«Credo che non molti negli Stati Uniti capiscano quanto sia importante l’operato di Wikileaks e il supportare Julian Assange, che ha fatto tanto per la libertà d’espressione e che viene oggi perseguitato dalla nazione che di questo concetto ha invece abusato».
Diceva così Oliver Stone, il regista oscar di “Platoon” appassionato di storia e controrealtà contemporanee, dopo la visita fatta nel 2013 nell’ambasciata ecuadoregna a Londra. Si sbagliava, Stone, ma solo per difetto. Perché dopo nove anni siamo ancora allo stesso punto anzi peggio, e perché l’accusa rivolta agli americani è estendibile, salvo poche eccezioni, a tutto il mondo “civilizzato” e “democratico”, compreso quello stesso Vaticano che nel 1999 pensò bene di intervenire invece presso il governo inglese a favore del dittatore Pinochet, accusato di genocidio e mille altri crimini e misfatti compiuti in Cile tra 1973 e il 1990. Nel 2000, l’allora segretario agli interni inglese Jack Straw concesse infatti a Pinochet di rientrare in Cile chiudendo di fatto la procedura di estradizione perseguita dal giudice spagnolo GARZON, così come la sua erede Patel, dopo l’impugnazione da parte dell’amministrazione degli Stati Uniti della prima decisione negativa delle autorità britanniche (motivata dai timori sul trattamento che avrebbe potuto ricevere oltreoceano), ha concesso ora l’estradizione all’australiano Assange; non nel suo Paese natale, che in questa storia non ha fatto certo un figurone, ma negli Stati Uniti, il Paese che sulla libertà di pensiero ha eretto addirittura il monumento di se stesso.
«Quello che posso dire è che il presidente degli Stati Uniti è un sostenitore della libertà di parola e della libertà di stampa», disse l’ (ex) portavoce di Biden Jennifer Psaki. Decisamente troppo poco per il fondatore di Wikileaks atteso nella terra di Thomas Jefferson e Oliver Stone da una condanna monstre (175 anni) per 18 capi d’accusa legati non come nel caso di Pinochet a omicidi di massa ma alla pubblicazione di circa 500mila documenti “riservati”, riguardanti in particolare operazioni in Afghanistan e Irak (a partire dal video bomba del 2007 girato a Baghdad in cui si documentava l’omicidio da parte degli americani di un gruppo di civili tra cu anche due giornalisti della Reuters). Qualche temerario potrebbe chiamarlo diritto d’informazione, i tanti accusatori e i tantissimi indifferenti lo chiamano spionaggio (“crimine informatico”), perseguibile -sostengono- in base l’Espionage Act, la legge che sotto Wilson, alla vigilia dell’intervento nella Prima guerra mondiale, portò il Paese a una forma di repressione simile a quella del maccartismo.
“Terrorista hi-tech” lo definì Obama e “terrorista high tech” lo ha ridefinito un Biden evidentemente a corto di fantasia, in una storia che più che distopica si è rivelata dispotica, estrema. Se non fosse vera, la vicenda di Assange sembrerebbe scritta da uno sceneggiatore ubriaco che solo un produttore pazzo comprerebbe; una vicenda che come protagonisti ha il non luogo, l’assenza, l’altrove, la diversità, ma prima di tutto la distanza -grottesca, siderale- tra i fatti più che privati, intimi, inizialmente addebitatigli, in nome dei quali tutto ebbe inizio: per sfuggire a un reato per il quale era stato indagato in Svezia, dove si era recato nel 2010. Un’accusa (archiviata, riaperta e quindi definitivamente riarchiviata nel 2017) evidentemente risibile in sé e per sé e assurdamente sproporzionata: “stupro”, ma uno stupro da intendere come “rapporto sessuale senza preservativo”, considerato reato in quel Paese scandinavo.
Quella del fondatore di Wikileaks è una storia che per usare l’espressione adottatat a suo tempo da Adorno per Heine può essere definita una “ferita”, in questo caso per un occidente “liberale e democratico”, tenuta sostanzialmente sott’acqua per oltre dieci incredibili anni, passati prima cambiando posto dove dormire ogni sera, poi nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra (sette) dopo che vi si era rifugiato nel 2012, quindi, dopo il ritiro dell’asilo per ripetuta violazione dei termini dell’asilo da parte del nuovo presidente ecuadoregno Lenín Moreno, nel carcere di Belmarsh, a seguito di una condanna per aver violato nel 2012 i termini della cauzione quando era sotto inchiesta, pur avendo finito di scontare l’unica pena inflittagli nel Regno Unito. Un calvario in confronto al quale i sei anni di arresti domiciliari di Pinochet fanno davvero sorridere… Tutto sotto gli occhi di un’informazione dimostratasi molto più interessata a raccontare scene clamorose come l’asportazione di peso di Assange dall’ambasciata dell’Ecuador da parte della polizia inglese che a riflettere su uno dei temi centrali piantati dal “caso” Weakileaks ovvero quale sia il confine tra libertà di stampa e censura nelle nostre democrazie occidentali, in un mondo spesso evanescente in quanto a diritti, senza contare i timori per un possibile effetto dissuasivo sui giornalisti che potrebbero pensarci due volte prima di accettare informazioni riservate. Un silenzio pressoché generale (a parte, in Italia, il manifesto, Il fatto quotidiano, Domani) con le più importanti testate americane (New York Times, Wall Street Journal, USA Today, Washington Post, Los Angeles Times) disposte ad alzare una voce critica soprattutto in epoca trumpiana e lanciate in questi mesi a tuonare contro il regime liberticida di Putin. Ma forse il problema di Assange è che non si chiama Navalny.
