Creare un nemico semplifica le complessità. Banalizza il reale. Nel nemico si esemplificano facilmente le paure di un’intera civiltà. Così è per il terrore della tirannide incarnata dalla Russia, nella difesa ossessivo-compulsiva da parte dell’Occidente delle proprie “libertà fondamentali”, cui si affianca l’orrendo ricordo delle guerre mondiali che pure ebbero il proprio epicentro nel Vecchio Continente. Nemesi seppellita dalla storia e da una pace fin troppo illusoria, riemersa prepotentemente sui campi di battaglia dell’Ucraina. Così avviene di riflesso da parte russa, laddove è la corruzione dei costumi il terrore latente. L’ateismo dilagante. L’Occidente è percepito come ormai giunto ad una fase crepuscolare e dunque, quale katechòn vivente, dovrà essere la Russia a redimerlo, anche a costo di annientarlo.
A poco servirebbe riflettere su quanto tali divisioni, pur radicate spiritualmente, non permettano di scorgere quanto la Russia sia stata o abbia tentato di essere Occidente. La Russia post sovietica è stata per anni strutturalmente desiderosa di “far parte dell’Europa”, quando già visceralmente tendeva all’Asia. La Russia e l’Occidente scontano il male atavico di una incomprensione reciproca. Le logiche belliciste implicano oggi l’annullamento di ogni comprensione e l’avanzata imperante di elementi semplificati e banalizzati da ambo le parti, ad alimentare le rispettive propagande. L’immagine dell’imperialismo russo è ancestrale e sempre presente tra le preoccupazioni delle cancellerie del Vecchio Continente, almeno da quando il concerto delle grandi potenze, post congresso di Vienna, entrò in crisi. Così la Crimea – fatalmente cruciale nel regolare i rapporti e gli spazi di potenza reciproci tra i paesi dell’Europa occidentale e la Russia – divenne già nel 1854 il terreno per uno scontro dai tratti “religiosi”. Così Orlando Figes ha intitolato un recente saggio sulla guerra di Crimea, L’ultima crociata, ad evidenziare l’apparato messianico a supporto – specialmente- dell’apparato russo.
È evidente che la vittoria sul campo passi prima, obbligatoriamente, dalla vittoria nelle retrovie. La guerra contemporanea esalta la mobilitazione della società ad ogni sacrificio e costruisce, sul proprio mito – si guardi al mito occidentale della libertà – e sul discredito totale dell’avversario la propria forza. Nessun incremento della spesa militare può pareggiare in efficacia una tale politica. Il Novecento, secolo infinito, che pur nel tramonto dei suoi capisaldi – si vedano i grandi partiti, le grandi ideologie e i nazionalismi – mantiene ben salde le proprie posizioni e la propria influenza sulle nostre anime, è oggi più che mai un punto di riferimento. Guardando al contesto dell’Italia liberale emerge, ad esempio, come la bipartizione tra fedeli alla causa e traditori, intesi come contrari al perseguimento e al raggiungimento di interessi nazionali (vedasi, oggi, occidentali), sia avvenuta, con lo scoppio della Grande Guerra e l’ingresso dell’Italia in guerra nel 1915, sul solco di una guerra della civiltà e della libertà contro la barbarie. In entrambi i casi si deve sottolineare la combinazione tra demonizzazione del nemico esterno ed indebolimento del fronte interno. Alla fine dell’Ottocento, con l’incedere di una trasformazione economica e tecnologica a tratti inarrestabile, il Positivismo entrò in crisi. Al progresso tecnico si associarono timori ed aspettative in merito ad l’inevitabile involuzione dell’uomo e della sua società. La catena di montaggio secondo il modello fordista si affermò e si impose, alimentando la figura dell’operaio-massa e il mito di una accelerazione ormai insostenibile per l’uomo moderno. La degenerazione (titolo di un celebre saggio di Nordau) era percepita come ormai quasi inevitabile. A ciò si rispose proponendo una vera e propria opera di risanamento grazie alla nascente eugenetica, di una società giudicata pericolosamente malata.
Sull’onda della percepita decadenza e degenerazione della civiltà umana occidentale, il culto della guerra alimentò il mito della rigenerazione. Al senso di solitudine e di irrilevanza percepita del singolo essere umano calato nella società di massa, in profonda decadenza, si opponeva la ricerca di un senso di appartenenza e di solidarietà immediata con gli altri membri della comunità, tale da restituire la vitalità ormai perduta. Il nemico divenne dunque molto presto, nell’Europa occidentale in procinto di affondare nel fango delle trincee, la rappresentazione a specchio di tali paure degenerative, ed un’occasione per compattare una società malata, risanandola dall’interno mediante l’esterno. Fu per questo che, nell’Italia ancora neutrale, vennero gradualmente considerati nemici della patria i partiti ostili alla guerra, percepiti come possibili alleati o spie infiltrate al servizio del nemico esterno, nonché come dei corpi estranei potenzialmente dannosi per la vita dell’intero organismo.
