Sono passati ormai sette anni da quando Jorge Mario Bergoglio ha assunto il comando del trono petrino, scegliendo il nome di Francesco e diventando il primo pontefice proveniente dal cosiddetto Sud globale. Lotta al cancro del clericalismo, revisione profonda della gerarchia ecclesiastica e focus geopolitico spostato dal morente ed ormai post-cristiano Occidente a tutti quei teatri che stanno combattendo per la transizione ad un ordine multipolare, come Russia, Cina e Iran; questi i tre cardini che hanno caratterizzato il fenomeno Francesco sin dai primordi e che lo hanno reso vittima di una gigantesca operazione propagandistica da parte della Casa Bianca atta a screditarne l’immagine e l’operato agli occhi dei fedeli.
La visione di Francesco è scomoda e pericolosa per lo status quo liberale americano-centrico, questo è il motivo per cui contro di lui, che verrà ricordato dai posteri come uno dei pontefici più rivoluzionari della storia millenaria della chiesa cattolica, è stata lanciata una campagna di odio incredibilmente efficace e letale, che ha trasformato il pastore in un lupo agli occhi del gregge e che sta dividendo lo stesso clero in due fronti contrapposti. I successi conseguiti in sette anni sono stati molteplici: l’accordo di pace tra il governo colombiano e le FARC, l’astro esercitato sull’amministrazione Obama che ha portato alla normalizzazione dei rapporti fra la Casa Bianca e Cuba e all’accordo sul nucleare iraniano, la fine virtuale dello scisma fra il cattolicesimo e l’ortodossia, lo stabilimento di un dialogo intenso e costruttivo con i principali rappresentanti dell’islam sunnita teso a migliorare le condizioni di vita dei cristiani nel mondo musulmano e, ultimo in ordine temporale, l’accordo sulla nomina dei vescovi con la Cina, pensato come la prima tappa di un lungo viaggio che potrebbe concludersi con il pieno riconoscimento della chiesa cattolica nel Paese.
In due teatri geopolitici, però, l’agenda papale non ha prodotto risultati, anzi ha subito un arretramento. Il primo è l’Occidente, un campo per il quale, comunque, Bergoglio ha mostrato un certo disinteresse sin dalla salita al soglio pontificio, anche perché consapevole dell’inevitabilità della sua trasformazione post cristiana. Il secondo è l’America Latina, la culla del pontefice, il fu continente cattolicissimo che nei prossimi decenni si appresta a diventare il continente protestantissimo. Qui, sin dalla guerra fredda, è in corso uno scontro sotterraneo di stampo geo-religioso fra il Vaticano e gli Stati Uniti, combattuto a colpi di Bibbie, che sta riscrivendo l’identità dell’Ispanoamerica.
I fedeli cattolici sono diminuiti ovunque, dal Messico all’Argentina, sullo sfondo del simultaneo aumento dei protestanti di stampo evangelico e pentecostale. Sono stati anche eletti i primi capi di Stato di fede evangelica, come Jimmy Morales in Guatemala, e anche laddove la religione del presidente o del primo ministro sia cattolica, l’obiettivo dell’esecutivo resta quello di soddisfare gli interessi dell’emergente blocco di potere evangelico.
Questa guerra egemonica atipica è il frutto di un disegno degli Stati Uniti per l’America Latina, della quale si vuole ridisegnare il volto per mezzo dell’evangelicalismo di stampo anglosassone, che viene ritenuto il braccio spirituale ideale del loro imperialismo non solo per l’intrinseco, verace, antipapismo, ma anche per la sua malleabilità data dall’assenza di una struttura verticistica facente capo ad un’autorità suprema. Numerosi leader evangelici del Sud globale sono stati formati a livello professionale (acquisendo le nozioni della tele-evangelizzazione made in Usa), dottrinale ed ideologico negli Stati Uniti – come Edir Macedo, il fondatore della potentissima Chiesa Universale del Regno di Dio – e sono stati aiutati nella diffusione iniziale delle chiese, diventando i promotori d’un messaggio teologico radicalmente diverso da quelli d’estrazione cattolica: la teologia della prosperità.
All’insegna di questa teologia, secondo la quale la costanza nella manifestazione nella fede verrebbe ricompensata da Dio attraverso la ricchezza, personaggi controversi come Cash Luna, fondatore della Casa di Dio in Guatemala, o Macedo, hanno saputo accogliere tutti quei cattolici (soprattutto poveri) che, sentendosi traditi dalla guerra mossa dalla Santa Sede contro i teologi-rivoluzionari e i preti-guerriglieri latinoamericani della guerra fredda, sono fuggiti in massa dalla chiesa cattolica. L’errore storico di non aver compreso la teologia della liberazione, l’incapacità di affrontare la secolarizzazione e gli scandali sessuali e finanziari, sullo sfondo del proselitismo martellante eterodiretto da Washington, hanno determinato un crollo della popolazione cattolica latinoamericana.
