«Come è possibile che società così avanzate – dotate di conoscenze scientifiche straordinarie, di capacità tecnologiche mai viste prima, di risorse economiche enormi, di un patrimonio culturale immenso – rivelino tratti tanto arcaici?»
(Mauro Magatti, sociologo, 5 luglio 2025)
«Pensavamo che nel XXI secolo avremmo risolto i conflitti senza violenza, non è stato così»
(Svetlana Aleksievič, scrittrice, Nobel per la letteratura 2015, 1 febbraio 2025)
«Certo è che per tutti vale la difficoltà a comprendere come sia possibile che nel XXI secolo esistano tanto odio e tante forme di aggressione, sopraffazione e distruzione nei confronti dei propri simili»
(Carla Collicelli, sociologa, 11 marzo 2024)
Questi sono solo alcuni esempi di ciò che sentiamo ripetere incessantemente dal 24 febbraio 2022. Intellettuali, professori, giornalisti, politici e gente comune, continuano a chiedersi come sia possibile che, nel XXI secolo, l’uomo sia ancora capace di compiere simili orrori.
Domanda ovvia per i più, e che pare non richiedere alcun chiarimento. Eppure, essa presenta implicitamente assunti per nulla scontati, ancorché profondamente radicati in Occidente: (a) che esista un “progresso”, un miglioramento dell’umanità in senso morale; (b) che tale progresso sia legato al tempo e dunque all’esperienza e, di conseguenza, che vi sia una linearità cumulativa nella storia; (c) che vi dovrebbe essere, appunto, una progressione e non una regressione o un “eterno ritorno”.
Viviamo nell’illusione che il solo scorrere del tempo basti a proteggerci dalle ricadute della storia: crediamo che le conquiste morali e civili del passato siano ormai solide fondamenta, che certi orrori appartengano definitivamente a un’epoca superata. Ma questa fiducia nella marcia irreversibile del progresso ci disarma proprio quando la realtà torna a mostrare il suo volto più duro: la memoria si affievolisce, la vigilanza si attenua, e ci scopriamo increduli davanti al ritorno della violenza, dell’odio, della sopraffazione. È proprio questa ingenuità, questa fiducia non sorvegliata nel miglioramento automatico dell’umanità, che ci rende vulnerabili e impreparati di fronte alle crisi che ciclicamente si ripresentano. Ma da dove nasce, dunque, questa fede nel progresso lineare dell’umanità e di tutto ciò che poi ne consegue?
Per comprenderlo, occorre volgere lo sguardo alle grandi narrazioni storiche che hanno scandito l’immaginario europeo. L’idea che la storia sia un cammino ascendente non è affatto universale: si tratta, piuttosto, di un’invenzione moderna, preceduta da secoli di visioni radicalmente differenti.
Nel mondo antico, la percezione della storia non era affatto dominata dall’idea di un progresso continuo, ma piuttosto oscillava tra la ciclicità del tempo e il senso di un inesorabile declino. In molte tradizioni, la vicenda umana era vista come un susseguirsi di cicli, in cui ordine e disordine si alternano senza mai condurre a un miglioramento definitivo. Questa visione emerge con chiarezza nelle riflessioni di filosofi come Platone, che attraverso il mito di Crono e l’analisi delle forme di governo, descrive il ripetersi di fasi politiche destinate a degenerare e a ripartire da capo, o in Polibio, che nel formulare la teoria dell’anaciclosi, illustra il perpetuo ruotare delle costituzioni, dalla monarchia alla tirannide, dall’aristocrazia all’oligarchia, dalla democrazia all’oclocrazia, in una sequenza priva di direzione ascendente.
Accanto a questa prospettiva ciclica, trova spazio anche il mito del declino, come nel celebre racconto delle Cinque Età di Esiodo. Qui, la storia non si ripete ma scivola progressivamente dalla perfezione originaria dell’Età dell’Oro verso l’attuale Età del Ferro, segnata da fatica, ingiustizia e sofferenza. La sua narrazione è quella di una decadenza ininterrotta, dove ogni passaggio comporta la perdita di un frammento di felicità e giustizia. Non c’è spazio, in questa visione, per una speranza di riscatto o di rinascita automatica: l’essere umano si percepisce come irrimediabilmente distante dalla luce degli dèi, più spettatore di una rovina che protagonista di una crescita.
