Amava la velocità, tentava di fuggire da se stesso, “aveva l’impressione di liberarsi di tutto, anche del suo corpo”; obbedì, fino all’infamia; poiché era stato tutto, a tutto poteva rinunciare; quando capì che il deserto gli era congeniale, pur nato tra le valli del Galles, si desertificò. Cominciò a studiare i tempi antichi, i templi dei cavalieri, a dedurre iscrizioni, certo, fin da subito, di non essere di questo mondo. Per gli arabi Thomas Edward Lawrence era iblis, “il diavolo”; per Lowell Thomas scaltro giornalista col gusto per i ‘personaggi’ (nel 1933 scrive il documentario Mussolini Speakes), divenne “Lawrence d’Arabia”. Nel libro che gli ha dato fama, With Lawrence in Arabia (1924; schietto, pettegolo, varrebbe la pena tradurlo), Lowell Thomas descrive l’indole di un uomo votato alla solitudine, terrorizzato dalle folle, dalla macelleria della fama.
“Lawrence non beveva e non fumava: era smodatamente appassionato di cioccolato. In un angolo della tenda, tra libri e cartucce, di fianco alla sella per il cammello, erano impilate diverse scatole di cioccolata. Per il resto, odiava le onorificenze, le medaglie, le parate pubbliche. Quando lo avvisarono che una cerimonia era stata organizzata per lui a Gerusalemme, partì per il deserto, senza ritirare la sua roba, dicendo che aveva un impegno al Cairo. Stupito dalla sua vita spartana, al limite dell’umile, una volta gli ho chiesto che cosa avrebbe voluto acquistare se avesse avuto soldi in quantità. ‘Una Rolls Royce con benzina e pneumatici buoni per tutta la vita, e correre…’, mi aveva risposto, senza esitazione”.
Lowell Thomas l’aveva battezzato The Modern Arabian Knight: tornò negli Stati Uniti nel 1919 con una mitragliata di fotografie fenomenali. T.E. ha il profilo che ricordiamo, reso leggenda dal film di David Lean del 1962: abiti arabi, di suprema nobiltà, viso intagliato, labbra spesse e occhi che gemellano la ferocia a una vaga nostalgia. Consapevole che la Conferenza di pace del 1919 non avrebbe cambiato nulla per gli arabi con cui aveva combattuto, combatté il resto della vita contro la propria icona. Il suo grande libro, I sette pilastri della saggezza, è pensato per sette amici, prodotto in copie private: fu l’edizione predisposta dopo la sua morte, quella del 1935, a renderlo un libro ‘di culto’.
In verità, Lawrence, cavaliere del caos, eroe sbalordito di un’epoca inscritta sulle dune, era estraneo a tutto, a tutti. In uno dei pezzi micidiali de La rivolta nel deserto (“Per spietata chiaroveggenza e austerità di stile non esitiamo ad accostare l’inglese a Stendhal”, scrive Arrigo Cajumi nell’edizione Mondadori del ’30), a chiusura del reportage, poco prima dell’ingresso a Damasco, Lawrence descrive i compagni dall’odore, distinguendo “la pesante, persistente, accumulata acidità del sudore seccato nel cotone della folla araba e il terribile odore dei soldati inglesi, la calda esalazione di piscio di uomini serrati e chiusi in abiti di lana, un’acre asprezza che mozzava il respiro”. Tutto in Lawrence è cupo corpo, carne corvina, orrore verso l’uomo, milizia in un martirio che poco ha del militare. “Se il vasto, squallido, risonante, apocalittico hangar è la nostra cattedrale, il lavoro che svolgiamo ogni giorno è un rito; e l’una e l’altra idea sono egualmente difficili da razionalizzare. Ogni fede comporta una sfida al senso comune”, scrive in The Mint (in Italia: Lo stampo, stampa Adelphi), il resoconto, metallico, incline alla tenebra, della sua esperienza nella RAF. Scontò la fama, scintillante, sacrificando l’oro di sé, il nome: diventò “T.E. Smith”, poi “T.E. Shaw”, infine “John Hume Ross”. Nel 1932 pubblicò una sua versione dell’Odissea: l’aveva compiuta in Pakistan, dove presta servizio dal 1926 al 1929. “È piccolo, silenzioso, quieto, estremamente modesto”, scrive di lui l’editore.