Nel 2014, dati del Pew Research Center alla mano, la popolazione latinoamericana dichiaratamente cattolica era scesa al 69%, il 23% di fedeli in meno dal 1970, mentre i protestanti evangelici erano cresciuti dal 9% al 19% della popolazione totale. Il collasso riguarda ogni singolo Paese del subcontinente, ma è stato particolarmente forte in Brasile: l’Istituto Datafolha ha stimato che nel periodo 1970-2016 i cattolici si siano ridotti del 40%, passando dal 90% al 50% della popolazione, mentre gli evangelici sono diventati il 29% della popolazione e la metà di loro si dichiara ex cattolico. Non è un caso che la decattolicizzazione indotta sia stata particolarmente orientata verso il Brasile: prima potenza politica ed economica dell’America Latina, paese più cattolico del mondo, potenziale ostacolo per gli interessi statunitensi nel continente in virtù del suo peso geopolitico, ulteriormente malvisto dopo i due governi Lula.
Per capire se la situazione per la chiesa cattolica è tragica come viene dipinta, e quali potrebbero essere gli scenari futuri, abbiamo deciso di raggiungere un esperto di relazioni internazionali che vive in loco: Juan Martin Gonzalez Cabañas. Gonzalez Cabañas è un giovane politologo ed analista geopolitico di nazionalità argentina. Collabora con diverse realtà universitarie e politiche dell’America Latina, fra le quali il centro studi Dossier Geopolitico, e lavora come consulente governativo, elaborando piani d’azione riguardanti la politica estera di Buenos Aires.
Parliamo della trasformazione georeligiosa che sta vivendo l’America Latina. Quando ha avuto inizio questo fenomeno, chi sono gli evangelici, e soprattutto: qual è la situazione attuale?
L’ascesa dell’evangelicalismo, che è un termine ad uso generale ma dovremmo parlare di neopentecostalismo, è il risultato di diversi processi sostenuti nel tempo che sono terminati in una vera e propria rivoluzione. Possiamo ricollegare la nascita “di un piano” agli inizi del 20esimo secolo, con la fondazione della chiesa metodista episcopale africana. Ma all’epoca l’obiettivo non era l’America Latina. Due eventi hanno dato grande impulso a questa rivoluzione. Il primo è avvenuto a metà secolo: la caccia dei missionari protestanti dalla Cina all’indomani del trionfo del maoismo. Il secondo è avvenuto negli anni ’80: la popolarizzazione dell’evangelicalismo per mezzo della grande stampa e delle comunità di base. L’evangelicalismo è un ramo del protestantesimo e si caratterizza per una serie di convinzioni, fra le quali il rifiuto dell’autorità papale e dell’apostolicismo, una diversa concezione dello Spirito Santo, la teologia della prosperità e la dottrina della guerra spirituale.
Oggi in America Latina il 25% della popolazione si identifica come evangelico e la maggiore concentrazione è in America Centrale, un vero e proprio baluardo, dove rappresentano fra il 40% e il 50% della popolazione totale di quei Paesi. Sono molto coerenti dal punto di vista politico: c’è una stretta correlazione tra fede e voto in America Latina, questo è vero soprattutto per gli evangelici. Votano in blocco e manifestano una preferenza per partiti che potremmo definire come neoconservatori e neoliberali. Questa preferenza è data dal fatto che gli evangelici sono socialmente molto conservatori. Le loro idee talvolta rasentano l’estremismo.
Molto interessante, soprattutto le parti riguardanti la Cina, perché questo ci aiuta a capire che un progetto georeligioso stesse avendo anche luogo lì e che è stato poi interrotto dalla rivoluzione comunista, e il voto. Parliamo di quest’ultimo: quindi esiste una contrapposizione molto netta fra evangelici e cattolici in termini di preferenza elettorale? Cosa votano tendenzialmente i cattolici latinoamericani?
I cattolici latinoamericani votano in maniera trasversale: la loro scheda va tanto a destra quanto a sinistra. Parliamo di un universo molto più ampio e variegato, che affronta anche un processo di secolarizzazione. Il fatto è che ci sono cattolici conservatori e progressisti. Comunque, tendenzialmente sono meno interessati alla dimensione materialistica, ovvero economica, dei programmi elettorali. Pensiamo al fatto che la teologia della liberazione è nata nel ventre del cattolicesimo, mentre da quello protestante è nata la teologia della prosperità. Inoltre, dobbiamo considerare che il cattolicesimo ha influito molto sulle evoluzioni politiche del subcontinente: in Europa ci sono stati i Partiti della Democrazia Cristiana, qui abbiamo avuto l’ascesa di vere e proprie visioni per il mondo come il peronismo. In definitiva, i cattolici si concentrano sul sociale e sulla comunità, mentre gli evangelici si focalizzano sul materiale e sull’economia.