Solo in rare eccezioni, come in Lucrezio o Diodoro Siculo, si intravedono accenni a un certo progresso materiale, frutto di invenzioni e scoperte. Tuttavia, si tratta sempre di avanzamenti circoscritti, privi di un disegno morale o di una provvidenza che ne assicuri il senso e la durata.
Fu il cristianesimo a introdurre una frattura radicale: la storia cominciò a essere pensata come dotata di un senso, orientata verso un fine ultimo. Tuttavia, questa linearità non corrispondeva a un progresso umano garantito. Agostino, grande architetto di questa nuova visione, rifiutava la ciclicità antica e inscriveva la storia in una traiettoria che va dalla creazione al giudizio finale, ma in cui la città terrena resta sempre esposta alla fragilità, ai vizi e alla catastrofe. Il tempo, dunque, non era ancora promessa di emancipazione: la vigilanza e la consapevolezza della precarietà rimanevano centrali.
Solo con l’avvento dell’età moderna il rapporto dell’uomo con la storia subì una trasformazione radicale, quasi un rovesciamento del paradigma antico. La rivoluzione scientifica, con il suo susseguirsi di scoperte e invenzioni, innescò un entusiasmo nuovo, una vera e propria ebbrezza per l’idea di progresso. Si fece strada una convinzione potente e implicita: se la tecnica, guidata dalla Ragione, si dimostra capace di avanzare senza sosta, di accumulare risultati e superare limiti che prima parevano invalicabili, allora anche l’umanità nel suo complesso, toccata dalla stessa facoltà razionale, potrà emanciparsi non solo sul piano materiale, ma anche su quello morale, sociale e politico. In altre parole, si affermò l’idea che la Ragione non fosse solo strumento di dominio sulla natura, ma anche leva di trasformazione dell’essere umano, capace di condurlo a un perfezionamento continuo. La fiducia nella scienza e nella tecnica, si trasferì quasi per osmosi sul piano dell’etica e del vivere civile: si cominciò a pensare che il progresso della conoscenza avrebbe inevitabilmente trascinato con sé un progresso dei costumi, delle istituzioni, della convivenza umana.
Proprio come nel campo scientifico e tecnologico si era ormai convinti che il cammino fosse irreversibile – che, una volta accertata la verità del sistema copernicano, fosse impossibile tornare a quello tolemaico – così questa stessa fiducia si estese per analogia alla sfera del progresso umano e sociale. Si radicò, quasi senza bisogno di argomentazione, la convinzione che anche le conquiste morali e civili fossero destinate a un’accumulazione lineare e irreversibile.
L’Illuminismo rappresentò il momento in cui questa fede si fece progetto consapevole. La Ragione divenne il principio ordinatore della storia. L’umanità, per la prima volta, si sentì artefice del proprio destino, convinta di poter piegare la realtà – naturale e sociale – secondo criteri di razionalità e giustizia. Turgot, Condorcet e altri ne fecero il fulcro delle loro visioni: non solo la scienza, ma anche la morale, la politica, l’intero tessuto della società erano ritenuti sottoponibili alle stesse regole di miglioramento, affinamento e perfezionamento progressivo. La storia si caricò così di un’energia nuova, quella di una marcia trionfale verso la libertà, la ragione e la felicità collettiva.

Ma fu nell’Ottocento che questa fede raggiunse la sua apoteosi, trasfigurandosi in vera e propria euforia scientista. Auguste Comte fu tra i primi a sostenere che i fenomeni sociali dovessero essere studiati con lo stesso rigore con cui si indagano quelli fisici, nella prospettiva di individuare leggi oggettive che consentissero di guidare consapevolmente il cambiamento collettivo. Da questa impostazione nacque l’idea, destinata a grande fortuna tra Otto e Novecento, che la società potesse essere “progettata”, regolata e migliorata attraverso una sorta di ingegneria sociale: un’attività pianificatrice affidata alla razionalità degli esperti, capace di modellare il destino umano secondo criteri scientifici e di condurre l’umanità verso un progresso continuo e controllato. Fu in questo contesto che iniziò a radicarsi la grande illusione.
