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Le origini del male

Oggi Vienna, ieri Nizza, domani potrebbe essere ovunque. Sbaglia chi incolpa Erdogan: non è stato lui a creare il terrore, siamo stati noi.
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L’Europa ha un problema, e questo problema non si chiama islam né tantomeno porta il nome di Recep Tayyip Erdogan. Un filo conduttore lega le vicende dell’ottobre di tensione che ha scosso il Vecchio Continente, la mattanza del Bataclan, la strage di Barcellona dell’agosto di tre anni fa, l’attentato alla sede di Charlie Hebdo e altri eventi apparentemente slegati al terrorismo, come le rivolte periodiche nei ghetti etnici che adombrano le grandi metropoli di Francia, Inghilterra, Germania e Svezia. Il problema, che poi è anche il filo conduttore che collega terrorismo, criminalità e disagio sociale, è il modo in cui l’Europa (non) ha gestito l’immigrazione e l’integrazione.

La Francia, ad esempio, ha aperto i propri confini agli abitanti delle ex colonie e ai reduci delle due guerre cecene senza pensare alle conseguenze nel lungo termine derivanti dalla loro ghettizzazione permanente, dalla loro esposizione all’islam radicale e dai tentativi di assimilazione forzata. Persone trattate come numeri: utili a potenziare la manodopera per le fabbriche, perfetti sostituti di autoctoni sempre meno numerosi e sempre più anziani, eppure condannati ad essere dei cittadini di serie B.

La rivolta nelle banlieue parigine del 2005 è stato uno dei più gravi episodi di disordine urbano mai verificatosi in Francia e ha aperto gli occhi alle autorità e al mondo, riguardo la situazione di profondo disagio in cui vivono i “nuovi francesi”

La Germania e l’Austria, invece, hanno creduto che potesse essere possibile aprire le porte a centinaia di migliaia di lavoratori dalla Turchia, anche di etnia curda, senza che nel tempo si ricreassero i dissidi che li dividono in madrepatria e senza che si verificasse la nascita di società parallele al cui interno avrebbero proliferato terrorismo e sciovinismo e avrebbero sguazzato servizi segreti, organizzazioni criminali e cellule jihadiste.

Lo stesso scenario è accaduto in Svezia, in Danimarca, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, nell’apparentemente tranquilla Spagna, e presto potrebbe toccare anche l’Italia. Il terrore c’è, esiste, è palpabile, ma il problema non sono l’islam e la retorica bellicista del sultano neo-ottomano. Le origini del male che affligge, e continuerà ad affliggere, l’Europa sono da ricercarsi nell’incapacità delle nostre classi politiche di sviluppare strategie agenti su orizzonti temporali di lungo termine, nella trasformazione di persone in numeri, nella mortificazione di ogni sistema valoriale che non promani dal liberal-progressismo, e nella continua adozione di metodiche e soluzioni basate sul riduzionismo spicciolo.

La chiusura di un centro culturale islamico a Herrgården, un quartiere multietnico di Malmö, ha innescato una pesante guerriglia urbana nel 2008, descritta dalla polizia svedese come la prima, seria rivolta di giovani immigrati nel paese nel 21esimo secolo.

Quest’assenza di lungimiranza, che caratterizza tanto la Francia quanto l’Italia e la Svezia, funge da freno inibitore per l’elaborazione di ragionamenti complessi e da propulsore per la produzione di ottuse astrusità. L’attentatore di Nizza era sbarcato a Lampedusa, perciò la soluzione è la chiusura dei porti. L’assassinio di Samuel Paty era una rappresaglia per la mostra delle vignette blasfeme su Maometto a degli studenti, allora la soluzione dovrà essere la loro pubblicazione sulle facciate degli edifici. Erdogan è colui che ha incitato il mondo musulmano alla rivolta, quindi che si boicotti la Turchia e si proceda ad espellerla dall’Alleanza Atlantica.

Puri e semplici palliativi, spesso privi di logica e di buonsenso, che agiscono sul ramo, quando il problema si trova alla radice; ma è questo ciò che vuole l’elettorato medio ed è questo tutto quel che può proporre una classe politica che ha scambiato il Parlamento per un cabaret, in Francia come altrove. Inutile chiudere i porti fino a quando il vicinato geografico dell’Europa, dal Vicino Oriente al Nord Africa, sarà avvolto da guerre, povertà e instabilità di vario tipo, provocate dalle politiche delle nostre classi dirigenti. La pressione migratoria lungo i nostri confini non farà che aumentare e, infine, ci travolgerà.

Non si può combattere una battaglia sulla laicità e sul laicismo scambiando la libertà per d’espressione per libertà di blasfemia, trasformando quest’ultima in uno dei presunti valori della civiltà occidentale per scopi elettorali e alimentando i rischi di uno scontro frontale con l’intero mondo musulmano. Non è Erdogan, infatti, che sta dirigendo le proteste e le rivolte che stanno avendo luogo dal Marocco al Bangladesh: è la fede dei dimostranti, è la volontà di replicare alle offese rivolte ad una religione seguita da quasi due miliardi di persone.

Sbaglia chi crede che Emmanuel Macron sia interessato al benessere dei francesi e all’integrazione dei musulmani: sta strumentalizzando la questione Charlie Hebdo per rubare voti al Raggruppamento Nazionale della famiglia Le Pen. Del resto, se realmente vi fosse urgenza di approvare una legge contro il cosiddetto separatismo islamista, Macron non aspetterebbe di iniziare i lavori in tempo per il prossimo appuntamento elettorale.

Recep Tayyip Erdogan circondato da figure vestite in tradizionali abiti da guerra ottomani

Sbaglia, infine, chi pensa che il problema sia Erdogan. Il presidente turco è uno statista di altri tempi, un uomo che conosce il vero significato della parola “politica” e lo ha dimostrato in ogni settore e dossier: dal ricatto migratorio alla realpolitik con la Russia, passando per la capacità di mobilitare il mondo musulmano attorno a sé. Non ha creato Erdogan le bombe sociali che periodicamente esplodono, seminando morte e distruzione, nelle periferie di mezzo continente; e non è stato Erdogan a infiltrare i ghetti con predicatori radicali. L’arrivo turco, infatti, è molto recente e per tre decenni i musulmani europei hanno subito l’influenza del wahhabismo delle petromonarchie del Golfo.

Attribuire una responsabilità morale alla Turchia per i recenti attentati di Nizza e Vienna equivale a ignorare quasi vent’anni di guerra al terrore. Non è in corso uno scontro di civiltà, ma un gioco vile e pericoloso a scaricabarile con cui i politici europei sperano e tentano di nascondere all’opinione pubblica la verità, ovvero che per decenni hanno trattato persone alla stregua di numeri, accolto non rifugiati ma combattenti e terroristi e importato visioni dell’islam perniciose come il wahhabismo, sullo sfondo della conduzione di politiche estere bellicose e imperialistiche che hanno incendiato il vicinato geografico europeo.

Il male che affligge l’Europa, quindi, non nasce ieri e probabilmente non scomparirà domani. Per capire come si è arrivati alla trasformazione delle periferie europee in polveriere pronte a esplodere da un momento all’altro e per inquadrare lo scontro tra Francia e mondo musulmano, abbiamo deciso di invitare l’analista politico Brahim Ramli alla nuova puntata di Confini.

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