Era il 2002 quando un giovanissimo studioso di geopolitica di ispirazione gollista, Henri de Grossouvre, pubblicava un libro visionario dal titolo “Parigi-Berlino-Mosca. La via dell’indipendenza e della pace”. Un anno prima dello scoppio della seconda guerra del Golfo, de Grossouvre già anticipava la possibilità dell’intesa franco-tedesca in diversi campi che non a caso si consoliderà con forza in un momento decisivo quanto imprevedibile: al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite come in Europa, a difesa della pace, contro l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti d’America. Poi si proietta in un futuro prossimo in cui questi due Paesi avrebbero dovuto superare le rivalità storiche per riavvicinarsi alla Russia dell’allora neo-presidente Vladimir Putin, anche nella prospettiva di un possibile ingresso di Mosca nell’Unione Europea, con l’obiettivo di riequilibrare i rapporti di forza con la Casa Bianca, correggere alcuni degli effetti più negativi della globalizzazione, e infine intavolare un nuovo e pacifico multipolarismo mondiale.
Proprio nel 2003, in occasione di quella strana combinazione di alleanze, il quotidiano francese Le Monde titolò in prima pagina “Parigi-Mosca-Berlino. Un appello solenne”. Qualcosa di nuovo e importante stava per nascere nel Vecchio Continente, poi col passare degli anni l’Unione Europea si è rinchiusa nelle sue leggi rigoriste, riallineata alla politica estera statunitense sotto l’amministrazione Obama, in particolare durante le cosiddette “primavere arabe”, e progressivamente allontanata dalla Russia, rinnovando le sanzioni economiche. E ogni volta che c’è stato un tentativo da parte di Francia e Germania di invertire la rotta geopolitica, sono arrivate le minacce: dalla guerra economica alla spinta di movimenti e partiti anti-establishment, dall’interno come dall’esterno. Del resto, a partire dal 2016, l’agenda europea di Donald Trump ha perseguito un obiettivo molto preciso: il contenimento strategico del corridoio Parigi-Berlino-Mosca, laddove è in gioco l’indipendenza europea, soprattutto se il terminale rischia di diventare Pechino.
“Io credo che l’Europa può consolidare a lungo termine la sua fama di fulcro della politica mondiale, potente e indipendente, soltanto se unifica i suoi mezzi con gli uomini, il territorio e le risorse naturali russe, così come con il potenziale economico, culturale e difensivo della Russia”.
Vladimir Putin, discorso al Bundestag, 25 settembre 2001
Cosa ne sarà dell’Europa ora che Joe Biden è il nuovo presidente degli Stati Uniti d’America? È l’interrogativo che molti si pongono da diverse settimane in attesa di conoscere l’atteggiamento della Casa Bianca nei confronti dei suoi alleati. È in questo vuoto di potere, nel passaggio ufficiale a Washington, anticipato da alcune azioni “spettacolari”, che Emmanuel Macron, ha forzato la mano come mai aveva fatto prima. È anche un classico della politica d’Oltralpe. Quando si avvicina la fine del mandato, la partita si sposta fuori dai confini nazionali e si gioca di “grandeur” nel mondo. Laddove si può vincere o almeno si può non perdere. Nicolas Sarkozy lo fece in Libia, François Hollande ci provò in Siria, ora invece è il capo dell’Eliseo a fare un tentativo nel Mediterraneo allargato, in funzione anti-turca, di sponda con la Russia: in Israele ha rimproverato le autorità israeliane durante una visita nella chiesa di Sant’Anna a Gerusalemme, nonché uno dei quattro territori francesi in terra santa, in Libano si è presentato a Beirut tra le macerie all’indomani dell’esplosione nel porto, nel conflitto in Nagorno-Karabakh si è schierato apertamente con l’Armenia. Emmanuel Macron non sta spostando lo scontro solo su scala regionale ma anche mondiale, sul piano militare come su quello filosofico. Sulla scia del gollismo che nel 1967 portò la Francia, potenza nucleare, fuori dall’organizzazione militare della Nato, in un una lunga intervista rilasciata su Le Grand Continent rimette in discussione il Washington Consensus, lancia tweet sul futuro strategico attraverso l’industria nucleare “ho deciso che la portaerei del nostro Paese e della nostra Marina sarà, come il Charles de Gaulle, a propulsione nucleare”, infine dichiara pubblicamente in un’intervista a The Economist che l’Alleanza Atlantica è “over”, finita.
Quel libro di Henri de Grossouvre di cui scrivevamo all’inizio poteva diventare una pietra miliare della geopolitica, per addetti ai lavori, un culto per i neofiti alla materia, un’icona pop della saggistica, nonostante tutto, le copie hanno probabilmente continuato a circolare nei centri di potere parigini: nelle grandes écoles di Scienze Politiche, nei corridoi del Quai d’Orsay, e in un qualche modo, a giudicare dalle ultime azioni (o pose) sembra essere arrivato tra le mani di Emmanuel Macron. Ad averglielo dato potrebbe essere stato uno dei suoi “più stretti collaboratori in politica estera”, come suggerisce anche Le Monde Diplomatique: Jean Pierre Chevenement. Soprannominato il “gollista rosso”, sovranista di sinistra, tessitore di alleanze trasversali come quella tra Mélenchon e Dupont Aignan, è stato soprattutto ex ministro degli Interni con Jacques Chirac, poi nominato nel 2012 “rappresentante speciale” per la Russia nel quadro della “diplomazia economica” del Ministero degli Affari Esteri. Ci piace pensare che sarebbe proprio lui il punto di congiunzione tra Emmanuel Macron e Henri de Grossouvre. Entrambi del resto alla fine degli anni Novanta, lo supportavano alle elezioni presidenziali del 2002 quando era candidato con il suo partito Movimento dei cittadini. L’asse “Parigi-Berlino-Mosca” ora potrebbe prendere forma, a meno che non sia solo maquillage, o peggio, paillette.