Certo, non mancarono voci critiche in quei secoli – basti pensare a Vico, Nietzsche o Benjamin – ma nonostante la loro forza, esse non riuscirono a modificare significativamente la direzione ormai assunta dalla cultura dominante. Quella che era nata come un’entusiasmante fiducia nella Ragione e nella potenza della tecnica si trasformò progressivamente in una fede moderna nel progresso umano, tanto affascinante quanto fragile.
Il paradosso di tali convinzioni è che, nel credere che l’umanità del domani sarà migliore di quella di oggi, e quella di oggi sia migliore di quella di ieri, l’umanità del presente prepara le condizioni per essere ripetutamente smentita. Il fatto di credere che certi tragici accadimenti non potranno più avvenire ci porta, da un lato, a non mettere in campo azioni preventive per scongiurarli, e dall’altro, ad utilizzare mezzi inadeguati per contrastarli una volta emersi.
Il senso a-storico dell’umanità è il terreno nel quale si diffonde il germe della prossima tragedia. A-storicità non significa ignorare la storia o non conoscerla. Vuol dire, piuttosto, considerarla morta, sganciata dal presente e i suoi effetti, oramai cristallizzati e acquisiti, impressi in una tela immutabile che ci avvolge e rassicura. A-storicità è pigrizia della lotta: come l’atleta che, persuaso che la vittoria gli abbia assicurato il futuro, smette di allenarsi, e così, giorno dopo giorno, vede affievolirsi quella forza che credeva ormai definitiva. A-storicità è, in altre parole, la convinzione che la storia progredisca linearmente e che le conquiste si accumulino una sull’altra senza possibilità di regressione.
È, entro certi limiti, persino comprensibile: trascorse due o tre generazioni, il pathos della lotta si attenua; a chi viene dopo sembra che la mera iscrizione del principio sulla carta basti a garantirne la tenuta. Si pensi al diritto di voto: oggi lo consideriamo (giustamente) acquisito e intangibile, ma proprio per questo, col tempo, si affievolisce il senso di quella battaglia e sbiadisce il valore del principio che ne è scaturito.
Accade così che, non di rado, riaffiorino critiche al suffragio universale — talora in forma di battuta, talora con serietà — proponendone la limitazione a determinati livelli di istruzione o, addirittura, a vaghe misure della «stupidità». In sede politica nessuno lo mette formalmente in discussione; e tuttavia argomenti che mezzo secolo fa sarebbero stati impensabili nell’agorà, circolano oggi con disinvoltura, segno di una memoria corta e di quell’a-storicità che scambia il riconoscimento giuridico con la sua perpetua riconquista.
In fondo, lo si mette in dubbio perché non se ne è sperimentata davvero la privazione: chi non ha patito l’esclusione dal voto tende a scambiarlo per un bene scontato. E si dimentica che vincolarlo a qualsiasi criterio apre falle profonde nella democrazia, introducendo arbìtri nella definizione delle soglie e consegnando potere a chi stabilisce il metro.
In realtà, il tempo non cumula per conto proprio: senza pratiche, costi e memoria, ciò che sembra sedimentarsi evapora. E non c’è irreversibile che tenga: ogni conquista resta revocabile, esposta alla nostra stanchezza. Scambiare la carta per garanzia è il varco attraverso cui rientrano, puntuali, le vecchie forme del dominio.
Se in casa scambiamo la norma per destino, sul piano internazionale scambiamo l’ordine giuridico per ordine reale; e, peggio, ci persuadiamo che l’umanità proceda per naturale miglioramento morale, come se il tempo da sé bastasse a spegnere il male. È lo stesso errore cognitivo: credere che il tempo lavori per noi. Di qui l’abbassamento dell’allerta e la sorpresa impotente quando la storia bussa alla porta.
