Le notizie degli arresti seguite allo scandalo giornalisticamente noto come Qatargate non avranno sorpreso i più, che temprati dagli usi italiani, vengono raggiunti quasi da un moto d’ilarità nel notare come oramai si arrivi a esportarli all’estero. La novità, stavolta, era rappresentata piuttosto dal mandante o presunto corruttore, ovvero due Stati sovrani: Qatar e Marocco. Che il corrotto potesse appartenere alla classe politica era fatto ben noto, almeno dai tempi di Tangentopoli. Eppure, all’osservatore più attento non sarebbero sfuggiti alcuni particolari indizi tali da spingerlo verso una navigazione lontana dalla costa, ben oltre la terraferma, al di là del confine della notizia e della sua incidenza e rilevanza etico-giudiziaria.
La notizia cade a pochi giorni di distanza da un’altra che passata quasi inosservata, che al massimo avrà forse colpito qualche lettore di quotidiani economici. L’8 dicembre 2022, infatti, il quotidiano Milano Finanza pubblicava un interessante articolo “Il salvataggio del Credit Suisse arriva in porto grazie agli arabi”. Decisivo l’intervento della Saudi National Bank e del fondo del Qatar, con un aumento di capitale che consente agli arabi di acquisire un terzo delle azioni del colosso elvetico. Non è difficile collegare i due eventi sotto un’unica grande stella polare: la reconquista dell’Europa. Non armata né sanguinaria ma più sottile e pervasiva, latente e sapientemente orchestrata da strateghi raffinatissimi. A pensar male si fa peccato ma a volte ci si azzecca, avrebbe così sintetizzato l’argomentazione il buon Giulio Andreotti.
L’avanzata (crociata) della finanza araba in Europa e nell’Occidente più ampiamente inteso non può leggersi solamente sul piano del declino assiologico del primo. Sarebbe riduttivo, parziale, probabilmente dolosamente irragionevole. E questo perché in entrambi i casi citati, sia lo scandalo attualmente ancora insanato al Parlamento Europeo e l’intensificarsi dell’attività di m&a (operazioni economiche e finanziarie straordinarie) rispondono a precise logiche. Nel mondo islamico, infatti, con il concetto di finanziamento si intende l’affidamento di un processo produttivo all’imprenditore. Tale sistema di allocazione delle risorse economiche, denominato Shirkah, è integralmente diverso dal sistema finanziario occidentale, in quanto nel sistema islamico il finanziatore diventa sostanzialmente un equity investor del finanziato, condividendone i profitti e le perdite. Nella cultura economica occidentale invece il finanziamento consiste nella messa a disposizione del denaro, il cui prezzo è rappresentato dal tasso di interesse. L’applicazione della Shariah impone alle relazioni economiche il rispetto di tre assiomi: divieto di pagamento di interessi (RIBA), legati al fattore temporale, frutto di una semplice rendita finanziaria non correlata ad un’attività reale con un determinato livello di rischio; divieto di stipulare contratti che prevedano irragionevole incertezza o ambiguità (GHARAR); divieto di speculazione (MAISIR). La Sharia, come anche il Cristianesimo per molti secoli, ha sempre considerato “usura” e quindi peccato l’interesse, cioè il prestare una quantità di denaro chiedendone in cambio una maggiore. Per questo motivo la riba è severamente bandita dalla finanza islamica.
Dall’analisi di questi precetti è evidente che il solco con la finanza occidentale apparirebbe a prima vista profondamente inconciliabile. Si tratta di un importante modello alternativo di intermediazione finanziaria fondato principalmente su elementi etici e di solidarietà. Uno dei postulati di questo sistema è il differente rapporto di fiducia tra le parti, in quanto debitore e creditore si trovano a condividere il medesimo interesse e non sono quindi contrapposti. Inoltre, ciò esclude la possibilità della formazione di eccessivi squilibri di ricchezza a carico di una soltanto delle parti proprio perché le perdite dell’attività di impresa sono condivise tra loro. Un altro vantaggio del sistema si ravvede nella necessaria maggiore attenzione della banca nella valutazione non solo del progetto da finanziare, ma anche delle capacità gestionali degli amministratori e della corporate governance societaria, rendendo tale sistema finanziario, al contrario di quello occidentale, molto meno fondato sulla valutazione del merito creditizio o del valore dei beni posti a garanzia.
Eppure, rispetto al modello della precettistica delle fonti che ha conferito un preciso ordinamento alla forma del sistema finanziario, l’attuale condotta di fondi di investimento e public company appare quantomai difficilmente sovrapponibile. La maggior parte dei fondi di investimenti arabi sono molto attivi negli investimenti all’estero soprattutto da quando a causa del doppio shock della pandemia e del crollo dei prezzi del petrolio è divenuto necessario ricercare nuove ed alternative prospettive di investimento. Anche se i primi programmi risalgono al 1990, se si guarda in particolare al mercato italiano. Dietro l’ambizioso desiderio di rivalsa, comune a tutti i Paesi arabi, si nasconde però un doppio intrigo geopolitico che si combatte anche a colpi di finanza: da un lato la guerra regionale tra sciiti e sunniti, nonché la lotta per la supremazia politica nel Golfo tra EAU, Qatar, Arabia Saudita, dall’altro la diffusione e penetrazione in Europa, nel ventre molle dell’Occidente, del verbo islamico mediante il finanziamento a comunità locali, imam radicali e associazioni per la costruzione di moschee e centri di ricerca. Un secondo Medioevo che per gli Arabi rappresenta il periodo di magnificenza e di massimo splendore, trascorso il quale la storia li ha condannati all’oblio. Non è un caso che dietro la maggior parte delle entità e società di investimento si nascondano i governi nazionali che utilizzano strumenti e mezzi della dinamica economica per dare esecuzione alle direttive ed agli interessi strategici dei rispettivi Stati.
Le necessità politiche che si nascondono dietro l’agire finanziario islamico destano grandi problemi di affidabilità. Una corposa scuola di pensiero non esita a definire le banche o istituzioni finanziarie mediorientali come forze di un Islam “politicizzato” che, nella pura tradizione “huntigtoniana”, altro non desidera che non di scontrarsi con l’altro modello, quello occidentale, democratico e ipercapitalista. L’Islam radicale, in particolare, è letto come un nuovo tentativo di globalizzazione dal versante opposto a quello occidentale. E lo strumento finanziario non sarebbe che un mezzo per procurare consenso al suo modello, benefattore di un Occidente in crisi.