficcato in giardino, amava l’opera, apparteneva a una qualche associazione legata ai Carabinieri, si dava da fare nella parrocchia sotto cui orbita. Giurava di avere ottimi rapporti in Vaticano, vantava alcune cartoline di Enzo Ferrari. Ero andato a trovarla, a Riccione, perché aveva subito, anni prima, una grave truffa, relativa all’investimento in una casa di riposo “di nuova generazione”, diceva, che avrebbero costruito in una località collinare, nei recessi romagnoli. Prestiti in banca, raccolta fondi, patrimonio personale: aveva perso mezzo milione di euro. Della casa di riposo neanche l’ombra. La Finanza aveva beccato i furbi, ma nessuno le aveva ancora restituito le finanze. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
Non so come, mentre la signora sciorinava le turbinose vicende della sua vita, costellata da ‘personaggi’, il discorso finì su Licio Gelli. “Una persona squisita, un uomo d’altri tempi”, disse. All’inizio, immaginai una faccenda di omonimi; invece no, la signora si riferiva proprio al “faccendiere italiano” (didascalia Treccani), l’uomo al centro di tutti i misteri, emblema della dissimulazione, della massoneria oscura, della spietatezza dell’anti-Stato. Licio Gelli non è neppure un nome, una persona: è una cifra magica, il sortilegio, l’abracadabra crudele che mostra che dietro allo Stato italiano ce n’è un altro, poi un altro e un altro ancora, in un pazzesco – e sanguinario – gioco di scatole cinesi. “Ho conosciuto Gelli negli anni Novanta, qui a Riccione. Siamo rimasti in contatto fino alla sua morte: sono anche andata a trovarlo a Villa Wanda, quando era ai domiciliari…”. La signora parlava, ingenuamente eccitata, le bambole mi tenevano sotto assedio, poco dopo mi mostrò il suo tesoro: un mannello di cartoline, lettere, biglietti di Licio Gelli, il Venerabile, il puparo della recente storia italiana.
Il 17 marzo del 1981, a Castiglion Fibocchi, Arezzo, viene scoperta la lista degli appartenenti alla loggia Propaganda 2. Spiccano, tra i tanti, i nomi di Silvio Berlusconi, Vittorio Emanuele di Savoia, Michele Sindona, Roberto Calvi, Claudio Villa, Maurizio Costanzo, Angelo Rizzoli. Vi fanno parte, soprattutto, i capi dei servizi segreti italiani. Quando si parla di Licio Gelli – condannato per bancarotta fraudolenta per i fatti relativi al Banco Ambrosiano, condannato per aver tentato di depistare le indagini intorno alla strage alla stazione di Bologna – i toni mutano con volubile pericolosità. C’è chi lo ritiene lo zenit di tutte le sozzure italiane (“Sono ancora tutti lì”, ha ripetuto Sandra Bonsanti, intervistata dal “Venerdì” di Repubblica, qualche giorno fa, autrice, per Chiarelettere, di Colpevoli. Gelli, Andreotti e la P2 visti da vicino) e chi un manovratore come altri, che, come altri, ha tentato di governare lo Stato attraverso relazioni più o meno occulte, cercando il potere. Una fotografia lo ritrae, in latitanza, a Nizza, è il 1988, travestito da ambulante, che trascina un organetto con gatto. Al di là della fittissima bibliografia su Gelli – che infittisce l’enigma – un buon punto di partenza per capire le oscurità di questo Romanzo Italiano è la lettura della “Relazione della commissione parlamentare d’inchiesta sulla Loggia massonica P2”, presieduta da Tina Anselmi, casacca DC, già Ministro del lavoro e della previdenza sociale e Ministro della sanità di due governi Andreotti. La Relazione ribadisce “con fermezza il rilievo assoluto che la Loggia P2 ha rivestito nelle vicende della vita nazionale”, tramite “un disegno generale di innegabile valore politico”, e stila un cupo ritratto di Licio Gelli. “Si è valso di una tecnica di approccio strumentale rispetto a tutto ciò che ha avvicinato nel corso della sua carriera. Strumentale è il suo rapporto con la massoneria, strumentale è il suo rapporto con gli ambienti militari, strumentale il suo rapporto con gli ambienti eversivi, strumentale insomma è il contatto che egli stabilisce con uomini ed istituzioni con i quali entra in contatto, perché strumentale al massimo è la filosofia di fondo che si cela al fondo della concezione politica del controllo, che tutto uso ed a nessuno risponde se non a se stesso, contrapposto al governo che esercita il potere ma è al contempo al servizio di chi vi è sottoposto”. Va letta, a fianco, la contro-relazione, cioè la “Relazione di minoranza dell’onorevole Massimo Teodori” – deputato del Partito Radicale –, perché mette in chiaro diverse asperità. Intanto, da subito, attacca “l’inadeguatezza dell’intera classe dirigente partitica di fronte a quella che, a ragione, è stata definita una ‘associazione per delinquere contro la democrazia’”; poi definisce la P2 “parte integrante del sistema politico ed elemento essenziale della sua sussistenza”.