Questa doppia illusione — morale e giuridica — ha effetti pratici immediati: disinnesca la prevenzione e indebolisce la risposta.
Quando crediamo che certe cose non possano più accadere, i segnali d’allarme diventano rumore di fondo. Si rinvia, si minimizza, si confida di poter “rimediare dopo”: proprio così si preparano le condizioni del disastro. E quando poi l’impensabile accade, restiamo con appelli a princìpi che non fermano i carri armati.
Tali illusioni hanno generato, nel corso degli ultimi decenni, una lunga serie di errori di valutazione e di preparazione, tanto sul piano locale quanto su quello internazionale.
Un esempio paradigmatico di questa dinamica si ritrova nelle cosiddette “Primavere arabe” del 2011: un’espressione, coniata dal politologo Marc Lynch in un articolo su Foreign Policy (6 gennaio 2011), che non a caso richiama alla memoria altre “primavere” della storia europea, dal 1848 a Praga nel 1968. L’Occidente, animato da una visione intrisa di ottimismo progressista, ha letto quei moti come il preambolo di una stagione di libertà e democrazia, persuaso che le masse arabe avrebbero percorso lo stesso cammino che, a suo giudizio, conduce inevitabilmente verso i diritti umani e la partecipazione politica. Errore noto in psicologia come “falso consenso”: l’idea, profondamente radicata, che i nostri valori siano universali e che la storia degli altri popoli non possa che replicare la nostra. Così, abbiamo ignorato la complessità delle realtà locali, sorvolando sulle fratture etniche, tribali e politiche che attraversavano quei paesi. Abbiamo preferito credere che l’appartenenza al XXI secolo bastasse, di per sé, a garantire un progresso in senso occidentale, e che il tempo stesso agisse come antidoto contro la barbarie.
Il risultato di questa visione lineare è stato una drammatica sottovalutazione dei segnali di crisi, che ha aperto la strada a una spirale di violenza. La Siria ne rappresenta l’esempio più tragico: la guerra civile, l’ascesa dello Stato Islamico, centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati sono stati il frutto, prima ancora che di errori politici, di una miopia culturale e di una preparazione inadeguata.
Lo stesso schema si è ripetuto, con inquietante regolarità, negli ultimi tre anni. La guerra in Ucraina e la nuova, devastante escalation del conflitto israelo-palestinese dopo il 7 ottobre 2023 hanno colto di sorpresa istituzioni e opinione pubblica occidentale. Convinti che la “fine della storia” avesse ormai blindato la pace in Europa, molti hanno continuato a considerare la crisi ucraina come una questione marginale, relegata ai confini dell’interesse collettivo, senza cogliere la possibilità di una deflagrazione su scala continentale. L’idea che la storia avesse ormai esaurito il proprio potenziale distruttivo, che l’interdipendenza economica e i vincoli internazionali fossero sufficienti a scongiurare ogni deriva bellica, ha lasciato l’Occidente impreparato, diviso, incapace di rispondere con prontezza.
Non meno emblematica è la tragedia di Gaza: anche qui, la convinzione che certi orrori fossero ormai preclusi al presente ha lasciato spazio alla sorpresa e allo smarrimento di fronte al ritorno della violenza più brutale, alla quale ci si è opposti con vani appelli al diritto internazionale.
È proprio quando ci persuadiamo che alcune tragedie non possano più accadere che la storia si incarica di smentirci.
In questa a-storicità, in questa pigrizia della vigilanza, si annida il germe della prossima catastrofe.
Non si tratta, però, di un semplice abbaglio di prospettiva. In quelle convinzioni si annida una superbia sottile ma profonda: la presunzione di decidere quali pagine della storia archiviare e quali mantenere vive, come se il passato fosse un catalogo da ordinare secondo criteri di nostra esclusiva pertinenza. A questa si accompagna l’idea, altrettanto illusoria, di poter estirpare sentimenti umani come l’odio, semplicemente attraverso l’educazione e la prescrizione normativa.
