C’è, da italiani, una preghiera laica che dovremmo sempre innalzare nei momenti di crisi nazionale: leggere Pasolini. In particolare, dove la sua penna traccia il nostro ritratto:
L’intelligenza non avrà mai peso, mai
nel giudizio di questa pubblica opinione.
Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai
da uno dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato:
irreale è ogni idea, irreale ogni passione,
di questo popolo ormai dissociato
da secoli, la cui soave saggezza
gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Pier Paolo Pasolini
Ed è saggio, certo, obbedire all’autorità, seguire in processione l’incontrovertibile andamento delle curve epidemiologiche. Proprio quella saggezza che serve a vivere e non libera. Ché, in fin dei conti, questo significa lo stucchevolissimo ashtag #andràtuttobene: sopravviveremo, e basta.
La popolarità di Giuseppe Conte è in aumento pressoché costante dall’inizio dell’epidemia: difficile, però, attribuire un innamoramento così dirompente alla strategia politica del premier, che è, in buona sostanza, consistita nell’infischiarsene per un po’, e nel sigillare l’intero paese appena non è stato più possibile infischiarsene. Idee non peggiori di quelle sparse in libertà da una parte all’altra dello spettro politico, ma nemmeno sufficienti a trasformare l’irrilevante burocrate scelto da Salvini e Di Maio in idolo delle folle. Una chiave di lettura più interessante potrebbe trovarsi nella proporzionalità inversa rispetto alla popolarità di Salvini: più il leader della Lega perde consensi, più ne guadagna Conte.
In Italia non importa tanto quello che dici, ma l’arroganza con cui lo dici. C’è un pubblico, più rustico, a cui piacerà sempre il piglio da bullo di periferia di Salvini, e un altro che all’università ha imparato – una delle poche cose che sicuramente si imparano lì – il gusto per l’etichetta gerarchica, che si lascia affascinare dal plurale maiestatis di Conte, quel “noi consentiamo” a cui manca solo la premessa “per la grazia di Dio”, ed è subito Statuto Albertino. Per buona parte dell’opinione pubblica, però, uno vale l’altro: basta che ci sia l’uomo solo al comando, quello che decide per tutti – a cui, alle brutte, si riserva un Piazzale Loreto più o meno virtuale, come lavacro purificatore collettivo. Fenomeno ironico, in questo caso, dal momento che Giuseppe Conte è politicamente debolissimo e decide solo di non decidere. Non tanto per colpa sua, ma perché incatenato a una maggioranza-chimera, nata dalle alchimie di palazzo e tenuta insieme dal metus hostilis nei confronti di Salvini: dunque, Conte fa da ragazzo immagine per il comitato tecnico scientifico, quest’oligarchia che distribuisce divieti e permessi e ricorda un po’ il “Comitato di rieducazione dei compagni selvatici” di orwelliana memoria.
Intendiamoci: le misure di distanziamento funzionano. Sarebbe assurdo, del resto, che non funzionassero. I tecnici conoscono il loro mestiere, ma non è proprio necessario essere tecnici per intuire che meno contatti ci sono, meno si diffonde una malattia contagiosa. I tecnici conoscono il loro mestiere, e fanno quello: la curva epidemiologica non traccia i danni sociali, culturali, economici, antropologici – per usare un termine caro a Pasolini – che il paese avrà subito alla fine, quando saremo sopravvissuti. Questa visione d’insieme spetta alla politica: anzi, è il motivo per cui esiste la politica e non soltanto un organigramma di comitati, ciascuno intento a redigere grafici. Dice Max Weber che l’uomo politico può commettere due peccati mortali: mancanza di una causa e mancanza di responsabilità – in questa circostanza la politica italiana, incapace di formulare un programma che vada oltre l’attesa messianica di un vaccino o di una cura definitiva, ha appaltato la propria responsabilità a un organo non democratico e non ha altra causa che la sopravvivenza.
Ma un paese muore di molte morti, non solo di quella biologica. Ai tecnici sanitari potranno affiancarsi economisti, psicologi, giuristi che valutino la costituzionalità dei decreti, tecnici del cuore che decidano quando un affetto è stabile e quando no, tecnici della fede che stabiliscano se è più importante celebrare un funerale o l’Eucaristia, tecnici di qualsiasi tecnica. Ma a un certo punto la complessità del reale supererà le competenze settoriali, ci stancheremo del sorriso da copertina di Conte, si esaurirà il piacere tacitiano di obbedire ai potenti e quello stalinista di denunciare il vicino che passeggia: a quel punto, dovrà ricominciare la politica. Sempre che ne rimanga qualcosa.