“Se un albero cade in una foresta e nessuno lo sente, fa rumore?” Per Berkeley la risposta era chiara: l’albero non fa rumore, in quanto gli oggetti esistono solo se percepiti. E così accade per le grida umane.
Aldilà del mediterraneo c’è un frastuono di paura e di abbandono che l’acqua, quale pessimo conduttore di suono, non riesce a trasmettere alle sponde.
Una nazione che ha già perso molto la cui storia è ricolma di dolorosi incubi rischia, ancora una volta, di scomparire.
Non siamo a Ramallah o in qualche capitale di uno sconosciuto e autoproclamato stato. Siamo a Yerevan e queste sono cronache di un Caucaso che non viene compreso nella retorica della “Guerra in Europa”. Ma al confine dell’impero la temperatura geopolitica sta salendo e non dovrebbe far dormire sogni tranquilli ai portatori di coscienza. L’Europa protettrice e garante non esiste più: il tradimento dei valori umanitari a Gaza, dove l’interesse di partenariato supera il valore umano, non è l’unico caso. Aldilà della bellissima retorica colorata i soldi sono ancora i padroni del mondo e il Mediterraneo non è l’unica valle di lacrime. A nord del sanzionato e osteggiato Iran, il nemico è alle porte e mai più potente e assetato di oggi. Conclusa la vittoriosa campagna del Nagorno Karabakh, Aliyev sembrerebbe puntare, forte di un consenso elettorale putiniano, all’espansione e alla connessione con l’exclave azera di Naxçıva. L’Azerbaijan infatti è una nazione divisa in due da una piccola striscia di terra Armena che gli Azeri, cresciuti a odio etnico e ultranazionalismo, vorrebbero sottomettere al loro dominio avvicinandosi ulteriormente alla già pericolosa e poco democratica, ma per essi fraterna, Turchia. Rischiando di creare un clima tossico per quasi 3 milioni di Armeni. Le recenti escalation all’interno del territorio dell’Armenia ancora occupato dall’esercito della mezzaluna lo confermano.
La bulimia di informazioni sulla guerra in Ucraina e la reticenza che invece gli stessi media dedicano al conflitto in terra santa, Yemen, Congo, Armenia, Kosovo – e così via – esprimono ampiamente quanto oramai la coerenza europea sia corrotta e la sua integrità morale venduta ai potenti. L’Europa si è seduta al tavolo della geopolitica con la stessa leggerezza con la quale quale ci si siede a un buffet: decide quali guerre attenzionare e quali trascurare, con quali dittatori fare affari e quali spodestare.
Michele Serra scriveva, non molto tempo fa, che l’uomo non è altro che un gorilla che ha imparato a usare le posate. Non è poco, ma forse non è abbastanza. La politica internazionale, e in particolare europea, se, come dice, vuole avere un ruolo di modello etico nel mondo deve abbandonare alcune leggi ancestrali retaggio dei primati. In particolare quella di schierarsi sempre, salvo sporadiche ma “utili” eccezioni, al fianco del più forte o comunque del più utile. La vergognosa vicinanza politica che l’Italia in particolare ha dimostrato verso l’Azerbaijan, compagno strategico nel campo energetico, sono specchio del disinteresse umano che la politica possiede. Che se da una parte boicotta il gas del tiranno Putin dall’altra tratta e compiace guerrafondai che possiedono il trono per diritto dinastico.
In una calda estate di non molto tempo fa, l’allora intoccabile primo ministro Mario Draghi, chiese agli italiani, in una più che ipocrita invettiva, di scegliere tra il condizionatore e la libertà degli ucraini. Ora che, nonostante il riscaldamento climatico, è inverno, ci chiederemmo quale questione etica sarebbe pronto a porci sapendo che Baku, al momento, è il primo fornitore di petrolio per il nostro Paese con un andamento sempre più in crescita. Suggerimento? Due pesi e due misure.
Le coscienze europee non abbandonino l’Armenia. Gli Azeri hanno aspettato trent’anni di condizioni sociali, economiche e politiche adatte per riprendersi il Karabakh. Ora che la cuspide dei loro sogni è così vicina non aspetteranno molto per realizzare l’utopica unione dell’annessione del territorio armeno.