La seconda convinzione, in realtà, discende dalla prima. Se crediamo che le conquiste del passato siano ormai garantite dalla loro trascrizione su documenti ufficiali e dalla loro inclusione nei programmi educativi, finiamo per persuaderci che sia proprio questa formalizzazione a garantirne la tenuta. Si genera così l’idea che la presenza di certi princìpi nel discorso pubblico sia di per sé sufficiente a perpetuarli e, soprattutto, a scongiurare ogni ritorno del loro contrario. Da qui discende, per logica implicita, la convinzione che il controllo sul discorso consenta non solo di conservare, ma addirittura di esorcizzare – e dunque di manipolare – la realtà più concreta. È su questo terreno che nasce la pretesa, tanto ingenua quanto presuntuosa, di poter eliminare sentimenti profondamente umani – come l’odio – attraverso la regolazione del linguaggio.
La lotta ai cosiddetti “discorsi d’odio” (hate speech) si muove spesso su questa linea: non più (o non solo) la repressione dell’incitamento all’odio e alla violenza, ma il tentativo di colpire anche la mera espressione di sentimenti ostili, a prescindere da ogni effettivo invito all’azione. Non si tratta, qui, di difendere o di giustificare simili manifestazioni: è la pretesa di poterle sradicare attraverso nuovi discorsi – come se bastasse il potere della parola a cancellare ciò che appartiene alla natura più profonda dell’umano – a rivelare una hybris che, lungi dal proteggerci, ci espone a nuove forme di illusione e di fragilità.
Ma per quale ragione questa fiducia nel progresso lineare, che la realtà puntualmente smentisce, continua ad attecchire tanto profondamente nel nostro tempo? Perché, nonostante le ricadute e le delusioni, la narrazione del progresso sembra esercitare un fascino irresistibile, quasi ipnotico, sulle società occidentali?
Anzitutto, occorre riconoscere che in una civiltà segnata da una crescente complessità e da una rapidità vertiginosa dei mutamenti, la promessa di un progresso irreversibile svolge una funzione rassicurante. In un mondo in cui le certezze si sgretolano e l’orizzonte appare incerto e frammentato, l’idea che la storia proceda secondo una traiettoria ascendente offre conforto, una sorta di coperta di sicurezza collettiva.
Così, la narrazione del progresso si trasforma in una liturgia laica, capace di sedare l’ansia del presente e di proiettare sul futuro un’ombra di certezza.
Eppure, a ben vedere, questa illusione affonda le sue radici in una frattura filosofica ancora troppo recente perché si possa dire davvero assimilata. Nei secoli tra il Settecento e l’Ottocento, l’Occidente ha assistito – tra entusiasmi e paure – al tramonto della metafisica tradizionale, alla progressiva “uccisione” di Dio come fondamento ultimo dell’ordine e del senso. In questo vuoto, la Ragione umana si è eretta a nuovo principio supremo: l’uomo si è fatto Dio di sé stesso, affidando all’intelletto e alla tecnica il compito di plasmare la realtà, e persino la natura umana, secondo i propri disegni. È una rivoluzione silenziosa e potentissima, che ha liberato energie creative incalcolabili e reso possibile un’accelerazione senza precedenti del sapere e del benessere. Ma proprio qui si annida il suo lato più oscuro e pericoloso: nel sostituire Dio con la Ragione, l’uomo ha finito per distruggere qualsiasi limite, abbandonandosi a una hybris senza precedenti. L’illusione di poter dominare la storia, di piegare la realtà e persino la propria natura secondo un disegno interamente razionale, ha generato non solo fiducia e progresso, ma anche una nuova forma di superbia: la pretesa di essere ormai artefici assoluti e indiscussi del proprio destino, quasi degli dèi.
Tutte le illusioni moderne sul progresso lineare, tutte le fragilità e le inadeguatezze di fronte al ritorno della crisi, traggono alimento da questa svolta: dalla sostituzione della Provvidenza con la fede – altrettanto cieca – nella Ragione e nella Storia.
