Tacer non posso”, cantava Petrarca. Nel suo volgare elogiava una donna assente. Il suo poetare equidistante tanto dal silente ticchettio sugli schermi del XXI secolo quanto dal baccano coloniale dell’Impero Romano. Il finto silenzio e il finto tacere che assaltano gruppi di persone intente a compulsare un black mirror, però, non è proprio tacere. Tacere è un arte, scriveva l’abate Dinouart, tanto quanto parlare. Il silenzio è di massima importanza per la persona di lettere e chi si occupa del governo, tanto quanto l’eloquenza. Ma quali sono le condizioni di possibilità del tacere e quando i sacri confini del silenzio devono essere varcati? Soprattutto, chi, oggi, dovrebbe scegliere il silenzio? Forse le masse in rivolta? I gruppi che mettono in subbuglio gli oggetti del progresso e le proprietà del capitale? O forse che a tacere dovrebbero essere le sindache e i negozianti, il presidente e le ministre della nazione francese? Avrebbe senso ordinare il silenzio? No, l’arte di tacere è pratica interna della cura del sé. Quando diventa imperativo comandato, comincia il dominio dell’autorità pavida.
Se nella nostra epoca attuale, dominata dagli impulsi di trasformare il pensiero in azione, di far diventare la parola strumento di emancipazione a tutti i costi, la polemica di Dinouart Joseph Antoine Touissant potrebbe essere raccomandata alle governanti delle grandi comunità, quanto ai consiglieri di governo – tuttavia, soprattutto, il breve libello dovrebbe essere letto dalle grandi masse. L’arte di tacere, a metà soppressione delle parole inutili e metà invito alle proposizioni pregne di emergere, ritrae le regole del silenzio e della scrittura, ovvero, tratteggia una difesa della medietà, della temperanza, del riserbo, del dominio delle passioni e del governo dei sentimenti. Il pudico uomo di chiesa, innamorato della misura e del governo del sé, di arcaici limiti “prescritti allo spirito umano”, echeggia nei suoi brevi aforismi la critica trascendentale kantiana. Dinouart fa un elogio del pudore e della purezza dei costumi, che, allo stesso tempo, discute in negativo il valore della parola.
Tacere è dominare la propria lingua, impedire ai soprusi della prolissità di avere il sopravvento sul discorso, fermare l’argomento esteso in una immobilità placida, pacifica. Il silenzio è preghiera per la dea muta, per la silente Tacita, riverita e ammirata da Numa Pompilio per rispettare e onorare il precetto pitagorico di conservare il silenzio, come scriveva Plutarco. L’abate Dinouart indica come nel discorso il parlante fuoriesca da sé e rischi di perdersi, quindi il tacere diventa un rientrare nel governo del sé stesso, il silenzio appartiene a nessun altro se non a sé. Il tacere e il silenzio, il fare mancare l’espressione e il pensare in disparte mostrano una padronanza di sé.
Riunendo la teologia e la fisica in un manuale che provveda per l’essere umano una frontiera che non può essere valicata. L’arte di tacere è un’indagine avversa alla presunzione, che vuole raccomandare di stare a bada, di osservare i confini della conoscenza. Una riflessione sull’auto-controllo nella società pudica e sorvegliante del XVIII secolo. Dinouart ammonisce che vi sono limiti impenetrabili allo sguardo umano, che la materia ha un suo confine esterno su cui non i può discutere. La fisica quantica, invece, ci ha insegnato che la materia si discioglie come la nebbia. È una questione di prospettiva, se fossimo minuti a sufficienza, pure la punta di un ago diventerebbe ‘immateriale’ come la nebbia, penetrabile, fluida.
Allora, di nuovo, dove giacciono i confini del silenzio? Dove termina il dominio del sé. Per l’abate francese il tacere era un mezzo della prudenza. Ma questo strumento deve essere corretto, per non essere eccesso di silenzio, per non sfinire nell’omertà complice – ovvero, a volte, bisogna dare il benvenuto alla parrhesia che risveglia l’individuo dal torpore del silenzio imposto. Quindi, quali limiti ha il silenzio? Quando una persona può essere certa di aver varcato le soglie del silenzio e di essere entrata nel territorio della dea Tacita? L’individuo autenticamente in silenzio, non assume un silenzio artificioso, da persona meschina, come ricorda l’abate. Ma tiene presente l’importanza dell’uscita cosciente dal dominio della parola, tacere è un atto morale che riconosce la futilità del linguaggio, strumento della saggezza in mano al sapiente.
Questo è il primo principio dell’arte di tacere: non bisogna dire altro oltre quello che può essere detto, non bisogna dire niente oltre quello che si vuole dire. Un principio che ha una forte assonanza con l’ultimo aforisma del Wittgenstein del Tractatus. In una sola massima, si riuniscono l’ingiunzione totale del filosofo austriaco e l’invito cordiale dell’abate francese. Ciò che va di pari passo con il parlare è la scrittura, e ciò che è complementare al tacere è lo scrivere poco, o niente. Dinouart raccomanda come l’assenza della parola, il silenzio e la pagina bianca possono essere franchi e gradevoli, rendere palesi i sentimenti. Quindi, domanda: perché scrivere? Se lo scrittore è senza progetto, allora si ritiri. L’abate denuncia la mancanza di una struttura, di uno schema, di una previsione. Lo scrittore deve esercitare, a tratti, il “tacito riserbo” heiddeggeriano. Ritirarsi a esistenza privata.
Allo stesso tempo, l’autore che scrivendo rimane quello di prima, si deve astenere, poiché non sta concedendo niente, non sta dicendo niente al pubblico – mero scrittore che insegue la vanagloria. “Il piacere di credersi autori”, lo chiama Dinouart. Poiché già nel XVIII secolo la Francia brulicava di intellettuali – “quantomeno l’appellativo è diventato così comune, persino volgare, che oggi è quasi ridicolo esserlo o non esserlo”. L’abate francese viveva l’epoca delle rivoluzioni borghesi con ostilità e con ostinazione condannava il delirio dei filosofi dei lumi e l’istinto scientifico gaio, che definisce “vanità delle vanità”. Nella sua dimensione, la persona che si appresta a pensare, deve riverire i dottori della chiesa, le verità eterne e i discepoli obbedienti; la legge divina deve antecedere ed essere regola per quella umana. Tale timore cristiano, troppo cristiano, verso la libertà di giudicare fa dichiarare il libertino nemico.
Il testo denuncia chi corrompe i costumi, sfiorando l’apologia della censura. Contro la Rochefoucauld, Dinouart afferma che la prudenza deve trionfare sull’amor proprio. Allora, lo scrittore deve anche fare attenzione a non scrivere troppo. Lo scrivere deve essere circoscritto, limitato. Dinouart è un amante del labor limae e invita “tutti i giovani usciti dal collegio [che] avevano il desiderio di far pubblicare un romanzo o delle poesie effimere” a “rivedere, ritagliare, ridurre” i propri scritti. Poiché chi scrive troppo produce una “miscellanea inutile e stancante”.