L’ordine internazionale liberale è l’insieme di istituzioni e di regole tramite le quali è stata data la forma al sistema delle relazioni internazionali nel secondo dopoguerra. Imperniato sulla leadership degli Stati Uniti, questo sistema è stato finora – in modo sempre più fallace – concertato da cinque organismi: l’ONU, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, l’Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio (sostituito in seguito dall’Organizzazione Mondiale del Commercio), e la NATO. In particolare, da un lato, l’ONU doveva costituire un consesso a vocazione universale nel quale gli Stati potevano ridurre al dialogo e alla diplomazia le schermaglie che si fossero di volta in volta innescate fra le parti, con l’obiettivo principe di mantenere la sicurezza collettiva e l’autodeterminazione dei popoli. Dall’altro gli istituti economici scaturiti dagli accordi di Bretton Woods avevano il compito di ingigantire la massa dell’economia globale, offrendo sostegno ai Paesi in via di sviluppo, per creare, in ultima analisi, le condizioni ottimali ad un benessere materiale diffuso, nonché lubrificato da una moneta di riferimento “imperiale”: il dollaro.
Fino almeno agli anni Ottanta e – senz’altro – se letto da un punto di osservazione “primomondista”, l’attrito, nell’ordine internazionale liberale, fra la componente politica con quella economica sembrava risolversi in un perfetto equilibrio. Non era proprio così. Immediatamente dopo la fine della guerra si rese manifesta la prevaricazione dell’anima economica liberista su quella politica liberal-democratica. Difatti se la democrazia restò per molto tempo un sistema di governo squisitamente occidentale, il libero mercato si diffuse anche in quelle parti del mondo che non erano né libere né comuniste: nelle dittature sudamericane, nelle monarchie conservatrici del Medio Oriente, fino agli anacronistici Stati fascisti europei, come il Portogallo salazarista e la Spagna franchista.
Questo squilibrio, apparentemente creatore di disordine, era in realtà il sistema internazionale più ordinato, inflessibile e orizzontale mai creato dall’origine dello Stato-Nazione postvestfaliano. Ed è per questo motivo che il grande vecchio della diplomazia, un demiurgo del concetto di “equilibrio” fra potenze, come Henry Kissinger fu in grado di indirizzarne le sorti durante gli anni Settanta, ad influenzarlo dopo la sua stagione al governo, per poi continuare ad ergersi come oracolo delle sue dinamiche ancora dopo il compimento dei suoi cento natali. Tutt’altro che un rivoluzionario nel suo campo ma, da attento conoscitore della storia, ha fatto degli eventi di essa una mappa per orientarsi nel firmamento del presente. In quanto maestro di scuola realista certo non ha mai avuto una fantasia sviluppata ma nella diplomazia questa non è una qualità richiesta; certo, sta di fatto, che se è impossibile estrarre dal corso del tempo le leggi degli eventi, Kissinger è arrivato molto vicino a conseguire questo traguardo.
Essere scienziato dell’historia rerum gestarum, significa avere le chiavi per prevedere – e forse in alcuni casi determinare – l’immediato futuro. Associare una solida conoscenza del passato alla predisposizione innata di studiare il presente in modo disincantato ed asettico, fino ai limiti di un impossibile empirismo, significa pertanto essere campioni nell’arte della diplomazia. Kissinger ebbe la possibilità di far agire attivamente le sue doti innate non dietro la cattedra di un’aula universitaria piuttosto in un dicastero chiave dell’esecutivo del Paese che muoveva le leve del mondo. L’ex Segretario di Stato – ed è un dato che spesso si è mancato di sottolineare – è stato uno dei rari intellettuali al potere. Egli ha associato il pensiero con l’azione. Nel momento in cui gli scandali politici eclissarono il Presidente Nixon, Kissinger agendo da ministro “plenipotenziario” poté – almeno nell’ambito delle relazioni internazionali -, creare le conseguenze di ciò che programmava.