Come rilevava John Bagnell Bury, la fiducia moderna nel progresso costituisce la trasposizione secolare dell’antica fede nella Provvidenza, trasferendo alla Ragione umana ciò che un tempo era prerogativa di una volontà trascendente e sovrana. In questo parallelismo, Bury metteva in luce come entrambe le visioni attribuiscano alla storia un senso direzionale e garantito, offrendo così una sicurezza psicologica e collettiva. Tuttavia, qui si manifesta una differenza sostanziale: laddove la Provvidenza cristiana imponeva all’uomo il riconoscimento della propria finitezza, ponendo un limite insormontabile e delegando l’esito ultimo della storia a Dio, la fede laica nel progresso cancella ogni barriera, consacrando la Ragione umana a principio assoluto e immanente.
Altrettanto rilevante è il peso dell’eredità politica e culturale dell’Occidente contemporaneo. Dopo la catastrofe delle guerre mondiali, la costruzione di un ordine internazionale fondato su istituzioni e trattati, ha alimentato l’idea che la storia avesse imboccato finalmente la strada della pace e dei diritti inalienabili. La vittoria americana nella Guerra Fredda, la globalizzazione e l’espansione delle democrazie hanno rafforzato questa visione, relegando la violenza e la barbarie al passato, come se il calendario bastasse a garantire la civiltà. In tale clima, ogni crisi che infrange l’illusione del progresso lineare, viene vissuta come un’anomalia, una parentesi inspiegabile, piuttosto che come un monito sulla precarietà di ogni conquista. Eppure, puntuale come sempre, la storia si incarica di smentire le nostre certezze.
È in questo contesto che il pensiero di Reinhart Koselleck si rivela particolarmente illuminante. Egli riconosce nella modernità una trasformazione radicale del nostro rapporto con il tempo: la storia, accelerando in modo vertiginoso, amplia lo scarto tra ciò che abbiamo vissuto e ciò che ci attendiamo. L’esperienza accumulata non basta più a orientare il futuro, mentre l’orizzonte delle aspettative si riempie di promesse e utopie che corrono troppo avanti rispetto alla realtà.
Più ci illudiamo che il tempo sia dalla nostra parte, più ci scopriamo vulnerabili di fronte all’irruzione del dramma.
Così, la parabola del progresso si rivela, ancora una volta, un fragile baluardo contro il disordine: ogni volta che la storia sembra smentirci, ci raccontiamo che ora, avendo compreso l’errore, non lo ripeteremo più. Ma proprio in questa convinzione si cela la beffa più sottile: l’illusione di essere definitivamente guariti dai nostri autoinganni non è che l’ennesimo atto di un ciclo che si rinnova. Ogni generazione si illude di aver imparato la lezione, ignorando che la storia non si lascia archiviare una volta per tutte, e che la tentazione di credere nell’irreversibilità delle conquiste è essa stessa una costante ricorrente del pensiero umano.
Forse, allora, il vero paradosso è che persino la denuncia di queste illusioni rischia di cadere nella trappola che pretende di smascherare. Anche questo articolo, nel suo sforzo di contribuire a una maggiore consapevolezza e di suscitare un cambiamento, non può sottrarsi del tutto alla tentazione di credere in una qualche efficacia della parola, in una possibile utilità dell’analisi. Ma, a differenza della fede cieca nel progresso, ciò che lo distingue è la consapevolezza del proprio limite: si può forse accendere una luce, ma essa rischia di essere solo un lampo effimero, destinato a spegnersi nell’alternarsi eterno di memoria e oblio. E così, mentre ci illudiamo di costruire un argine contro il ritorno della barbarie, dobbiamo riconoscere, non senza amarezza, che anche la riflessione più lucida è solo una breve tregua nella lotta contro la dimenticanza.
La storia non garantisce nulla, e forse il solo progresso possibile consiste nel non dimenticare mai che tutto può sempre tornare.