Le donne trovarono affinità con questo eroe elusivo, inclassificabile, in forma di cometa. Cristina Campo traduce la poesia che apre I sette pilastri: “Io ti amavo, e così trassi queste maree d’uomini nelle mie mani/ e scrissi il mio volere in stelle traverso il cielo…”. Victoria Ocampo ne è la congeniale biografa: il suo 338171 T.E. (Lawrence d’Arabia) – ora, finalmente, tradotto dalle Edizioni Settecolori – stampato nel 1942 per Sur, in Argentina, poi tradotto in Francia (da Gallimard, con la bandella le héros de notre temps) e in Inghilterra è un piccolo capolavoro. Ricca, audace, la zarina della letteratura argentina, la levatrice di “Sur”, la donna che dialogava con Camus e Drieu, che si scriveva con Virginia Woolf e che scoprì il talento di Borges, vedeva in T.E., probabilmente, un gemello contrario, inargentato nell’inquieto. L’Arabia di Lawrence – infine, un sogno sottomesso alla reminiscenza – riviveva in villa Ocampo, a San Isidro.
“Come quella di Arjuna sul campo di battaglia, la sua anima era sgomenta. Niente poteva dissipare l’ansia che la paralizzava. Come Arjuna, Lawrence non desiderava più né vittoria, né regalità, né voluttà…”
Victoria Ocampo
La biografia, in fondo, è uno scandaglio nel segreto di Lawrence, nella sua sfacciata, sfaccettata posa amletica, un volo nel dicastero del disastro. Di Lawrence la Ocampo censisce l’ascetismo e l’omosessualità, lo sterminio dell’io, la dedizione al dolore (“La volontà può domare la bestia in noi, solo l’amore può cancellarne la presenza. A Lawrence questa grazia non fu concessa”), la “schiavitù volontaria” (“Lawrence entrava forse inconsapevolmente nella spirale senza fine delle esigenze mistiche?”). La strenua sparizione di Lawrence, fino a distillare tutto di sé, lasciando la leggenda a librarsi, ad alleggerire le utopie altrui, affascina la Ocampo.
“Il suo ideale sarebbe certamente stato di non avere per nome che un numero, perfettamente rassicurante nel suo anonimato”: 338171 è la cifra che gli affibbiano nella RAF. Eppure, ruotandolo, ricavando la vertebra aritmetica, anche un numero comporta un destino.
Per avere un profilo compiuto di Lawrence – pur nel nido della contraddizione, nel cuore di un uomo che fa di tutto per essere frainteso – dovremmo leggere la corrispondenza degli ultimi anni (nel 1942 Longanesi ha tradotto le Lettere dall’Arabia), quando, ad esempio, alla vedova di Thomas Hardy scrive, è il 1928, “Karachi ha il merito, finalmente, di alienarmi da ogni desiderio”. Nell’afa pakistana, vissuta parecchi secoli prima da Alessandro Magno, Lawrence può tutto: avviarsi alla conquista di una città perduta, fare della propria stanza (“un cubo bianco, sempre più stretto, che faccio esplodere leggendo Omero”) una cella. Nel 1935, è gennaio, da un albergo di Bridlington, nello Yorkshire, sul mare del Nord, scrive a Robert Graves, “La gente vuole offrirmi un lavoro, si affanna a relegarmi in un ruolo… io voglio tentare la libertà. Se mi piace, la terrò con me per sempre”. To earn you freedom, scriveva nel poema che apre il suo grande libro. Sarebbe morto poco dopo. Avrebbe voluto morire intatto, forse: rovinò a bordo della sua motocicletta, una Brough Superior. Secondo la Ocampo era animato da “una sete di assoluto che si placa solo nel fallimento in cui inevitabilmente si dissolve ogni trionfo”. Recentemente Christie’s ha battuto un servizio di piatti che apparteneva a Lawrence. Chissà perché, immaginavo mangiasse senza forchette né mani, quell’eroe, solo col muso, coi denti, mordendo, come un leone.