Il contesto del mondo bipolare, certamente sbilanciato a favore della rampante economia di mercato, era certo (o paradossalmente?), se analizzato nella sua sola dimensione politica, un sistema solidamente equilibrato. Siffatta prospettiva era quanto di più vicino ci fosse alla concezione kissingeriana di «ordine mondiale». I Paesi orbitanti nell’area del socialismo e sopra di tutte l’Unione Sovietica, pur aberrando il liberismo economico, accettavano di fatto le regole di quel nuovo «Nomos della terra» che nel dopoguerra avevano scritto e negoziato assieme agli Stati Uniti. Ed ecco che un mondo apparentemente spaccato a metà si rivelava invece un ring, all’interno del quale i due rivali coi rispettivi satelliti si sfidavano seguendo un regolamento che aveva del metafisico: taciuto da entrambi ma da entrambi consensualmente scritto su mitiche tavole di pietra. Una volta segnati i confini del possibile questi non potevano essere valicati: l’uno non era propriamente il nemico dell’altro, era solamente il rivale. Da qua scaturiscono i comportamenti standardizzati del vecchio sistema bipolare: la guerra esiste ma solo in modalità proxy, esclusivamente condotta nel Terzo Mondo, e mai con gli egemoni dell’ordine a scontrarsi direttamente sul campo; la distensione nelle politiche sugli armamenti e il concetto di deterrenza nucleare; il consesso delle Nazioni Unite come gran teatro dove si appianano le divergenze e si emettono le risoluzioni alle guerre per procura quando raggiungono quella fase di acme svantaggiosa per gli stessi protagonisti dell’ordine.
È chiaro come per Kissinger – la cui riflessione sul concetto di equilibrio nacque da una tesi di dottorato sul cancelliere austriaco Metternich e l’equilibrio nato fra potenze europee con il Congresso di Vienna (1815) – lo scontro Est-Ovest fosse la realizzazione su scala globale della stabilità europea dell’epoca post-napoleonica. Ma qual è il fine dell’equilibrio? Il fine è la creazione di un sistema ordinato, dove ogni crisi può essere sempre addomestica, dove ogni increspatura può venire appianata, dove, in ultima analisi, la pace può essere garantita. Sul piano operativo questo risultato è conseguibile quando a tutti gli attori – ovviamente i più forti – usciti da una fase di turbolenze come una guerra, sarà permesso di partecipare alla stesura delle regole che plasmeranno il mondo di domani e, in secondo luogo, se nessuno di essi verrà poi demonizzato come il male assoluto, pena il tentativo dell’escluso a rovesciare il sistema nell’auspicio di veder riconosciuta la propria dignità e i propri diritti.
Allacciandosi ai fatti della contemporaneità, non è un caso che Kissinger sia stato il primo che, in senso contrario alla quasi totalità dei media mainstream, abbia sottolineato, già dall’aprile 2022, non solo che l’Ucraina avrebbe dovuto ridimensionare le sue aspettative accettando, quando verrà il momento, una soluzione di compresso dove vedrà sì mantenuta la sua sovranità ma non certo i confini post 1991; ma soprattutto per aver sollevato l’appello affinché da parte occidentale i rapporti con Mosca non si abbrutiscano al livello di lotta all’ultimo sangue fra democrazia e autocrazia, di bene contro il male. Nell’ottica realista del professore di Fürth la Russia, come del resto Cina, non devono essere sfidate in un corpo a corpo hobbesiano ma integrate in sistema. Risulta chiaro come la posta in gioco sia quella di un nuovo sistema internazionale, possibilmente “ordinato”, che dovrà essere fissato proprio in questi anni di transizione silenziosa, perché ormai, dopo la fine del bipolarismo, è stata certificata anche la morte della Pax Americana, ossia quella stagione dove gli USA avevano la forza economica e militare per ergersi a “poliziotti del mondo”, intervenendo in armi in ogni suo angolo e dove il loro «potere strutturale» – per usare un’espressione di Susan Strange -, imperava indisturbato.
Nell’attuale crisi di anarchia geopolitica Kissinger propone, emulo di Metternich, non il mondo unipolare sognato dalla caduta del Muro di Berlino, ma una spartizione del mondo in sfere di influenza, senza ostracizzare le potenza antagoniste ma cooptandole all’interno di un sistema che sia in grado di far percepire a ciascuno la sua importanza al fine di garantire il kósmos, ossia l’”ordine”, che se per i greci era quello dell’universo e degli astri nel loro moto, più prosaicamente, quello di Kissinger è l’ordine degli Stati sulla Terra.