Di certo, Gelli fu abilissimo a giocare, come si dice, su più tavoli. In un capitolo della sua relazione Teodori sviscera “la collaborazione Gelli/PCI: scheletro nell’armadio di Gelli, del PCI e dei servizi segreti”, con queste parole: “Fra le tante supposizioni ed ipotesi interpretative, una cosa soltanto non è controversa: che cioè nel 1944-1945 Gelli collaborò con il PCI, attraverso la componente del CLN, e che dal partito gli vennero aiuto e protezione per superare le difficoltà incontrate come repubblichino e collaborazionista, cosa che gli permise di superare indenne quei giorni, forse anche salvando la vita”. Il resto, in questo Romanzo Italiano dove nessuno è innocente, è la trama di un sistema di relazioni ‘spericolate’, con l’intento di sostituire allo Stato un contro-Stato, anzi, un altro-Stato, fatto da quelli che contano davvero. La P2 di Gelli sarebbe dietro i fatti più clamorosi della storia italiana recente: il golpe Borghese del 1970, la strage dell’Italicus del 1974, in cui morirono 48 persone (così la Anselmi: “la Loggia P2 è gravemente coinvolta nella strage dell’Italicus e può ritenersene anzi addirittura responsabile in termini non giudiziari ma storico-politici, quale essenziale retroterra economico, organizzativo e morale”), la fine di Aldo Moro (così Teodori: “In mancanza di mia verità provata circa il complotto contro Moro, in particolare per quel che riguarda il suo mancato ritrovamento, in questa sede dobbiamo concludere che le molte tracce della presenza P2 in tutto il caso devono esser lette nel senso di un contributo necessario all’esito della vicenda: la consegna della morte di Moro alla politica italiana come momento cruciale per gli assetti della Repubblica”). Teodori ricostruisce i rapporti tra Angelo Rizzoli, l’editore, e la Loggia P2, squaderna “la politica del Corriere della Sera piduizzato”, capisce che l’azione politica passa tramite quella editoriale, della comunicazione (“il rapporto fra la Rizzoli a direzione piduista e il sistema di partiti si consolida ad un punto tale che sarebbe stato impensabile ad una qualsiasi altra lobby di riuscire ad esercitare tali e tante influenze per strappare un regalo o un furto di molte centinaia di miliardi dallo Stato”). Insomma, l’operatività di Gelli faceva comodo a tanti, a quasi tutti.
Torno alla signora riccionese, alle bambole come emblema della società italiana, dove tra chi governa e chi è governato si intavola un rebus e non c’è distanza, nella nebbia politica, nella nebulosa eversiva, tra chi è funzionale, funzionario, una funzione. Intanto, cosa ci fa Gelli sulla Riviera romagnola? Stando alle testimonianze di Carla Venturi, collaboratrice di Gelli, rilasciate nel 1985, è certo che il ‘Venerabile’ passasse le vacanze a Riccione e a Rimini. Secondo alcuni non faceva soltanto passeggiate in riva al mare. “A Riccione veniva tanta gente. Qui si sono prese decisioni grosse, sai?”. No, non lo so. “Diciamo che era un posto discreto, lontano dalle grandi città, dalla sorveglianza…”, mi dice un riccionese, all’epoca dall’altra parte della barricata, imbarcato in Lotta Continua. Ci pensavate voi a controllarlo? “Facevamo il possibile”. Non si cava olio dalle pietre. Torno ai dati reali. Un paio di coincidenze narrano i rapporti di Gelli in Riviera. Intanto, “la figlia prediletta” di Gelli, Maria Grazia, era la compagna di Giovanni ‘Gianni’ Fabbri, l’imprenditore della notte, l’uomo della leggendaria discoteca “Paradiso”, a Rimini (frequentata anche da Umberto Eco, che lassù, insieme al semiologo Paolo Fabbri, fratello di ‘Gianni’, sospirava, “qui è meglio che a Los Angeles”). L’adorata figlia di Licio Gelli muore in un terribile incidente stradale, nel giugno del 1988: al volante della Mercedes 560Sec c’è proprio Fabbri, salvo per miracolo nello scontro avuto, presso l’uscita autostradale di Calenzano, con un autocarro. “Maria Grazia Gelli stava rientrando a Firenze dopo una breve vacanza sulla riviera adriatica. Era insieme ai due figli, Andrea e Alessio, di 7 anni, e alla baby sitter, una giovanissima ragazza finlandese, Sary Makkonen, anche lei deceduta”, ricorda il ‘pezzo’ di Paolo Vagheggi uscito su la Repubblica il 22 giugno di quell’anno. La seconda circostanza l’ho davanti agli occhi, scandita in lettere.