Nel febbraio del 1915, ad esempio, i repubblicani rappresentati dal democratico Napoleone Colajanni, presero le difese del ministero Salandra in merito alla proibizione di comizi e manifestazioni in seguito ad alcuni incidenti con i socialisti, scoppiati a Reggio Emilia; proprio i socialisti furono accusati di essere stati sobillati da agenti tedeschi o austriaci, per favorire la neutralità italiana ed impedire l’ingresso dell’Italia a fianco dell’Intesa. La polemica proseguì all’interno delle fila degli stessi repubblicani e democratici interventisti. Se Ignazio Berra, nelle pagine di Rivista popolare, esaltava il «salutare confronto» tra neutralisti ed interventisti, nella risposta di Colajanni, ci si richiamava alla congenita metafora dell’Italia percepita come paese malato:
«La ginnastica della libertà è magnifica moralmente ed anche esteticamente; ma si addice ad organismi sani. L’organismo politico-sociale italiano è infero di un’anemia pericolosissima: soffre di mancanza di sentimento nazionale.»
Unica cura per un simile organismo sarebbe dovuta essere quella di accentrare ogni potere nelle mani di uomini in grado di guarirla e di affrontare l’urto “formidabile” contro Germania ed Austria-Ungheria con abnegazione e senso di sacrificio. Questa guerra era vista come una guerra giusta, totalmente difendibile. Il 23 maggio del 1915 un decreto reale (n. 675) concedeva ai prefetti la possibilità di procedere al sequestro della stampa giudicata pregiudizievole rispetto all’impegno bellico del paese. Era ritenuto necessario schiacciare una volta per tutte il militarismo austro-tedesco, per garantire ai popoli del continente il diritto alla libertà. È significativo sottolineare come individui di orientamento politico sinceramente democratico o rivoluzionario, tentassero di spiegare in termini biologici la diversità della civiltà latina da quella germanica. Sul nemico germanico vennero riversati stereotipi razziali applicati fino ad allora ad abitanti di paesi extraeuropei. Dunque– e la cosa avvenne reciprocamente – il nemico fu dipinto come un individuo capace di ogni mostruosità, da distruggere o emarginare dalla società umana. Nel 1915 il vescovo di Londra proclamò la guerra ai nemici della libertà:
«Tutti coloro che venerano la libertà e l’onore, tutti coloro che antepongono al benessere i propri principi […] devono riunirsi in una grande crociata al fine di – inutile negarlo – sterminare i tedeschi. Ucciderli non per il piacere di uccidere, ma per salvare il mondo [da] quei mostri demoniaci che hanno crocifisso un sergente canadese, coloro che hanno sovrinteso ai massacri dell’Armenia o che hanno affondato il Lusitania, e anche coloro che hanno puntato le mitragliatrici sui civili di Aerschott e di Lovanio. In breve, bisogna ucciderli nel timore che la civiltà intera non venga essa stessa assassinata.»
I tedeschi vennero percepiti e descritti come subumani. Dati reali e fantastici vennero confusamente mescolati: dall’accanimento contro i feriti nemici, al lancio con gli aerei di caramelle avvelenate per bambini, fino alla premeditata distruzione delle bellezze artistiche e alle deportazioni di massa. L’ “Illustrazione italiana” si associò a tale accanimento propagandistico, descrivendo ironicamente i tedeschi intenti a distruggere chiede e monumenti in Francia e Belgio. Il nemico venne descritto come devoto al culto della lotta per la lotta, perseguibile anche mediante «spionaggio sistematico, mancato rispetto dei trattati internazionali, violazione dei diritti altrui e condotta barbara dell’esercito». I timori degenerativi, intrinsecamente razzisti e grotteschi, entro i quali la Germania incarnava tutte le caratteristiche selvagge e primitive che l’Europa aveva imparato ad attribuire ai popoli extra-europei, si associarono inoltre all’altra paranoia del Vecchio Continente: quella della modernità alienante. I tedeschi furono visti come i portatori di una tecnica estrema e disumanizzante.
La Germania era uno dei paesi più avanzati d’Europa, pertanto esemplificazione di tutti gli elementi degenerativi più temuti: dall’utilitarismo, alla “tendenza al piacere per il piacere”, dall’amore per il denaro, alla cancellazione delle individualità del singolo in favore di un meccanismo di massa. Infine, fatto ancora più grave, la Germania – secondo le parole di Teresa Labriola, docente a “La Sapienza” di Roma, figlia del celebre Antonio Labriola – era da ritenersi responsabile di aver rovesciato il proprio militarismo contro la Francia, storica portatrice di libertà universali. È dunque nella contrapposizione tra libertà e barbarie a giocarsi il meccanismo della propaganda – anche ai livelli più alti del mondo intellettuale ed accademico – italiano e delle potenze dell’Intesa, contro gli avversari degli Imperi Centrali. Verrebbe da chiedersi se gli ideali in quanto tali giustifichino in ogni caso il ricorso alla violenza e se esista una guerra “giusta” perché sorretta da principi di libertà. Oggi come allora, spesso ad incarnare il più abietto ed intransigente militarismo – da parte occidentale – sono i più fedeli vassalli delle libertà universali, arruolati come esponenti di punta di una “guerra sacra” contro il nemico della tirannide. Come sottolinea Di Dario, si tratta dell’espressione di una religiosità morbosa ed avvizzita, che dal Medioevo ai nostri giorni caratterizza e sorregge quest’ultima fase del tramonto occidentale:
«Una violenza di fine ciclo, sorretta dalla razionalità dell’adulto e dalla testardaggine del vecchio; una violenza il cui scatenamento si giustifica “in nome di qualcosa”.»
Riferimenti bibliografici:
Angelo Ventrone, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Donzelli editore, 2003
Angelo Ventrone, Grande guerra e Novecento. La storia che ha cambiato il mondo, Donzelli editore, 2015