«Per la prima volta in più di un secolo un giornalista potrebbe essere processato e incarcerato per aver pubblicato fatti che il governo degli Stati Uniti non voleva che fossero pubblicati. Assange non è accusato di aver rubato informazioni classificate. E sebbene sia incriminato ai sensi del famigerato Espionage Act del 1917, non è accusato di alcuna collusione con una potenza straniera».
Ora il condizionale usato a suo tempo dal Los Angeles Times non ha più senso; ora (tranne imprevisti a questo punto ridotti a un lumicino, costituito dal ricorso dei suoi avvocati alla Corte suprema britannica e poi semmai alla Corte europea dei diritti dell’uomo) Assange sarà processato da un tribunale della Virginia e quasi certamente condannato, nonostante non abbia mai venduto documenti a governi stranieri (di qui le accuse insistite ma mai provate accuse di complicità con la Russia, variamente argomentate con la famosa relazione Mueller, che occupò a lungo la stampa in epoca Trump).
Sarebbe il primo editore ad essere incriminato sulla base dell’Espionage Act, la famigerata legge rispolverata da George W. Bush tornata già alla ribalta nel giugno 1971, quando il New York Times e il Washington Post entrarono in possesso dei documenti poi pubblicati col nome di Pentagon Papers, quelli che fatti uscire dal Dipartimento della Difesa avrebbero messo la parola fine alla guerra del Vietnam, come raccontato da Spielberg in The Post, il film che nel finale, con retorica molto americana ricordava a tutti la storica sentenza della Corte Suprema a favore di una stampa «che deve essere al servizio dei governati e non dei governanti». Proprio quello di cui si sente molto la mancanza, in una congiuntura segnata manco a farlo apposta, in casa nostra -si parva licet- dalla pubblicazione di liste “riservate” peraltro a quanto si è capito alterate e non troppo debitamente verificate come quelle sui famigerati “filoputiniani”, messi maldestramente alla gogna nello stesso modo in cui venti anni fa si dava addosso agli “antiamericani”…
Per questo “terrorista hacker” l’accusa di crimine informatico avrebbe comportato una pena lieve, al massimo 5 anni. Crimine che oltretutto che Assange fisicamente non ha commesso, visto che i file in questione erano stati trafugati da due compagni di avventura: Edward Snowden, un ex tecnico della CIA alle dipendenze di una società di consulenza della NSA (la società di sicurezza che Obama si era ben guardato dall’allentare dopo gli otto anni di Bush e che come venne poi fuori aveva tra i suoi numeri controllati anche quello di Angela Merkel, con relativo scandalo subito rientrato) e Bradley Manning, il militare statunitense analista per l’Intelligence che sottrasse i cablogrammi del Pentagono con un espediente degno di una spia di Hollywood, facendo cioè finta di scaricare su disco un album di Lady Gaga: il primo ancora rintanato da qualche parte a Mosca, la seconda, cambiato sesso e diventata Chelsea Manning, graziata da Obama dopo 4 anni e mezzo di reclusione, proprio lei che a ben vedere, in quanto militare a tutti gli effetti, avrebbe dovuto essere quella veramente e facilmente perseguibile…
La colpa di Assange è stata quella, per dirla con Ennio Flaiano, di aver mostrato per un momento le cose “dalla parte cartaginese”, di aver portato alla ribalta i segreti dei grandi del mondo, di aver reso momentaneamente leggibile il sottotesto del potere e della diplomazia ufficiale, di aver fatto venire a galla ciò che deve rimanere sul fondo, inconoscibile ai più. Il suo peccato senza remissione? Essere venuto in possesso di milioni di file secretati relativi a ogni genere di attività di governi di mezzo mondo ed averli resi noti grazie a una rete di giornalisti preoccupatisi di decifrarne e pubblicarne il contenuto. Dalla repressione cinese della rivolta tibetana a quella turca contro le opposizioni, dalla corruzione nei Paesi arabi alle esecuzioni sommarie della polizia keniota, fino alle operazioni militari compiute dagli stati uniti in Afghanistan e Iraq (400mila carte solo su quest’ultimo) che avevano comportato uccisioni di civili.
Ora le (poche) speranze sono riposte tutte nella grazia che Biden potrebbe concedergli. Quest’anno il presidente Biden ha graziato un ex agente dei servizi segreti, Abraham Bolden Sr. condannato per accuse federali di spionaggio e corruzione (per aver tentato di vendere un fascicolo riservato dei servizi segreti per 50 mila dollari) e perdonato anche 2 narcotrafficanti condannati per smercio di crack, cocaina e marijuana. Con questi chiari di luna, però, difficile credere che la grazia possa arrivare, perfino nel Paese culla della “pubblica opinione”, quello in cui Thomas Jefferson sosteneva di preferire un Paese senza governo piuttosto che senza giornali…