OGGETTO: L'asse di cemento
DATA: 15 Luglio 2020
SEZIONE: inEvidenza
Le opere architettoniche di Stalin e Mussolini.
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Il novecento delle grandi ideologie presuppone strutture architettoniche che possano esaltare il totalitarismo di riferimento. In parole povere, tradurre il pensiero in materia: lo stesso che gli antichi romani fecero con archi, obelischi e piramidi vuole essere replicato dagli Stati moderni per presentarsi al mondo anche con la veste più accecante. Gli anni che precedono la seconda guerra mondiale sono uno sterminato cantiere in cui gli emergenti imperi italiano, sovietico e nazista si fronteggiano col cemento ancor prima che con le armi. L’intento non è solo quello d’essere all’altezza di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti; Roma e Mosca già tra gli anni ’20 e ’30 vogliono imprimere sonori punti esclamativi nell’urbanistica delle proprie capitali. Avvertire il mondo ed entrare nella storia. 

L’Italia del fascismo, in particolare, rappresenta un unicum per quanto riguarda le arti e l’architettura nel contesto d’un regime. Per tutto il ventennio permane un acceso dibattito tra le varie anime stilistiche della nazione. L’Italia non possiede il mantra unico del Capitale di Marx o del Mein Kampf. Il fascismo è una dottrina di forme e voci poliedriche. Il Duce accoglie i classicisti intransigenti vicini alla scuola di Ugo Ojetti ma al contempo ospita i futuristi di Marinetti e Balla fino ad arrivare al moderno razionalismo di Terragni, accusato ad un certo punto persino d’essere promotore di stili bolscevichi e internazionalisti. Per tutta la durata del ventennio esistono più stili che concorrono alla concezione fascista dell’architettura, perciò non si può parlare di un unico e monolitico stile nazionale di regime, come invece è già più inquadrabile in Germania e Russia. Quello che importa è sottolineare come in Italia ci sia fermento creativo e dibattito a più voci su come debba essere il paese del domani. Al di là degli interventi dove il piccone demolitore e risanatore di Mussolini ridisegna le borgate e l’edilizia popolare, il governo italiano ha tempo di sognare opere fanta-architettoniche. 

Nel 1924 viene richiamato dall’Argentina l’architetto Mario Palanti, già laureato al Politecnico di Milano e soldato al fronte nella grande guerra. Dopo aver realizzato l’edificio più alto di Buenos Aires, Palazzo Barolo, Palanti torna in patria per esporre al Duce il progetto della Mole littoria: 88 piani per 335 metri di altezza. L’edificio più alto al mondo, superiore alla torre Eiffel, al Big Ben e a ogni grattacielo di New York. La Mole ricalca l’architettura utopica del cenotafio di Newton e il titanismo del russo Tatlin “acciaio, vetro e rivoluzione”. Mussolini ne è da subito entusiata: “Per la Mole Littoria alalà”. La struttura è pensata per ospitare esposizioni, una chiesa, delle terme, una palestra olimpionica, un teatro, una sala concerti, un augusteo mussoliniano e l’hotel più grande al mondo. Un castello della civiltà romana. La costruzione prevede una struttura piramidale via via ristretta nella base e proiettata verso l’alto in una faraonica torre centrale monolitica. 100 saloni e 4500 stanze di sfida alle stelle per una cattedrale pronta a sovrastare in un colpo solo San Pietro, Pantheon e Castel S. Angelo. Un progetto tale da oscurare completamente anche l’ottocentesca Mole Antonelliana di Torino. 

Il progetto di Palanti deve però scontrarsi con la realtà e ad ogni revisione la Mole è ridimensionata. Da 335 metri è ridotta a 90 e nonostante l’appoggio di Mussolini la commissione edilizia del Campidoglio nega la realizzazione dell’opera in quanto “non potrebbe non dar luogo ad inconvenienti estetici assai dannosi dal punto di vista del panorama dell’Urbe”. Il progetto viene così accantonato e dimenticato. 

La Mole littoria secondo il progetto di Mario Palanti

Pochi anni dopo, nel ’31, a 3000km da Roma, Stalin indice un concorso internazionale per innalzare “un faro luminoso” per la nuova sede del palazzo dei soviet. Tra i tanti partecipano anche Le Corbusier e l’italiano Armando Brasini, già ideatore di progetti ciclopici nella sua raccolta “L’Urbe Massima” del 1916 come la torre conico-ottagonale de “Il Faro di Roma”, 160 metri di altezza, 130 metri per lato di basamento con una statua di Dante sulla vetta d’un tumulo. Per Mosca Brasini propone una rielaborazione di tale opera, ispirandosi al leggendario faro di Alessandria: al posto di Dante collocherebbe la statua illuminata di Lenin sulla cima d’una torre poliedrica a piramide tronca. Il progetto piace alla giuria ma ha la meglio quello del sovietico Boris Iofan. L’architetto nativo di Odessa prima della grande guerra vive a Roma e studia per nove anni presso lo studio di Brasini. Tuttavia anche il palazzo dei soviet non verrà mai realizzato, nonostante 3 anni prima il ministro Lazar Kaganovich abbia fatto distruggere appositamente la Cattedrale di Cristo Salvatore. Nel ’58 al suo posto sorgerà la piscina Moskva e infine con la caduta dell’URSS verrà ricostruita una copia della storica cattedrale tra il 1995 e il 2000. 

Le relazioni tra Italia fascista e Unione Sovietica precedenti al patto d’acciaio con la Germania non sono però mere fantasie di qualche sognatore. Nonostante la divergenza ideologica nel ’33 viene firmato il patto italo-sovietico di amicizia e non aggressione. Mussolini segue la linea tracciata da Nitti per un approccio pragmatico alla Russia, alla ricerca di materie prime come carbone e petrolio anche in modo da ledere i rapporti economici di Mosca con l’Inghilterra e la Francia. Non è un segreto che per tutti gli anni ’20 e buona parte dei ’30 gli architetti del Cremlino confluiscano in Italia e soprattutto a Roma durante i loro grand tour di studio. Intanto che Stalin incolpa i trotzkisti di deviazione modernista, nel corso degli anni diverse delegazioni composte da architetti come Iofan, Chtchouko e Gelfreikh visitano Roma, Napoli, Pompei, Capri, Firenze, Venezia, Vicenza, Verona, Milano e Genova. Oltre al Foro Mussolini, i sovietici visitano le grandi opere del fascismo a Littoria, Sabaudia, Nettuno, Anzio, Tivoli ed Ostia. Nel complesso i giudizi sull’Italia contemporanea sono altalenanti anche se per lo più impregnati di indifferenza e pregiudizio politico. Le reazioni invece sono entusiaste per le vestigia della passata classicità. Chtchouko in particolare afferma che “L’Italia deve essere l’unica fonte di apprendimento”, ma deluso dall’edilizia fascista, tacciata di costruttivismo, propone addirittura l’apertura a Roma, in quel di villa Abamelek al Gianicolo, di una succursale dell’accademia dell’URSS. 

Il palazzo dei soviet secondo il progetto di Boris Iofan

I grand tour sovietici si concludono con la pubblicazione nel ’35 del libro “L’architettura dell’Italia del dopoguerra” da parte dello storico dell’arte Lazar Rempel. L’autore è tutto fuorché apologetico verso l’opera mussoliniana, non abbastanza tuttavia da evitare la scure della censura. Sua moglie è arrestata e deportata in Siberia dove morirà, mentre lo storico dichiarato “traditore della patria” è esiliato in Uzbekistan e riabilitato solo dopo la morte di Stalin. 

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