Nell’epoca corrente una figura professionale fra le altre si staglia per la sua inestinguibile importanza, posta esattamente a metà fra gli eventi che si svolgono intorno agli individui e gli individui stessi: il giornalista. Se nel tardo Ottocento, e nel primo Novecento, questa figura era ammantata di un’aura di pionerismo e di militanza – con articoli e commenti infuocati colmi di trasporto che avevano l’indubbio merito e demerito d’infuocare le masse – la costruzione della nostra rizomatica società è corrisposta ad un raffinamento progressivo dell’arsenale giornalistico, con i professionisti dell’informazione che hanno dovuto imparare, progressivamente, a muoversi tra i mille cunicoli ed interstizi (quelli cari a Weber) del mondo interconnesso.
La figura del reporter è così diventata qualcosa di ibrido, saggio ma al tempo stesso colto, raffinato e affilato, sciabola e fioretto nella forma di una penna (o di un portatile), nemico giurato della trascuratezza. Nei media narrativi dell’ultimo quarantennio, la figura del giornalista ha conosciuto una mitizzazione senza eguali nella sua breve storia, con diversi personaggi ben scritti che ne incarnano i valori e che possono essere divisi in due categorie: in maniera positiva (i cagnacci, non necessariamente limpidi dal punto di morale ma con una incrollabile fede nella propria professione) o in maniera negativa (i manipolatori, “pennivendoli” a servizio, ma che sono comunque abili conoscitori della propria professione).
In un albo dell’infinito manga One Piece viene presentato Morgans, giornalista-albatros presidente del quotidiano dell’economia e praticamente monopolista dell’informazione di tutto il mondo. Un personaggio grigio, capace di alternare con grande abilità notizie vere con pettegolezzi inventati in modo da intrattenere il suo vasto pubblico con storie sempre nuove. Ma Morgans è un giornalista irriducibile nella sua indipendenza: quando il Governo Mondiale prova a pressarlo affinché raccontasse una versione edulcorata dei fatti avvenuti, il pennuto reporter si ritrae sdegnosamente da qualsiasi possibile interferenza. In un senso simile si muove la parabola di un altro uccello reporter: Angus Fangus, il trasandato kiwi di Pk. Costruito a immagine e somiglianza di J. Jonah Jameson di Spiderman, questi ha un passato da affermato reporter d’assalto (è dovuto scappare dalla Nuova Zelanda dopo un suo scoop contro un magnate locale) ed ora si ricicla “reporter creativo” tagliando e cucendo interviste e pettegolezzi per ottenere i suoi scopi.
Questi esempi, che possono sembrare superficiali sfoggi di cultura pop, non sono semplici divertissement, ma possono aiutare a scoprire di quali forme e stilemi si nutre la rappresentazione ‘mitologica’ del giornalista ai nostri tempi. A ben vedere, il filo rosso che lega i due reporter ornitoformi non è tanto il rispetto della deontologia professionale (che c’è e non c’è), o la loro alta moralità (benché entrambi – anche in quanto personaggi fumettistici – siano perfettamente capaci di raggiungere alte vette in questo senso); bensì l’abilità con la quale ottengono e cuciono informazioni e articoli; la perizia laboratoriale con la quale assemblano discorsi e consultano fonti. In definitiva, la loro professionalità sembra quella di un artigiano, che costruisce indifferentemente cannoni e strumenti chirurgici con la stessa, sapiente, mano.
È curioso notare, invece, come diversi rappresentanti del giornalismo italiano sembrino mancare proprio di quella perizia, di quell’abilità che rende una comunicazione, una notizia (che sia vera o falsa) inappuntabile e, per questo, pronta ad essere diffusa. Senza per forza citare il calciatore Daniele De Rossi, che parlò di «maiali col microfono» a proposito di qualche giornalista che cercava di attaccarlo personalmente in maniera sciatta e inopinata, si possono evidenziare diversi episodi di trascuratezza nell’informazione italiana. L’informazione, si conceda il tentativo aforistico, è come un romanzo: il lettore finge di credere che il giornalista stia dicendo la verità e il giornalista deve favorire questa finzione, rendendo assolutamente credibile quello che sta scrivendo. Per questo la trascuratezza, l’errore grossolano, sono crimini contro il giornalismo: perché squarciano troppo facilmente il velo di Maya del gioco.
Se, a titolo di esempio, i titoli dei giornali si sono soffermati in maniera (ora commossa, ora nervosa) sulla rivoluzione avvenuta nella fantomatica “Piazza Maidan”, è bastata una ricerca su internet per scoprire che tali moti erano avvenuti, in realtà, nel mistico luogo di “Piazza Piazza”. Ad un reporter esperto di Ucraina non si chiede di essere il nuovo Gogol’, ma almeno di conoscere la differenza tra un nome proprio e un nome comune. Se strafalcioni di tal fatta si possono facilmente perdonare, a patto di dimenticarsi che dovrebbe esserci un’intera redazione il cui lavoro è proprio quello di evitarli (in realtà è un errore di poco conto in fondo, un errore solo formale), ben più subdoli sono quegli orrori che (alcuni) giornalisti costruiscono quando cuciono di sana pianta impianti crossmediali in un epoca in cui risalire alla fonte di un video è un’impresa alla portata di tutti. Come presentarsi con il trucco del coniglio ad Hogwarts, più o meno.
Quando una nota emittente televisiva, curata da un notissimo “giornalista”, spaccia una scena del film Project X per una scena di combattimento in Ucraina, o quando una notissima testata giornalistica incolla una lunga cronaca di missili su Gaza sul video dei fumogeni di alcuni ultras, il risultato è un vero e proprio attentato alla credibilità della professione. La cosa più imbarazzante, anche in questo caso, è l’incuria con cui vengono tentate queste operazioni, che comunica due significati (anche se poi non sono sempre veri) ai destinatari: 1) i giornalisti pensano che siamo cretini 2) ma in realtà i cretini sono i giornalisti. La sfiducia generalizzata nel giornalismo si nutre proprio di questi strafalcioni, errori gratuiti di forma così grossolani da diventare mitici, esemplari. E se l’uomo comune non si libererà mai dell’idea che il giornalismo italiano sia una casta, lo si deve principalmente a questa sciatteria diffusa che, prima ancora di fare interrogare sulla veridicità o meno delle notizie, porta a chiedersi quale sia il criterio con cui si scelgono i professionisti dell’informazione in questo momento storico.