Qual è la situazione attuale in Argentina e in Brasile?
In Brasile gli evangelici rappresentano ormai più del 25% della popolazione, mentre in Argentina sono circa il 15%. Ma in Argentina abbiamo qualcosa di particolare rispetto al Brasile: il fattore agnostici/atei. Aumentano più rapidamente degli evangelici e, infatti, abbiamo più agnostici e atei che evangelici. Riguardo il Brasile ho potuto cogliere questo, ma è una cosa che ho osservato in tutti i processi politici dell’intero subcontinente. Gli evangelici hanno dato forte sostegno a personaggi come Bolsonaro in Brasile e Áñez in Bolivia, trattandoli come se fossero più che dei semplici leader, e un ruolo-chiave in questo sostegno emozionale e reverenziale è stato giocato dalle loro agende neoconservatrici e neoliberiste. Questo mi ha fatto pensare: l’evangelicalismo potrebbe essere realmente la chiave con cui gli Stati Uniti saranno in grado di riformare il posizionamento geopolitico della regione e potranno consolidare la loro egemonia su tutto il continente. Sì, questa è la mia opinione: l’evangelicalismo è attualmente la variabile più importante nella lotta fra il Nord e il Sud.
Che cosa sta facendo la chiesa cattolica per frenare la sua scomparsa, la sua estinzione? Un effetto Francesco c’è stato oppure no?
La chiesa ha avviato un lungo percorso di riforma sia di immagine pubblica, ovvero nel suo rapporto con i fedeli, che a livello di istituzioni, a cominciare dai consigli e dagli enti rispondenti alla Santa Sede. È un percorso iniziato negli anni ’60 e che è culminato con l’elezione di Papa Francesco. La scelta di un pontefice proveniente dall’America Latina non è stata casuale, è stata chiaramente strategica. L’agenda riformista però è stata implementata troppo lentamente e credo che nel complesso non sia stata sufficiente. Infatti l’avanzata evangelica non è stata fermata. Un ruolo importante nel fallimento è stato giocato dalla repressione della teologia della liberazione, che era una teologia del popolo. Io posso parlare da argentino, portare la mia esperienza, e credo che un freno importante sia stato invece rappresentato dalle comunità di base e dai curas villeros (ndr. preti di strada), i preti che stanno fra la gente, nei quartieri poveri, nei quartieri operai. Lo stesso Papa Francesco è stato un cura villero.
I preti di strada hanno rallentato l’avanzata evangelica ma non sono riusciti a fermarla. Perché? Qual è il segreto del successo evangelico? Cosa offrono che la chiesa cattolica non riesce o non ha?
Prima di tutto dispongono di grandi capitali, che gli consentono di fare un proselitismo massiccio, e hanno il fascino della novità, di essere portatori di un nuovo messaggio, una cosa, questa, che facilita la conquista di nuovi fedeli. Hanno poi la peculiarità di avere delle regole di reclutamento del clero molto più flessibili rispetto ai cattolici. Ma flessibile è anche la loro curia, chiamiamola così, e questo riveste un’importanza preziosa. Flessibile l’organizzazione, flessibili le regole di reclutamento, grandi capitali, nessuna costrizione in una dimensione territoriale: in pratica non hanno i limiti della chiesa cattolica.
Passiamo all’ultima domanda. Qual è la tua previsione sul futuro dell’America Latina: chi vincerà questa lotta? E quali potrebbero essere le conseguenze geopolitiche della transizione da società cattoliche a società protestanti americaneggianti?
Molto probabilmente la chiesa cattolica continuerà a perdere fedeli, ma questo non deve indurci un errore: il declino cattolico non si tradurrà necessariamente in termini favorevoli per l’evangelicalismo. Questo perché crescono molto anche l’agnosticismo, l’ateismo, le nuove spiritualità ed altre religioni. Non è una lotta fra cattolici ed evangelici come viene spesso descritto, perciò non può esserci un vero vincitore. Da un punto di vista geopolitico, gli evangelici hanno mostrato in tutti i Paesi di aderire ad un certo tipo di politica e di sostenere certi settori che sono stati tipicamente vicini all’America del Nord. La loro ascesa integrale comporterebbe chiaramente il consolidamento del ruolo egemonico degli Stati Uniti nel continente.