Il titolo lo ottenne da Umberto II di Savoia, nel 1980, poco prima che la P2 da fenomeno esoterico divenisse di dominio pubblico, oggetto di un vasto stuolo di pubblicazioni. Il titolo appare in tutti i biglietti beneaugurali e sulla carta intestata, lo stemma “trinciato, alla catena d’oro sulla partizione; di rosso all’elmo piumato d’oro d’azzurro alla croce latina d’oro, accompagnato da tre stelle d’argento a quattro raggi, male ordinate”. Il motto del Conte Licio Gelli è Virtute progredior. Al titolo, il più noto faccendiere della Repubblica Italiana, il venerabile della loggia P2, già ispettore del Partito Nazionale Fascista, già ‘repubblichino’, già partigiano, già un mucchio di altre cose, teneva molto. In molti sanno che Licio Gelli passava per Riccione. Alcuni sospettano che a Riccione, in disparte dai grandi centri, tramasse i suoi intrighi. Ma questa, per lo più, è pappa per fiction. Nessuno sa che Licio Gelli aveva un’amica a Riccione. L’ho scovata cinque anni fa, incassata nel suo mausoleo di bambole. Gelli ha donato alla signora una ventina di libri, tutti autografati. L’epistolario, ventennale, conta una trentina tra biglietti di auguri per le feste, garbati ed eccentrici (nel 1995 gli auguri arrivano in forma di assegno, intestato da “La Banca del Paese che non c’è” per la somma di “un miliardo di auguri”; in allegato, da “questa povera Italia sfruttata e depredata, vittima dei governanti, dei partiti e di certi magistrati”, un biglietto della Lotteria Nazionale Italia “con l’augurio che sia tra i vincenti”), e qualche foglio dal contenuto più importante. Nessuna rivelazione, se non la cronaca del proprio labirinto.
In una lettera del 23 aprile 2000, Gelli si confida. “Ho percorso tutto il calvario come Cristo, flagellato e con un fardello di una croce che per Cristo ebbe una breve durata, mentre per me è un cammino che dura da un ventennio. Le dirò che la Croce di Cristo l’avrei portata volentieri, ma quella ordita da un gruppo di magistrati criminali agli ordini dei comunisti (che non mi perdonano le mie idee e la partecipazione alla guerra spagnola), non mi rassegno a portarla e non avranno la soddisfazione di andare a chiedergli ‘perdono’”. Dalle lettere consultate, risalta un Gelli privato, a tratti paterno (“sarà un piacere telefonarle per un incontro che ha subito un ‘cumulo’ di tempo non per negligenza”; “non ci fermeremo al caffè, ma ad una colazione, così avremo più tempo per raccontarLe, molto ristretta, la mia storia”), felice di giocare al martire.
Un libro dice tutto. O meglio, dice tutto ciò che è possibile dire. S’intitola La verità, lo pubblica Demetra edizioni, nel 1989. Regalato, “con stima e simpatia”, il 3 maggio 1993, alla signora riccionese. Nel capitolo finale, Amico degli umili e dei potenti, il ‘venerabile maestro’ ricapitola la lista dei “Riconoscimenti” ricevuti. A partire da quelli elargiti per lui da Benito Mussolini (“mi consegnò una medaglia con l’effigie di Francesco Ferrucci”, era il 1938), alle confidenze di Juan Peron, Presidente della Repubblica argentina (“l’amicizia tra me e Peron non è mai venuta meno; anzi, si è sempre più rafforzata”), ai legami con Ronald Reagan, Hailè Selassiè, Umberto II. Mettendo ordine tra le lettere: il primo biglietto è del 15 dicembre 1993, quindici anni fa (25 aprile 2006) il fatidico trescatore, il burattinaio della Repubblica Italiana, si rivolge con garbo all’amica, “le unisco anche una mia raccolta di liriche che mi auguro possa trovare posto nella Sua Biblioteca”. Nonostante le opinioni dell’editore, Giuseppe Laterza (che parla di Il mio Domani come di “una nuova rinascita del pensiero e del poetare”), Gelli è un pessimo poeta. Il 20 ottobre del 2000, dopo aver subito una operazione all’Ospedale di Firenze, scrive, “desidero farLe una sorpresa, perché la prima telefonata sarà per Lei”. Qualche mese prima (8 marzo 2000), travolto dai guai giudiziari, è meno brillante: “purtroppo per effetto di quest’ingiusta persecuzione, non sono nelle condizioni di poterLa incontrare e neppure di poterLe telefonare ma, dovremmo essere arrivati a scrivere la parola fine su quest’assurda odissea, almeno io lo spero”. Non sarà così, perché per la vicenda del Banco Ambrosiano Gelli è condannato, dal 2001, ai domiciliari a Villa Wanda. L’ultima lettera è dell’11 agosto 2014, quando le condizioni di Gelli precipitano: “francamente mi sembra improbabile un caffè assieme nella sua Riccione”, scrive. Il 15 dicembre del 2015 muore. Esattamente 22 anni prima, il primo biglietto di auguri all’amica riccionese. Le dava della Signorina.