Non è tempo di apologie, tantomeno di epitaffi. In primis perché i celerissimi necrologi tendono spesso ad una beatificazione insensata e innecessaria, soprattutto alla luce delle saggissime parole di Andreotti, secondo cui “le parole delle epigrafi sono tutte uguali. A leggerle uno si chiede: ma scusate, se sono tutti buoni, dov’è il cimitero dei cattivi?”. Inoltre, la dicotomia buono-cattivo non appartiene ad una disamina intelligente dell’azione politica, in particolare quella estera, per sua natura particolarmente articolata. Tuttavia, in un certo senso, lo stigma del cattivo ha accompagnato Silvio Berlusconi, il Caimano – epiteto cinematografico ben meno lusinghiero che il Divo – lungo tutta la carriera politica.
Nell’Europa post 1989, dalle ceneri della Prima Repubblica si sollevò netta la figura di Silvio Berlusconi: self made man, araldo del liberismo, promotore di una diplomazia che risultava fedele alla sua persona, esuberante e forse macchiettistica, arci-italiana ma comunque intelligente, collaborativa, secondo un progetto riduttivamente definito “della pacca sulle spalle”. Di fatti l’utopia, fallita ma ambiziosa, mirava ad un ruolo nuovo, prestigioso per l’Italia, che fosse di cardine e cerniera tra le potenze del Patto Atlantico e non solo: un’operazione nel solco del suo amico di sempre Bettino Craxi. Non a caso, i due sono stati gli unici premier ospitati a parlare al Congresso americano. La sua intraprendenza in politica estera, ricorda lo storico collaboratore Giovanni Castellaneta, “era facilitata non solo dal consenso popolare e politico di cui godeva in patria, ma anche dalla sua fama di imprenditore di successo”.
Assai lungimiranti, soprattutto alla luce dell’attuale conflitto ucraino, gli accordi del 2002 di Pratica di Mare, tra Russia e Nato: accordi che, uniti all’amicizia del Cavaliere con George Bush e Vladimir Putin, assicurarono un periodo di reale quanto precaria distensione. La stima verso Vladimir Putin non gli impedì di appoggiare le missioni americane in Iraq e Afghanistan, ottenendo poi la stima di Barack Obama, quel presidente “abbronzato” che, diffidente, non stravedeva per l’asse Roma-Mosca. Dal fallimento dello storico summit romano, passando per le fatali divergenze tra il Cremlino e Washington sui conflitti in Georgia, Siria e Libia, ha avuto principio l’escalation di provocazioni e prevaricazioni che nel febbraio scorso è culminato nell’inizio della guerra.
Oltre che in Occidente e in Europa, Silvio Berlusconi fu un attento osservatore degli equilibri mediorientali e mediterranei: spiccato il suo sentimento filoisraeliano, che lo portò a precisare come la difesa di Israele equivalesse alla tutela “delle ragioni della libertà, della democrazia, del pluralismo civile e religioso”. In Medioriente, intelligente fu la sua amicizia, oltre che con Ben Ali, Erdogan e Mubarak, con il rais Muhammar Gheddafi. Dal rapporto personale nacque una riappacificazione diplomatica con la Libia, con il Cav che ricucì definitivamente i rapporti dopo il colonialismo di epoca fascista. Il patto con la Libia si concretizzò in un trattato di amicizia e in un partenariato economico che, invisi all’Europa a trazione franco-tedesca, non si realizzarono mai: di più, a poche settimane dalla stipula degli accordi, Berlusconi dovette partecipare alla coalizione che bombardando la Libia destituì il Rais, tradendo dunque le proprie intenzioni e intuizioni. Sovvertito il regime di Gheddafi, la Libia è oggi una polveriera il cui governo bicefalo è conteso da due fazioni rivali, conseguenza delle primavere arabe e a sua volta concausa delle gravi migrazioni verso l’Europa continentale (ergo, verso l’Italia). L’ex presidente del consiglio, poco dopo l’intervento militare, commenterà amaramente: “avevo come sempre ragione io, Gheddafi era un personaggio controverso ma era amato dalla gente ed era diventato un uomo con cui si potevano fare accordi, soprattutto sull’immigrazione”. Sul fronte orientale, invece, lo caratterizzava l’ostilità verso la Cina e l’egemonia del Dragone sul bacino Indo-Pacifico: definì il regime di Xi Jinping un “pericolo globale”, una “vera minaccia per le generazioni future”. Dopo l’affaire sui palloni spia abbattuti in Nord America e verosimilmente di responsabilità cinese, dichiarò “da tempo denuncio le manovre spregiudicate di un regime totalitario e comunista che si muove in sfregio ad ogni regola internazionale e che mira al globalismo cioè all’espansione economica, politica e militare in ogni parte del mondo”.
In definitiva, l’eredità della diplomazia berlusconiana è l’utopia di un’Italia attiva su più fronti, determinata e determinante, anche se forse eccessivamente legata a rapporti di natura personale più che interstatale. Fallito il tentativo di inglobare la Russia in Europa, svanito il tentativo di stipulare accordi con la Libia, pressoché tutti i disegni geopolitici del Cavaliere si sono nel tempo dissolti. In ultimo, una corsa quirinalizia spavalda e simbolica, in spregio alla magistratura e a quel sistema che tanto lo avevano martoriato con inchieste di ogni tipo. Silvio Berlusconi non ha abitato il Quirinale – onere ed onore che non gli apparteneva – ma certamente, sopravvivendo nel bene e nel male all’antiberlusconismo, in Italia e all’estero è stato l’uomo e il corpo della Seconda Repubblica.