Il 5 maggio, giorno successivo della vittoria matematica del campionato di calcio del Napoli, sulle prime pagine del Corriere della Sera, Roberto Saviano ha scritto un articolo intitolato Napoli, lo scudetto una pernacchia in faccia a certi giochetti. Un pezzo con cui lo scrittore napoletano non ha solamente voluto mettere in evidenza la vittoria sportiva della squadra partenopea, ma anche arrivare a considerare una vittoria in una competizione calcistica come una sorta di rivincita, di palingenesi culturale e morale della città Napoli: «Non è uno scudetto qualsiasi credetemi. È uno scudetto vinto dal Napoli. È furore agonistico, gioia pura e trasversale a ogni fascia della società, a ogni quartiere», e ancora aggiunge: «Ciò che altrove non riesci a ottenere, spesso per cause che riguardano te, riesce invece a ottenerlo in campo, in nome per conto di un popolo intero».
Dopo qualche giorno, precisamente il 12 maggio, su “7”, l’inserto del Corriere della Sera, in un altro editoriale intitolato Napoli 3.0, il grande sogno: di nuovo campioni d’Italia dopo 33 anni, lo scrittore campano rincara la dose, con una leggera modifica sull’argomentazione dell’articolo precedente. La vittoria calcistica, a detta di Saviano, può riuscire ad abbattere le disuguaglianze, le ingiustizie e la morale criminale che contraddistingue diversi strati sociali di Napoli: «Una squadra che per la prima volta unisce tutti, ma proprio tutti. Tifosi e non tifosi, borghesi, proletari e sottoproletari, disoccupati e persone che hanno il privilegio di avere la fedina penale immacolata accanto a chi, per colpa, o per sorte, ce l’ha piena di macchie e condanne».
Secondo la tesi di Saviano, la vittoria del campionato del Napoli equivale dunque ad una sorta di revanche della società napoletana contro anni di pregiudizi, stereotipi da una parte geografica dell’Italia ben connotata, ovvero il superbo e ricco nord Italia. Appare chiaro il riferimento alla sempiterna questione meridionale. Un elemento essenziale e peculiare è il misticismo collettivo dei napoletani, quel genius loci di cui solo la cultura napoletana è portatrice. Quel misticismo napoletano esemplificato dal murales di Maradona nei Quartieri Spagnoli, una sorta di santuario attorno a cui si è sviluppato un vero e proprio pellegrinaggio.
Pellegrinaggio che fa ricordare la descrizione che diede Matilde Serao a fine Ottocento, ne Il ventre di Napoli dove “a signora” stigmatizzava il fenomeno dell’edificazione dei tabernacoli nelle vie di Napoli in cui venivano raffigurate le immagini religiose di santi, beati, madonne, con tutto il corollario di processioni in occasioni di contigentinze particolari, fenomeno popolare definito come superstizioso in cui la ricerca delle illusioni fantastiche creava un sentimento di conforto alla vita reale fatta di disagi. Ma le analogie con l’analisi della Serao sulla società napoletana, la si può ritrovare anche nella descrizione sociologica che fece della pratica del gioco del lotto, che la Serao denunciò in un altro capitolo nel suo pamphlet:
«Ebbene, il popolo napoletano rifà ogni settimana il suo grande sogno di felicità, vive per sei giorni in una speranza crescente […] il lotto, il lotto è il logo sacro, che consola la fantasia napoletana; è l’idea fissa di quei cervelli infuocati; è la grande visione che appaga la gente oppressa ; è la vasta allucinazione che si prende le anime».
Gioco del lotto interpretato come una “speranza di redenzione”, ma che di fatto, guardandolo con occhi terzi, era una patologia di carattere sociale che degradava la capacità culturale e morale della società napoletana. Saviano nel non saper cogliere queste similitudini sembra aver abdicato a quella visione critica che dovrebbe avere l’intellettuale. Ma viene da chiedersi come sia stato possibile che l’autore di Gomorra e de La paranza dei bambini sia arrivato a scrivere due articoli usando certi toni. Un autore che grazie all’utilizzo di una scrittura fuori dai canoni stereotipati letterari post-moderni, fatta di un lessico crudo in cui stili diversi vengono mescolati – giornalismo d’inchiesta, romanzo poliziesco e biografico – ha, seppur brevemente, risvegliato la coscienza collettiva campana. Da un parte denunciando l’atrofia della borghesia improduttiva e dall’altra quella della plebe, i surrogati dei lazzaroni, i cui figli trovano la massima ambizione nel venire reclutati dalle cosche della camorre. Ecco viene dunque da chiedersi come possa l’autore dei suddetti romanzi, antitetici rispetto a una cieca esaltazione degli aspetti più popolari della società, aver partorito i suddetti editoriali.
Forse anche lui è stato colto da quel morbo che colse gli intellettuali napoletani del secondo dopoguerra, che Anna Maria Ortese descrisse molto bene nel racconto Il silenzio della ragione, che fa parte della famosa raccolta di racconti, Il mare non bagna Napoli. Scrittori come Prisco, Rea, Incoronato e La Capria che avevano rinunciato, secondo la Ortese, nel fare la propria parte di intellettuali, ovvero il venire meno al proprio dovere di creare una nuova coscienza e “guarire” Napoli. Questi scrittori, che in un primo momento, avevano cercato tramite i loro scritti di provocare una vera e propria rivoluzione culturale, credendo che l’arma della letteratura e della cultura poteva cambiare il destino di Napoli. Progetto che però rimase allo stato informe, irrisolto, perché tali scrittori, intellettuali, che volevano compiere una vera e propria rivoluzione culturale decisero di abdicare al proprio compito accettando collaborazioni con case editrici del nord Italia o di Roma, e lasciando Napoli senza una coscienza critica. Destino che oggi sembra riguardare anche Saviano.